E mogge di maiæ no son né vidue né maiæ… Un matrimonio combinato che avrebbe voluto dire rimanere vedova qualche anno più tardi – lui era rimasto schiacciato da una trave di acciaio nei pressi dei Finger Lakes – lei non l’aveva mai accettato. Ultima volontà di suo padre, sul letto di morte. Aveva seguito controvoglia il fratello a Rochester, tenendosi stretta il suo cognome di ragazza, nel maggio del 1902.
Quando il telegramma li aveva avvisati dell’incidente all’acciaieria, lei era scoppiata a ridere e il fratello le aveva rifilato uno schiaffo che l’aveva fatta cadere per terra.
Mamma da morta ti maledirà, gli disse. Da quel momento non si parlarono più. Si trovò da sola, fuori di casa, a sedici anni.
Sempre a Rochester, si era ricongiunta con un cugino di Genova e aveva vissuto un anno facendo i lavori nelle case delle signore. Quello le aveva presentato un compare, uno spezzino, che la portava in giro nei bar; aveva addirittura una bicicletta rossa con cui veniva a prenderla.
Poi una volta, a settembre, fece l’errore di infilarsi con lui nel fienile del padrone di un campo di granturco, non accorgendosi che il fratello e altri uomini lavoravano proprio in quel campo. Il colono li vide e sbraitò come un matto, e tutti accorsero e i giochi furono fatti.
Non ebbero molta scelta, partire o farsi ammazzare. A San Francisco lo spezzino aveva due cugini che lavoravano al porto. Partirono. Lei dormiva con la testa sulle sue gambe, lui le teneva sempre la mano. Durante il viaggio parlarono molto. A lui era venuto in mente un proverbio che gli era sempre piaciuto: le mogli dei marinai non sono né vedove né maritate. E lei, anche non potendo intendere l’ironia di quelle parole, si fece bastare l’idea che potessero appartenerle.
La baia, il mare, la impressionarono. Chiese di essere portata sul grande ponte per ammirare il panorama. Sulle colline le piante si agitavano ad ondate furiose, non pioveva, ma il cielo nebbioso spruzzava una bava umida e frizzante.
Ma quelle non sono ginestre fiorite? gli chiese, ma lui non sapeva la risposta. Sono come quelle da noi in Liguria.
Ma come avevano fatto ad arrivare fino lì? Erano arrivate con le navi? C’erano sempre state? Il vento quel giorno trascinava via come la corrente del mare. I poliziotti li controllavano a vista. Lei spaventata si era aggrappata con lo sguardo alla linea del promontorio, verso un punto senza case. Un tipo da una casupola gli gridava contro agitando una bandiera, come back come back! Per poco una folata di vento non li buttò in mezzo alla carreggiata.
Aspetta, aveva detto. Mi devi dire che mi sposi, che diventi mio marito.
Anche alla sorella aveva detto che si era imbarcato per l’oro, e lei, quando si abbracciarono al porto, gli fece capire che non c’era più bisogno di mentirle. Sapeva che laggiù lo aveva attratto un desidero incommensurabile che con l’oro non aveva niente a che vedere. Di vero c’era solo che l’oro gli era sembrata l’unica opportunità che aveva. Ci rimuginava da parecchio tempo, almeno da quando nella baia di Valparaiso avevano iniziato a fare capolino trasbordatori e commercianti.
L’inverno del 1850 aveva lavorato su un brigantino come riparatore. Un mozzo che conosceva la rotta gli aveva detto che un gruppo di uomini sarebbe partito alla fine di aprile. Tutti diretti alle montagne della costa ovest, che lui non sapeva né dove fosse né come fosse fatta.
