Voci dal crollo

Luogo dell’azione: Un qualunque palazzo
Tempo dell’azione: Ieri, oggi, forse anche domani
Personaggi: La Sig.na Lingua (in absentia)
La madre, Sig.ra Parola
Gli inquilini
La portinaia e suo figlio

La signorina Lingua, -ina perché con corteggiatori molti ma malgrado tutto ancora da sposare -, per gli amici solo L., dal sesto piano urla “Ed io non posso più esser io!” prima di buttarsi di sotto a capofitto, come se giù avesse da trovare un mare e invece c’era solo il pavimento dell’androne, nessun divino amico più l’afferra.

“Si è buttata o l’hanno spinta?”, sussurrano le malelingue del quinto, le protolingue degli altri, gli inquilini ricchi, quelli dei piani e dei registri alti, che sono i soli rottami possibili adesso, detriti fonici post-mortem. Non sanno che sono caduti anche loro con lei: morta la figlia sono orfani di senso, e a nulla varranno gli altisonanti sostantivi in -zione, scudi di fumo.

La madre Parola, madrelingua inconsolabile in un angolo, con mani di pazza e ginocchia anche: “Miserere di me, ma tu guarda, figlia, figlia mia, come mi si è ridotta, come mi si è ri-det-ta in bocca, pare un’afta, non ha capito e ri-detta, non ha ricapito e ridaje, ricapitolo, arreto?”.

Insomma, la signorina L. era arrivata, pare, ad un bordo o ad un punto, appena prima della rima, dove poi non è riuscita, non ha retto, e vani i pochi avvertimenti, come altrettanto gli incoraggiamenti – su, ritenta: si scivola perché è appena lavato per terra, attenta: a cosa dici, a dove metti i piedi, a cosa aggiungi e a cosa invece levi, i semi-piedi, gli emistichi e altre amenità per leopardiani veri.

Che poi le sillabe chi le conta più, è demodé, le aveva detto a L. appena ieri quella del quinto – che di mestiere fa il poeta di ricerca, ma non prende un euro dal ’63 – quando l’ha vista triste con la gonna logora sotto il ginocchio, lunga e fiorata che pareva quella di sua nonna. E la vicina dirimpetto, la vedova Lirica, si arrabbia, forse perché anche lei mette le gonne lunghe con i fiori invece che il nero del lutto e crede ancora nel romanticismo; le grida contro che lo sanno tutti invece che se L. si è buttata, è per colpa di quel Sanguineti, di quel Beckett, di quel Bernhard, di quel Villa, insomma di quel ragazzaccio, comunque egli si chiami e il nome non importa ma il peccato sì, che l’ha spolpata tutta dal di dentro, ed ella infinitamente ne soffriva, di quell’amore senza tu e senza senso.

Tutta rotta, rabberciata, aveva fatto le scuole al contrario L., e sgretolava masticava ciucciava gli ultimi pezzi del sillabario come si fa con le alette del pollo. Il caseggiato in generale è fatalista, qui non esiste ricetta per dove cade l’accetta, dicono, proprio una brutta faccenda, sembrava felice, contenta, appena ieri l’ho vista che rientrava da fare la spesa, fischiettava che pareva un’allodola, un’operetta, madre de dios, commentano gli spagnoli del quarto stretti a capannello, sarà stato il vento, dicono faccia ammattire il buon senso, e loro di pazzia ne intendono, loro con il loro cavaliere, Es el viento…! El maldito viento solano, que saca a la gente de quicio!, e in effetti lo senti che sdrucciola il vento, sgocciola lento sul tronco, tronca la frasi, e da giorni stagna profondo sul piano, tricolon, cola lungo la curva dell’iperbole…e se si fosse fatta lei da sola per sbaglio uno sgambetto? (questi i francesi malpensanti, che ricorrono a mezzucci ed espedienti tipo appunto gli sgambetti o perché no il veleno), basta poco in fondo, un piede in fallo e trac, si sa, l’enjambement… Comunque tutti dicono povera che brutta fine, ma in fondo noi del palazzo ce lo aspettavamo, tutta bucata com’era, non si può dire avesse una bella cera…

Thomas è un tedesco che non c’entra (nel senso che è troppo grande, non ci entra) e sembra non toccato dalla cosa, o forse troppo, lì nel suo monolocale da esiliato, “dove sono io”, ripete come una montagna, innamorato deluso (ma non gli piacevano i ragazzini?), “lì, c’è la Signorina Lingua”. Al terzo c’è una comunità di greci, dicono che la ragazza fosse impossessata, da quando è passata la riforma dell’ortografia gli spiriti che hanno tolto dal testo la perseguitavano di notte, senza tregua – proprio come il folletto del Tasso, che gli confondeva le carte!, rincalzano gli italiani più visionari, tra cui appassionatissime le due vecchiette mistiche, Elsa e Anna Maria. I neorealisti, veristi, iper-realisti, quelli a cui piace l’autofiction, dal canto loro negano positivisticamente l’esistenza dei fantasmi, ed hanno massima fiducia, dicono, nel lavoro della magistratura.

Al secondo ci abita un certo Pier Paolo, la polizia incaricata al sopralluogo non gli dà molta retta, borbotta qualcosa sulle lucciole, le lucciole, la scomparsa delle lucciole, ma certo non passerà a verbale quel non-sense, la polizia non ha buon tempo per complotti, semmai li ordisce.

Secondo quelli del primo, i Grammatici, che avrebbero i soldi per stare al quinto ma rimangono invece da basso per – dicono loro – sorvegliare le entrate e le uscite (non tutti i lemmi sono bene accetti in un palazzo che si vuole rispettabile), soltanto questione di tempo era per lei il cadere.

Ed è lì che l’hanno trovata, irriconoscibile, spappolata per il gran tonfo, proprio lì in un buco profondo, un cratere tremendo, che è para-centro perché paradosso e periferia, fatto di slang e italiano sub-standard, proprio lì è caduta ed è rimasta, al pianterreno, dove cola ora il suo sangue come un filo nero che le parte dal cervello e ha la forma curiosa di un apostrofo, e le parti, i pezzi di lei sono come parole – tra noi leggére. L’hanno trovata lì, la Signorina L, il suo corpo – ma la sua anima è nel vento, anemos: cioè dove cade l’accento.

Post-scriptum: La portinaia è pragmatica: come faremo, a lavare tutto quel sangue? Poi grida a suo figlio Walter che smetta di leggere il fumetto, che la aiuti a passare lo straccio. Lui aiuta, buono-buono, e però ha visto tutto, tutto ha sentito col suo orecchio polifonico, con il suo naso camuso ed attento: così racconterà, da bravo narratore, e da quella morte di L. saprà trarre – come altri prima di lui – la sua splendida, immortale autorità. Fino alla prossima caduta.