Surgelati

Ci sfioriamo i gomiti al supermercato, di fronte al banco surgelati, e subito la riconosco. Lei ha lo sguardo basso, si scusa e si allontana. Non credo ai miei occhi, la chiamo per nome. Ci mette un secondo a riconoscermi poi spalanca la bocca.
«Dio mio!» esclama.
«Non ci credo!»
«Come stai?!»
«Bene, io bene, tu?»
«Bene grazie…»
«Quanto tempo?! Dieci anni?!»
«Non lo so, forse di più. Cosa mi racconti, cosa…»
«Forse dodici, dalla laurea di… come si chiamava?!»
«La festa di Giacomo!»
«Esatto! Giacomo, quanto tempo!»
«Incredibile, ma cosa fai qua?»
«Mah niente, la spesa! tu?»
Ride come dodici anni fa e ho un tuffo al cuore.
«Anche io la spesa!»
Agita una confezione di minestrone surgelato. Ha i capelli lunghi adesso, il viso spigoloso, ma il suo sorriso non è invecchiato. Le dico che la vedo bene, in forma.
«Grazie! Dici? Non è vero, il lavoro mi uccide!»
«Ma dimmi, che fai adesso?!»
«Insegno, più o meno, sostituisco.»
«Sul serio?!»
«Sì, mi spediscono ovunque! È faticoso.»
«Immagino.»
«Però formativo, sai, ogni mese persone nuov-»
«Senti ma perché…»
«Cosa?»
«Perché non ci prendiamo un caffè qua fuori?»
«Dai!»
«Al bar di fronte.»
«Certo, ma vieni qui spesso?»
«Da quando mi sono trasferito.»
«Non ti ho mai visto.»
«Abito qui vicino ma da una settimana.»
Prima di andare prendo due birre. Lo scaffale è specchiato e mi guardo la pancia. Non l’avevo dodici anni fa, né quella né le stempiature. Ho rughe vistose attorno agli occhi, i denti ingialliti dal fumo. Mi ero ripromesso di smettere con le sigarette arrivato ai trenta. Adesso aspetto i quaranta.
Rimetto le birre al loro posto. Mi chiedo se sono presentabile, non mi aspettavo di incontrare qualcuno. Mi annuso i vestiti camminando verso il reparto cosmetici. Prendo un deodorante e me lo spruzzo mentre nessuno guarda, poi lo rimetto al suo posto. Cammino circospetto nella corsia semideserta. Cerco un pettine nello scaffale accanto e provo a sistemarmi alla cieca, ma ho paura di aver esagerato e mi scompiglio un po’ i capelli. Forse troppo, allora mi ripettino. Dopo un po’ non so più che pesci prendere e mi arrendo.
Vado alle casse, lei sta già pagando. Fa ondeggiare la lunga chioma bruna. Sorride alla cassiera. Ha i denti bianchissimi, furono la prima cosa che notai di lei. Strizza gli occhi ogni tanto, non ricordavo fosse miope.
Prende le buste e si gira verso l’uscita.