Miniere. Lavoro. Questo era riuscito a immaginarselo bene. Ammesso per la traversata, non senza le solite mortificazioni che nel tempo si era abituato a ricevere, seppe che la nave avrebbe fatto un solo attracco a Panama prima di raggiungere la California. Nell’infinità di tempo da perdere dopo il lavoro a bordo, davanti all’oceano intatto, si sentiva libero; ma era un tipo di libertà sofferta e popolata di fantasie. Le contenne per tutto il viaggio, assaporando il futuro, giocando a dadi, perdendo soldi. I suoi compagni di viaggio erano uomini semplici: senza nulla di cui vergognarsi, si identificavano nella povertà e nella ricerca di un lavoro. Con lui avevano in comune il fatto di volersi rifare una vita, e questo bastava per tenere a freno i loro eccessi goliardici.
La baia di San Francisco gli apparve gigantesca e grigia. Sul ponte ritrovò dei compagni che parlavano con alcuni uomini saliti a bordo. Quelli gli fecero segno di unirsi. Gli dissero che bisognava stare attenti agli ufficiali dell’immigrazione, ma che loro potevano coprirlo per pochi pesos fino a Coloma, seguendo la strada del fiume. Dal finestrino del carro vide i doganieri che intascavano i suoi soldi.
Vide i campi aperti e le montagne. Il paese era un incrocio polveroso da cui partivano file di locande. Prese stanza insieme a quattro uomini, compaesani di Santiago. Si lavò e indossò una camicia fresca. Gli sembrò di poter accarezzare il collo di un uomo, un uomo di cui si prendeva cura, una persona gentile.
Si sentì libero a passeggiare in quella nuova terra, vedendo le strade larghe e i lampioni a gas. Riconobbe ragazzi che dovevano essere cinesi. Si spinse fino alla chiesa in fondo a una discesa. Pensò, per la prima volta, che forse anche lì non avrebbe potuto incontrare qualcuno in grado di capirlo, e questo gli mise addosso un un grande senso di malinconia. Ripensò alla sorella, alla madre. Si accorse che stava parlando da solo e si vergognò.
Aveva iniziato a camminare per una stradina che si arrampicava verso la montagna quando intravide un santuario isolato. Scorse una madonna bambina, dagli occhi dipinti. Quel posto gli ricordò i pascoli sopra le gole di Valparaiso. Querce scure e gigantesche, piantate direttamente nella roccia; cielo e nuvole. Riconobbe i cardi. Sono in una casa simile alla mia, si disse.
Se c’è una cosa che pensa possa rendergli giustizia è potersi ammazzare. Tra le sue colline, per giunta. E quante volte è venuto a camminare tra questi cespugli, nel charrapal… questa parola che gli ha sempre ricordato di dovere essere sempre rispettoso di questa terra.
Soprattutto della gente che ha fatto questa terra, dei morti, pensa.
Pensa ai suoi genitori e traccia una linea. La attraversa. C’è una grande calma. I rosmarini sono cresciuti poco, molti boschi sono stati distrutti dal fuoco. Non ha piovuto. Ossa di animali negli spazi lasciati dalla vegetazione.
La terra rossa è coperta di spine. Un calvario, dice.
Ma a tratti, dentro, gli sembra ancora di sentire una forza. È qualcosa che ti riporta in vita, ma poi si esaurisce subito. Neppure un’illusione, ma un contentino, un briciolo di impossibile giovinezza.
Quando smette di immaginare, ragiona. Gli viene in mente un’immagine atroce: le chiavi lasciate inserite nel cruscotto della Ford.
Pensa alla sua macchina che rimane accesa, mentre lui è morto dietro la collina.
Maledizione! Forse dovrei tornare a spegnerla.
La pioggia ritornerà in questo punto, quando sarò seppellito, e lentamente dirà a questa pianta di rifiorire. Questo cespuglio qui. Di nuovo lo avvolge il senso sfumato di una gloria che si spande sopra tutte quelle piante, sopra le colline. Generazione estinte. Cimiteri di guerra. Che cosa ridicola, pensa. Tutti questi fiori non credono a niente. Una fioritura appresso all’altra, una nuova stagione. Non hanno morti a teatro né corridoi di ospedali.
La terra, pensa. La terra.
