Queste oscure materie

Del 1998 ricordo la traversa di Di Biagio contro la Francia, la pizza e il Topolino dopo il catechismo del sabato, le serate passate a leggere i Piccoli Brividi.
E poi il mutuo: il mutuo lo ricordo più di ogni altra cosa.
I miei iniziarono a parlarne che stavamo per trasferirci in una casa più grande perché mia madre era incinta. In quel periodo l’attesa del mutuo aveva monopolizzato ogni angolo di conversazione, ogni movimento.
Visti i miei dieci anni, c’erano diverse cose che mi chiedevo senza trovare risposta: perché le caccole non si possono mangiare, perché comprare le scarpe due numeri più grandi, che cos’è il mutuo.
«Speriamo che ce lo diano,» diceva sempre mio padre mentre fumava una Marlboro rossa dietro l’altra.
Nessuno volle spiegarmi che cos’era – sono cose da grandi, dissero i miei – così mi decisi a indagare per conto mio. Una mattina, a scuola, mi diressi dritto dritto da Fabio Parentini: era un grande esperto di Mini 4VD e Pokémon, e rivolgermi a lui mi sembrò la soluzione più logica.
«Il mutuo è un signore albanese» disse.
Di tutte le cose che mi ero immaginato, a quello non avevo proprio pensato.
«Come sarebbe albanese?» risposi.
«Albanese» ripeté con una sicurezza che non ammetteva repliche. «Mio padre odia il mutuo. Mio padre odia gli albanesi. Il signor Mutuo è albanese. Mi sembra chiaro».
Non vedevo crepe in quel ragionamento, mi sembrava una cosa piuttosto sensata e anzi mi chiesi come avevo fatto a non capirlo da solo.
Ma per quale motivo mettersi un signore Albanese in casa?

La faccenda si fece più seria quando un giorno mio padre entrò tutto contento in casa sventolando una lettera: la richiesta di mutuo era stata accettata.
Per partecipare ai festeggiamenti si mosse pure mia nonna, immobile sulla poltrona dal 1987.
Rimasi sveglio tre giorni e tre notti filate, in attesa, ma il signor Mutuo non si fece vedere. La risposta mi fu presto data: non era un signore. Era un bambino.
A confessarlo senza volerlo fu mia madre, che all’uscita da scuola, parlando con le altre mamme, disse che noi il mutuo l’avevamo preso di dieci anni.
Ne fui sconcertato.
Avevo una sorella che stava per nascere, c’ero già io che avevo dieci anni, e ci mettevamo a prendere un altro bambino?
«È solo l’inizio» disse Fabio Parentini, alle prese con l’Album dei calciatori Panini. «Niente sarà più come prima».
Era vero.

Dopo qualche mese, iniziarono i divieti. A cena fuori non si può andare perché c’è il mutuo; La bicicletta nuova non si può comprare perché c’è il mutuo; Il super Nintendo non si può comprare perché c’è il mutuo. Anche i vestiti, che prima andavamo a comprare all’Upim o alla Standa, non me li compravano più. Mia madre si faceva passare quelli ancora buoni dai vicini, che avevano due figli poco più grandi di me.
La cosa iniziò a diventare fastidiosa. Intanto perché questo mutuo ancora non si era mai nemmeno presentato, ma soprattutto cosa fregava al mutuo se io andavo a cena o volevo una bici?
Continuai a indagare, e tra una ricreazione e l’altra scoprii che quasi tutti avevano un mutuo a casa. Qualcuno anche già grandicello, di trent’anni.
Capii che la situazione era tragica quando una sera, non riuscendo a dormire, andai in cucina a bere. Vidi mia madre seduta, accartocciata come una vecchia fotografia tenuta troppo tempo nel portafoglio, che cantilenava: questo mese non ce la facciamo.
Piangeva piano.
Feci finta di nulla e tornai a letto, deciso a scoprire la verità.