«Non ti lascerò mai», dice.
Mi sto specchiando con indosso solo i calzini. Sono troppo magro, penso. Lei è sul letto, si rigira tra le coperte. Ha le guance rosse e gli occhi stanchi.
«Hai capito?»
«Cosa?»
«Ho detto che non ti lascerò mai.»
Mi giro e le sorrido.
Torno sotto le lenzuola e l’abbraccio. È calda e morbida. Mi mette la testa sul petto. Sussurra che sono vanitoso. È notte e parliamo piano.
«Sto cominciando a invecchiare.»
«Sei bello.»
«Dopo i venticinque inizia la vecchiaia.»
«Be’ gli uomini diventano affascinanti.»
«E le donne?»
«Le donne diventano vecchie e basta.»
Ci rigiriamo sotto le lenzuola. La finestra è socchiusa, assieme alla luce della strada entra aria gelida. La stringo forte per riscaldarci. Lei chiude gli occhi. È bellissima. Mi chiedo come ho fatto a fregarla, a farla stare con me.
«Hai dimenticato la finestra aperta», dice.
«Se facessimo un figlio saremmo obbligati a stare insieme.»
Sembrava assopita ma sgrana gli occhi verdi e ride. Rido insieme a lei.
«È l’ultima cosa che vorrei, un figlio.»
Alza le lenzuola e si guarda il corpo esile, il seno grazioso. Si mette una mano in mezzo alle cosce.
«Ci pensi che dovrebbe uscire da qui?»
«Però niente ciclo per quasi un anno.»
«Ma si può scopare?! Non sopporterei nove mesi senza.»
«Certo.»
«Non gli faresti male?»
Scoppio a ridere.
«No, ho visto dei porno con attrici incinte.»
«Dai!»
Ridiamo ancora e ci baciamo.
«Per adesso pensa a chiudere la finestra…»
Parla lentamente, si sta addormentando. Le accarezzo i capelli. Le chiedo se pensa mai al futuro.
«Certo…»
«E ci vedi assieme?»
«Sì… Non riesco a immaginarmi senza di te.»
Dopo poco il suo respiro si fa pesante. L’abbraccio e chiudo gli occhi. Qui, penso, è proprio dove voglio stare.

Racconta che ha preso una specializzazione a Torino, poi che ha lavorato sei mesi in un ristorante, disperata. Per fortuna ha conosciuto Giorgio, suo marito. Si è sposata in chiesa, dice, chi l’avrebbe mai detto? Da giovane odiava i preti. Mentre parla non mi guarda. Il caffè si è seccato sul bordo della tazzina, lo gratta via. Indossa una felpa scolorita, jeans strappati e scarpe da ginnastica. Ogni tanto sbadiglia.
«Stanca?»
«Sì scusa, il bambino mi ha tenuta sveglia stanotte.»
«Hai un bambino?!»
«Ha due anni ormai.»
Le faccio i complimenti. Poi le chiedo come sia essere genitore. Ci pensa un po’, fa un cenno con la testa. Stancante, dice. Si passa una mano sulla felpa.
Di colpo realizzo che non parlavamo dal giorno della rottura. Ci siamo lasciati improvvisamente, come c’eravamo presi. Non ricordo nemmeno perché, so solo che eravamo infelici. Sono sempre stato un po’ infelice. Da giovane perché ero giovane, adesso perché non lo sono più.
Mentre lei parla mi accorgo che la maglietta mi veste corta, per poco mi si vede la pancia. Mi siedo composto e faccio un gran sorriso per non tradire il disagio.
«Tu invece che fai? Ti sei trasferito?»
Mi sono trasferito perché mia moglie mi ha lasciato. Però a lei dico che volevo cambiare aria, che forse vado all’estero.
«Beato te! Il lavoro te lo permette?»
«Sto cercano di pubblicare un romanzo mentre lavoro qua e là.»
«Scrivi ancora?! Oddio adoravo leggerti.»
Al momento di salutare non sappiamo se abbracciarci o stringerci la mano. Dopo un paio di tentativi mi dà una pacca sulla spalla. Fa impressione come l’intimità con una persona che hai amato possa sparire completamente.
Quando si allontana rientro al supermercato senza farmi vedere. Torno allo scaffale delle birre. Questa volta prendo una confezione da sei. Prendo anche un pacco di patatine gigante.
Sulla strada di casa ripenso a lei. Quando stavamo assieme ci credevamo una coppia speciale. Adesso lei è una madre qualsiasi e io sono padre solo dei miei errori. Nessuna seconda occasione, il mondo è andato avanti senza di noi.
Arrivato a casa mi butto sul divano. Il bilocale è buio, ci sono scatoloni ovunque. La mobilia è rimasta tutta in soggiorno dove l’ho scaricata. Fa eccezione il divano che ho spostato vicino all’angolo cottura. Da qui raggiungo il frigo senza alzarmi. È una grande consolazione.
Metto le birre al fresco e aspetto.