La pistola l’ha comprata da un rivenditore sulla Orange Grove. Camminando tra le teche di cristallo, si era di nuovo sorpreso a riflettere sugli ordini, le tassonomie, le necessità di catalogazione a cui anche la sua vita si era dovuta piegare. Così stupidamente era successo tutto, così velocemente.
Scriveranno: Sessantasei anni, ex capitano della Marina Militare, indossa al momento del suicidio jeans, una t-shirt giallo senape e scarpe da ginnastica bianche. Nessun segno di colluttazione. Un colpo alla tempia destra sparato a bruciapelo. Allegata pistola marca Glock, calibro 22.
Baci male, le diceva sempre. Devi farlo così. Però a lei con la lingua non le andava. Le gambe intorno alla vita sì, anche girandosi da dietro, sentendosi nuda, calda, mentre lui pesava e la baciava dappertutto. Lui spingeva la lingua dentro la sua bocca, non le piaceva quella cosa, voleva leccarle i denti da dentro. Mi devi sposare, gli aveva ripetuto, e lui si era alzato e si era rimesso le braghe. Poi era tornato indietro verso il porto dove lo aspettavano per imbarcarsi di nuovo. Erano le tre del mattino, l’aria era fredda e sapeva di fiori. C’era sempre tanta nebbia, era sempre umido. Lui ogni tanto le portava un mazzetto di erbe fiorite, come ai conigli; lei riconosceva tra quelle piante alcuni odori di quando era bambina.
Non aveva più avuto notizie di suo fratello da quando era andata via. Però gli aveva scritto, una volta. Si era sentita in colpa per le tante cose non dette. Lui non le aveva risposto.
Poi a Natale arrivarono finalmente due lettere, una da Genova e una da Rochester. La prima conteneva una foto della madre, seduta sulle scalinate sopra Sampierdarena. La seconda un foglio grande, pieno di macchie e di correzioni. L’aveva scritta il cugino. Gli avevano detto che il fratello aveva lasciato i campi ed era andato in California, e credeva che un giorno o l’altro sarebbe venuto a trovarla. Di più non diceva.
Allora lei rimase un po’ con la lettera in mano. Le crebbe un senso di preoccupazione. Scrisse al cugino che gli voleva bene; e che pure se quell’uomo non l’aveva ancora sposata era per lei tutta la sua vita, erano i suoi sogni, la sua anima.
In cuor suo implorò il fratello di non fare pazzie.
Si mise di nuovo ad aspettare.
Persi di vista i compaesani di Valparaiso, aveva iniziato a lavorare con i santiaguinos alla costruzione dei binari per il trasporto della ganga. Il suo caporale non era cileno. Era un argentino basso, scuro e con gli occhi azzurri. Dietro le spalle gli dicevano pellizco, cioccolatino. Visto che si faceva la fame, ognuno aveva un nomignolo che ricordava qualcosa da mangiare. C’erano Choclo, mais; Rojoto, peperone; Albahaca, Chumbeque, Choriqueso. A lui lo chiamavano Humita – il desiderio di ogni minatore – e gli facevano il gesto della gonnellina.
Non ci faceva troppo caso. Era meglio essere presi in giro che essere odiati come Pellizco. Pellizco mandava gli uomini a spezzarsi la schiena, a morire. La sera al paese beveva insieme agli sbirri. Però lui non lo odiava. Non riusciva a odiare uno con quegli occhi. Avrebbe voluto stare con lui da solo, parlarci, accarezzargli i capelli, raccontargli di casa sua. Gli sarebbe piaciuto farsi toccare da lui.
Aveva visto l’oro nella pietra: gli sembrò di assistere a uno strano miracolo. Superò l’inverno e la primavera. Si metteva in marcia quando fuori era buio. Respirando per la salita, attraverso la condensa del fiato, vedeva di sfuggita le cime irraggiungibili delle montagne.
