Due novembre

[Anticamera della morte, nascita: primo capitolo. Leggi gli altri]

La fila di zucche appoggiate sul muretto tra le due fattorie sprofondava sotto la pioggia leggera ma continua che assillava la Bassa dalla sera prima.
Sembravano facce di spiriti dispettosi, determinati a sghignazzare fino all’ultimo istante prima di sciogliersi, nonostante l’assillo dei moscerini e delle muffe e l’acqua che imputridiva le morbide bucce arancioni. Di una di esse non rimaneva che il coperchio, come se il resto si fosse dissolto nell’impatto con le pietre e la calce sottostante a seguito di un incidente.
La scena di un crimine, pensò Chiara per un istante, rigirandosi quel trito e televisivo accostamento di parole in bocca. Non riuscì però a sorridere, nemmeno per un momento. In quelle fattorie abitavano bambini.

Gli stivali di plastica neri affondarono in una pozzanghera gigante, Chiara sentiva il freddo penetrare attraverso le calze. Il marciapiede non c’era, il bordo della strada era costellato di buche e lunghe crepe si diramavano lungo l’asfalto colmandolo d’acqua.
Avrebbe dovuto fare almeno un paio di chilometri per raggiungere il centro del paese, mentre ora si trovava ancora in campagna. La piatta, sconfinata, pianura l’angosciava e la rassicurava al contempo. L’aria era greve, le nuvole dense e incollate fra loro. C’erano le fattorie, i porcili, le case sparse circondate da recinti, arbusti, granai, e poi c’erano il cielo e la terra, o la terra e il cielo, che erano entrambi piatti, senza dimensione, incollati in maniera oscena l’uno all’altra, quasi a voler vietare ogni movimento e autonomia degli esseri viventi in quel luogo. Ogni passo era un affronto alla gravità, alla pioggia, al freddo, una sfida che pareva insensata ma necessaria. Anche il solo andare da un punto all’altro privava il corpo di forze e calore, ma era l’unico modo di esprimere la presenza di una volontà in quel luogo che ostentava indifferenza verso l’umano.

Il bambino era stato ritrovato morto la mattina stessa. O meglio, varie parti del corpo del bambino erano state ritrovate quella mattina, nel giardino della casa arancione, vicino all’argine, ancora disabitata dopo il terremoto. Porte e finestre erano sigillate, le pareti esterne ricevevano il sostegno di assi di legno puntellate come lunghe zanne su due lati. L’intonaco era pieno di crepe e in vari punti scopriva i mattoni intaccati dalle muffe.

Chiara si era trovata lì, per caso. Aveva portato fuori il cane, come faceva sempre, ogni volta che tornava dalla città. Rosa, sua nonna, aveva novantadue anni ed era cieca da un occhio ma non aveva mai voluto lasciare quel posto, nonostante i pareri dei parenti. Chiara la capiva e le aveva dato ragione durante l’ultimo, definitivo, litigio con le figlie e i cognati. Si era messa di traverso, come la nonna, sostenendola, cocciute tutte e due, tutte e due con un brutto carattere. Si era presa delle responsabilità, quel giorno, ignorando lo sguardo accusatorio di sua madre e l’insofferenza della zia. Lei, Chiara avrebbe controllato i viveri, il sistema di riscaldamento, lo stato della casa per tutto l’inverno. Due volte a settimana. Il mercoledì andava e tornava in serata, dopo il lavoro. Mentre il sabato e la domenica si trasferiva da Rosa, nella vecchia casa a due piani su via Matteotti, che la nonna non aveva mai voluto vendere. Non dopo la morte di suo marito, molti anni prima, non dopo che le sue figlie si erano trasferite in città, non con l’avanzare della vecchiaia e nemmeno, infine, qualche anno prima, con l’avvento disastroso del terremoto, che aveva fatto crollare la cantina.
Il cane, incrocio tra un maremmano e un lupo, era silenzioso e anziano, senza un nome. Rosa, come aveva sempre fatto, lo teneva fuori, alla catena, d’estate e d’inverno, di notte e di giorno. Chiara aveva il compito di portare fuori il cane, di fargli sgranchire le vecchie zampe tra le pozzanghere dei campi e il fango dell’argine.
Quella mattina, sabato due novembre, non erano nemmeno le sette quando il cane aveva iniziato a guaire e abbaiare con un’insolita insistenza. Chiara era scesa dal letto, appoggiando le piante dei piedi sulle mattonelle ghiacciate e dalla finestra aveva visto il cane dimenarsi tirando la catena. Aveva mandato giù un goccio di caffè riscaldato, si era chiusa attorno al collo il giaccone imbottito e la sciarpa di lana ed era uscita con l’intento di slegarlo e farlo calmare.
Il cane si era messo a ringhiare e quando gli si era avvicinata per liberarlo le aveva morso una mano.
Era rimasta sbalordita, guardando il segno del morso arrossarsi e poi riempirsi di sangue. Non era mai successo prima. Il cane era scappato verso il campo ed era tornato poco dopo ansimante, più calmo ma vigile. Chiara gli aveva legato il guinzaglio al collare e si era lasciata condurre da lui lungo la solita passeggiata, verso il fiume.
In prossimità della casa arancione, vicino al pioppeto, il cane aveva ricominciato ad abbaiare e a ringhiare e Chiara aveva mollato il guinzaglio, lasciandolo correre avanti.