Il giorno dopo, a scuola, Andrea Faggioli si fece avanti. Era un bambino così grasso che anche visto di profilo sembrava preso di petto. Disse che dovevamo saperne di più, che anche a casa sua le cose non erano più come prima, che era il momento di capire con cosa avevamo a che fare.
Ma non scoprimmo alcunchè e per qualche mese smettemmo di parlarne o pensarci, lasciando passare il tempo senza fare niente – attività fondamentale per chiunque voglia davvero combinare qualcosa.
Un pomeriggio di giugno io e gli altri eravamo seduti sul muretto in mattoni rossi della piazzetta vicino casa. Il sole cuoceva l’asfalto, ondulava l’aria e faceva brillare le bottiglie rotte incastrate sui muri in costruzione.
Avevamo costruito con i fili d’erba alcuni cappi per lucertole e ce ne stavamo in attesa delle prede.
«Una volta un tizio ne ha presa una grande come un cane» disse Loris. Facemmo finta di niente, attenti a non far rumore. «Se l’è portata in giro come al guinzaglio,» aggiunse.
«Bugiardo,» rispose Andrea.
«No che non sono bugiardo. Me l’ha detto mio cugino più grande, lui l’ha sentito al bar».
Ma certo, il bar: l’ho sentito al bar, l’hanno detto al bar, al bar si dice che.
Al bar, senza dubbio, sapevano cosa fosse un mutuo.
Mi alzai di scatto e dichiarai solenne: «domani andiamo al bar».

Io, Fabio Parentini, Andrea Faggioli e Loris Leoni ci trovammo alla fontana, proprio davanti al circolo.
I vecchi, seduti sulla strada, guardiani sulla soglia, osservavano le macchine passare senza perdersene una.
Il problema principale, una volta entrati nel Bar, sarebbe stato comprendere la lingua. Con il tempo, i vecchi avevano sviluppato una capacità linguistica che permetteva lo svolgimento di conversazioni complesse con il solo utilizzo di monosillabi e sporadiche parole.
Una volta attraversata la strada, fu subito chiaro che le cose non sarebbero state facili.
Dietro le nostre spalle arrivò un cacciatore, giacca mimetica e tutto il resto. Uno dei seduti fece un cenno della testa, e presero a parlare.
«Aa,» disse. («Guarda chi arriva».)
«Oh,» rispose l’altro. («Ciao, torno ora».)
«Ma?» («Preso nulla?».)
«Mmm». («Macchè, giornataccia».)
«No?». («Nulla nulla?».)
«Bah». («Davvero guarda, ho perso tempo».)
«Eee». («Non ci credo, dai».)
«Ooo». («Te lo giuro».)
«Via via». («Va bene, allora ciao».)
«Vai». («Ci si vede».)
Ci facemmo coraggio ed entrammo.
Una nebbia fitta e grigia volteggiava sul soffitto, entrava dentro dalle narici e si depositava in gola, togliendo il respiro.
Loris Leoni, che era stato al Bar un paio di volte con suo cugino, tra un colpo di tosse e l’altro spiegò che ci saremmo dovuti dirigere verso il bancone.
«È li si che si chiede le cose» disse.
Solo Fabio Parentini era abbastanza alto da poter superare il bancone e parlare con il barista. Noi potevamo solo appoggiare le mani sul granito e rimanere appiccicati in quel liquido misto di cedrate, vini sporchi, e saliva.
Il barista ci guardò incuriosito, e ci chiese cosa volevamo.
«Un caffè,» suggerì Loris a Fabio. «Si vuole un caffè».
«Quattro caffè», disse Fabio. «Mi raccomando però, corretti».
Si girò verso di noi e ci spiegò che suo padre lo prendeva sempre corretto, e che se non l’avesse specificato avremmo fatto la figura dei bambini e c’avrebbero rifilato un caffè sbagliato: la copertura sarebbe saltata all’istante.
Bel colpo, pensammo.
Il barista sorrise guardando di sottecchi gli altri personaggi che gravitavano lì intorno. Potevano venire dal paese accanto come da Marte, tanto erano diversi dalle maestre o dai nostri genitori: sembravano stare in piedi per miracolo, storti com’erano. Aspiravano forte un tiro dietro l’altro dalle loro sigarette, ma la cenere non cadeva mai. Di lavoro facevano gli angoli del bar.
«Ecco qui,» disse il barista poggiando le tazze sul bancone.
Non potevamo fallire: tutti adesso erano concentrati su di noi in attesa di quel rito, perché il principio di conservazione della provincia va garantito, costi quel che costi.
Il tempo rallentò fino a fermarsi, come se fossimo all’interno di un orizzonte degli eventi da dove si può vedere il sole esplodere e dietro il sole mille stelle e mille altre ancora.
Afferrammo le tazzine bollenti e buttammo giù tutto d’un sorso.
Un attimo dopo eravamo fuori, a sputare e trattenere gli urti del vomito, già barcollanti.
Dietro le nostre spalle, i vecchi ridevano.

Non seppi più niente di quella storia per anni, fino a quando mia madre radunò tutta la famiglia in salotto e annunciò che il mutuo si era estinto.
Finalmente tutto mi fu chiaro: il mutuo era un dinosauro.