Un pomeriggio di giugno si fermarono delle carovane nella piazza del paese e all’inizio pensò che si trattasse di un gruppo di nuovi minatori. Poi si ricordò che era San Juan e imbandivano le strade per il giorno di festa. Questo pensiero lo riempì di entusiasmo. Si presentò presto al cantiere la mattina dopo, il piccone gli sembrò leggero. Tornato alla locanda sì lavò per bene, si mise l’acqua di colonia e un nastro azzurro intorno al collo. Le strade erano piene di uomini, irriconoscibili quanto si erano ripuliti. Gli sembrò che quel crocevia si fosse trasformato in una città.
Passò la notte aspettando sotto la tenda, bevendo e accettando per gioco che gli uomini lo invitassero ai balli. Pellizco non era venuto, lui aveva continuato ad aspettarlo. Alla fine si accorse di aver bevuto così tanta birra che non si teneva più in piedi. Si sentì male, barcollò oltre il prato che divideva il ranch dalla foresta e si infilò tra gli alberi. Mentre si sbottonava i calzoni si trovò di fronte due uomini che per un momento non riconobbe e che vedendolo lo presero per le braccia e lo tennero stretto. Gridò, ma non per la paura: gettato per terra, nella semioscurità, c’era il corpo di un uomo. Aveva la testa in una posizione innaturale, i capelli pieni di terra e di foglie. Riconobbe Pellizco dagli occhi.
Forse scriveranno: compagna della vittima morta di cancro, due ipoteche sulla casa, ritiratosi dal servizio nel 2015.
Oltre la linea della costa il mare sembra respirare. Ci sono stati sicuramente dei punti in cui la vita si sarebbe potuta incanalare in un altro corso, produrre altre manifestazioni. Vista da lì, la morte atroce di sua moglie non è rilevante, come non è rilevante che qualcuno sia proprietario di pezzi di casa che avevano costruito insieme. Così lontana è la memoria di quel giorno all’ospedale militare, mentre gli facevano vedere la lastra, i polmoni macchiati da quei buchi neri.
Due anni c’aveva messo a morire e lui era invecchiato di dieci. La malattia della moglie lo ha massacrato al punto che non fa più differenza: sarebbe morto consumato dalla vita anche se si fosse ammazzato.
In fondo al sentiero si sente di fronte a un nuovo bivio. Procedere o fermarsi? Non così presto… procedere. Prende a camminare tra i cespugli, verso la costa.
Azioni ridotte a due riflessi primari, camminare e respirare.
È questa l’ultima strada?
Si tocca il collo e la barba sfatta. Oddio. Cristo. Perdonami.
Sapeva che suo fratello era uomo di parola. Quando si presentò, il 3 gennaio, aveva il fucile a tracolla come i cacciatori. Lo aveva riconosciuto dai passi che pestavano le tavole gelide del patio. Da dietro la porta, gli implorò di andare via. Nel nome del diavolo, non l’avrebbe mai perdonato. Lui era rimasto in piedi, poi diede un calcio alla porta. La ragazza vide la tua testa armeggiare intorno alla finestra ed urlò ancora più forte.
Si spinse dentro della finestra.
Vi siete sistemati bene, disse puntandole contro il fucile. Vi siete proprio sistemati bene.
Lo spezzino tornò alla solita ora. Notò i vetri per terra ed entrò di corsa, ansimando, con un mazzetto di fiori secchi ancora tenuti nel pugno. Chiamò come sempre il suo nome, ma quel giorno non riuscì a finire di dirlo. La vide impietrita sulla sedia, con le mani che impedivano alla gola di urlare. Si sentì sprofondare una spalla con un suono pesante. Forse a quel punto aveva realizzato che stava per scivolare, un attimo prima che lei provò ad afferrarlo. La sua testa sfondò il piano di cristallo della vetrina. Lo sparo neppure lo sentì.
Avevano detto a bassa voce il suo nome, Humita. Gli promisero di cavargli gli occhi se avesse fiatato. Ma lui pensò che senza nessuno da guardare, senza uomini e bellezza, gli occhi non gli servivano più. Presero a sfilargli le cose che aveva addosso, anche l’orologio da taschino che gli aveva regalato la madre per farlo sentire più uomo. Sputò in faccia a quello che gli stava davanti. Gli rifilarono un pestone e lui si inginocchiò.