Si era perso tra i cespugli e il verde che cresceva rigoglioso, senza più preoccuparsi di tornare indietro. Chiara lo aveva seguito, ferendosi le gambe con i rovi, nonostante i jeans ruvidi e pesanti. L’edificio si scopriva man a mano davanti ai suoi occhi. Le finestre sembravano palpebre cucite con il fil di ferro e l’intonaco una pelle butterata. Nell’insieme la casa sembrava sorridere.
Chiara aveva fatto ancora qualche passo, tra gli alberi, poi lo aveva trovato. Per terra c’era il bambino. La mano, bianca, tra le foglie, il braccio, il busto. Poi la vista le si era confusa, le parti del corpo erano frazionate come anche la sua capacità di vedere, niente seguiva un ordine, una logica.
Aveva urlato o forse era rimasta in silenzio. Nella sua mente erano presenti entrambe le possibilità. Il cane premeva il naso contro qualcosa, smuoveva le foglie, si avvicinava troppo. Chiara aveva afferrato il guinzaglio e lo aveva tirato indietro, con tutta la forza che aveva, nella schiena, nelle braccia, ti prego vieni via.
La casa nel frattempo stava a guardare.
Chiara aveva preso il cellulare dalla tasca del giaccone e aveva composto il numero della polizia, poi aveva fatto di tutto per riportare il cane sulla strada di terra battuta, una ventina di metri più in là.
Quando finalmente erano arrivate le volanti, aveva visto il blu elettrico attraversare il grigio della pianura. Le automobili si avvicinavano con le sirene accese, risvegliando dal torpore i campi, i pioppi, i fili d’erba appesantiti dalle gocce di pioggia.

Le avevano detto di stare indietro, poi le avevano fatto delle domande, mentre il cane abbaiava insistente, coprendo le sue parole.

Adesso era quasi ora di pranzo, mentre gli stivali neri di plastica affondavano di proposito nelle pozzanghere, affiancate dalle zampe fradice del cane.
Chiara pensò a Rosa, sicuramente si era svegliata ed era andata a prendere la legna in cantina, per la stufa. Forse si era messa a raccogliere i cachi dall’albero in fondo al campo. Chiara si chiese se Rosa sapeva, se aveva visto, alla televisione, o se un vicino di casa le aveva già fatto il servizio di avvisarla, con la scusa di portare un pezzo di manzo per il brodo, o un po’ di gallina.
Avrebbe dovuto tornare a casa, parlarle, dirle di stare tranquilla. Ma non ce la faceva. Guardò i campi, il cielo, la terra brulla e scura, dove solo pochi mesi prima crescevano, alte come giganti, le piante di mais. Il cane era stanco e affamato. Non abbaiava più. Avrebbe dovuto trovargli qualcosa da mangiare, sempre che non ci avesse pensato da solo, nel fogliame davanti alla casa. In quel caso lo avrebbe lasciato digiunare, per punizione. Lo guardò. Aveva il muso sporco di terra, i due piccoli occhi vispi come bottoni lucidi fra il pelo arruffato. Le fece tenerezza, gli accarezzò la testa. Certo che gli avrebbe dato da mangiare. In paese avrebbero sicuramente trovato qualcosa.

Continuarono a camminare, sotto la pioggia, fra le pozzanghere, sull’asfalto dissestato ma tuttavia più insidioso per le automobili inesperte di quelle zone che per loro. Le case sparse, da entrambi i lati della via, erano schiacciate sulla linea dei campi. Ogni tanto una finestrella illuminata, un trattore che si muoveva lentamente, l’abbaiare di un cane.

Chiara vide il paese, dietro l’ultima casa. All’ingresso, sospese sulla via principale, erano state accese le luminarie di Natale, rosse, gialle, verdi, a intermittenza. Si fermò, lasciando che il cane annusasse il bordo della strada. Era ancora il giorno dei Morti, e la voglia di entrare in paese le era passata.
Cambiò direzione, voltando le spalle alla strada addobbata a festa.
Rosa sicuramente si stava chiedendo perché ci mettessero tanto a tornare.