Immobile aspettò il secondo calcio e poi il terzo piombare su di lui come una grandinata. Sentì un colpo duro dietro le costole, poi tutto diventò buio.
Lo aveva svegliato il sapore del sangue, pieno dei vapori dell’alcool. Aveva rivisto Pellizco con la testa nel terriccio. Un gorgoglio gli fuoriuscì dai polmoni. Non muoveva più le gambe, non le sentiva più. Quanto sarebbe passato prima che qualcuno scendeva in quel bosco? Che cosa gli avevano fatto? Chiuse gli occhi, pensò che fosse meglio restare immobili e aspettare.
Lo avvolse un senso profondissimo di stanchezza. Muoveva la bocca, gli pareva che dovesse muovere la bocca per afferrare l’aria, per succhiarla.
Si risvegliò di nuovo con un pensiero nero, un sogno che lo aveva spaventato al punto che cercò di alzarsi. Chiamò aiuto nella lingua che gli aveva insegnato sua madre, urlò, ma la bocca non produceva più parole. Un dolore indescrivibile lo prendeva da dentro e lo squartava. Sorella, pensò, sorella. Non ce la faceva a girarsi.
Svenne.
Si risvegliò altre volte. Ogni volta vedeva il sole che faceva mostra di sé tra le fronde degli alberi. Fremiti e frasi sconnesse gli ballavano in testa, che giorno era, che ora era. Chiese misericordia a San Juan. Crollò.
Poi ci fu un momento in cui vide che le radici delle querce scomparivano dalla vista e allora capì che il bosco non era pericoloso e che anzi lo stava proteggendo. Cercò con la bocca lo stelo di una pianta e si rese conto che non era più in sé, che stava giocando, stava facendo una cosa che avrebbe fatto da bambino, mettersi in bocca le cose che gli erano più vicine.
Un uomo trovò i corpi il giorno dopo mentre andava a fare legna. In paese avrebbe raccontato che Pellizco aveva visto la morte in faccia, ma Humita no, aveva la sua solita espressione bonaria e lieve. Sembrava che fosse morto senza sofferenza, come se stesse pensando a qualcosa che lo rendesse felice.
Nessuno scriverà: ritrovati due proiettili a 450 piedi di distanza, sparati dalla stessa pistola.
Eppure tutto avviene in una grandissima quiete. Il mare e la terra sono la stessa sostanza. Quante volte aveva preso il mare mosso senza spaventarsi? Ma perché questi pensieri? Perché? Gli sarebbe stato tutto più semplice se non fosse stato costretto a pensare. C’era stato quel giorno in cui si era sentito a suo agio ad eseguire gli ordini che gli venivano dati. Se lo ricorda bene. Era stato un bel giorno, quello.
Capitano, sull’attenti per l’alzabandiera!
Gli uomini alzano le punte dei fucili al cielo.
È suo diritto poter disporre dell’ultima cerimonia.
Mette un proiettile nella pistola, carica.
Fuoco!
Il rimbombo del tuono copre per un momento tutto lo spazio. Una nuvola di anatre selvatiche si condensa sul crinale delle colline, così grande da oscurare il sole per un momento.
Accidenti! Dove diavolo si erano nascoste?
Senza fiato, con le mani che tremano per l’emozione, guarda tutte quelle pance piumate, i becchi che infilzano l’aria, quell’esercito di zampe. Poi infila il secondo proiettile e resta in silenzio.
Fuoco!
Era così tanto tempo che non si emozionava per qualcosa, che non sentiva le lacrime inumidirgli gli occhi. Maledizione, maledizione, pensa. Aveva diritto a un funerale miliare, ai tre spari di commiato.
Al diavolo! Sull’attenti! Ordini che gli erano sembrati dotati di senso. Il mare abbraccia tutte le terre. Coraggio.