«Allora? L’hai chiamato Ennio?». Me l’ha chiesto senza mascherare minimamente lo scetticismo, come fa sempre, come se un grande LO SAPEVO di pietra dovesse piovere di qui a momenti dal cielo plumbeo del Giudizio universale, colpirmi a morte e spedirmi per direttissima giù negli inferi.
Dall’alto del mio libro la guardo roteando gli occhi molto lentamente; verso i suoi, poi fermi per un istante, poi di nuovo dritti al paragrafo che sto leggendo, con la sicurezza e lo stoicismo di chi ha dei principi morali talmente saldi da aver raggiunto la santità, che nessun monolitico LO SAPEVO potrebbe mai consegnare all’eterno sonno.
«Certo che l’ho chiamato» rispondo con la voce più ferma che so emettere, continuando a scorrere le righe d’inchiostro sulla pagina, il volto rilassato e statico di un monaco buddhista in preghiera. Non vedo il suo sguardo ma so perfettamente che ha assunto un’espressione sconcertata, velata da una punta di vergogna: la vergogna di chi ha osato dubitare di un essere superiore. Si alza dalla poltrona senza ardire di chiedere altro. La sento rimestare in cucina prima di iniziare ad affettare grossolanamente uno scalogno: quello è il segnale che tra quaranta minuti esatti pranzeremo.
So che non uscirà dalla cucina per i prossimi trentacinque minuti, perché a cinque minuti dal pasto vengo sempre avvisato personalmente, come un Re. Accade tutti i giorni, alle dodici e venticinque in punto, da quarantasette anni.
Con molta cautela chiudo il libro e lo poso sul tavolino da caffè, mi alzo aggrappandomi con forza al bracciolo destro e mi incammino a piccoli passi in camera da letto. Sono diretto al telefono più lontano: sto andando a chiamare Ennio.
«Ennio, sono Augusto, è tutto pronto per stasera? L’hai avvisato Oreste?». Con Ennio non c’è bisogno di fronzoli nel parlare; è stato meccanico per tutta la vita e meccanica è la logica elementare del suo cervello. E poi ci conosciamo da sempre, dai tempi in cui la preoccupazione principale era scansare la cinghia ruvida del babbo sulla schiena, e con gli amici così, che cazzo ti devi ancora dire di superfluo.
«Tutto fatto, Augusto: ci vediamo alle sei da Oreste. La Mara gli ha detto di ricordarci che lo spumante deve essere secco. E di portare una sedia in più, quella la porto io».
«Bene, allora ciao». Click.
La sveglia sul comodino della Tilde – madonna quant’è brutta quella sveglia – segna le dodici e cinque; ho tutto il tempo di andare a fare una pisciatina e tornare alla mia postazione, in attesa del sacro richiamo del pranzo.
«Augusto! ci siamo, vieni». Un altro sguardo buddhista – oggi mi sento proprio buddhista -, poi di nuovo il libro sul tavolo da caffè e un braccio teso sul divano per darsi la spinta, e via a passo di sciatica verso la cucina.
Quando si mangia, la Tilde mi piace di più. Non è che non mi piaccia anche quando non si mangia, ma è a tavola che assaporo davvero il valore di quei quarantasette anni insieme, e ancora di più se c’è il sugo, come oggi.
La Tilde si siede a tavola come una debuttante che sa di essere valutata per ogni suo gesto, con compostezza artefatta e il culone tutto dritto sulla sedia; non c’è niente nei suoi movimenti che, sotto gli sguardi attenti di una giuria immaginaria, non sia calcolato con minuzia. Però c’è poco da fare: è nata da una famiglia umile e chi nasce così la classe non ce l’ha per natura, e in quel teatrino di pomposità un minuscolo dettaglio rivela sempre la sua essenza. A volte è un sibilo acuto sfuggito dalle labbra socchiuse, intente a sondare il brodo sul cucchiaio, a volte un sonoro ringhio prodotto dalla mascella sotto sforzo, troppo debole per la carne dura. Con gli spaghetti il giuda è sempre il sugo, che si intrufola furtivamente nelle rughette adiacenti alla bocca. Quando le riempie tutt’e due gli angoli – quando sembra una lupa grassa e stanca china sulla preda squartata, ma col culo dritto – sento che l’amo davvero.
«Che c’hai da guardare? Non ti piacciono?». Qualsiasi cosa accada non dite mai alla Tilde che non gradite il suo cibo.
«Niente, niente, pensavo a stasera»; non le svelerò mai la storia del sugo: l’ammazzerebbe. «Sono proprio felice di fare questa rimpatriata, e le Nozze d’oro di Oreste mi sembrano un ottimo pretesto».
«Anche perché chissà quanto si dura ancora fra tutti» mi risponde la Tilde corrucciando la bocca insanguinata di San Marzano e riponendo la forchetta accanto al piatto vuoto. La Tilde è sempre molto diretta. Anche questo mi piace di lei.
«Hai finito laggiù? Va’ a dormire che ti sveglio quando c’è da prepararsi». Si dà una rapida pulita con il tovagliolo, ignara della strage di polpa compiuta, si alza con grazia, nonostante le gambe gonfie, e ricomincia ad armeggiare con i piatti. Mi alzo anche io, mi avvicino da dietro e le schiocco un bacio sulla guancia palpandole una chiappona con un movimento energico, prima di dirigermi verso la camera da letto. Sarà anche una vecchia flaccida la Tilde, ma accidenti se mi arrapa ancora il suo culo.
Dormo un paio d’ore – per uno della mia età dormo un sacco, in effetti -, la Tilde mi sveglia, rigorosamente con due ore di anticipo dall’orario di uscita previsto, mi bevo un caffettino amaro e ci prepariamo per la serata. Visto che sono pronto rigorosamente un’ora e mezzo prima dell’orario di uscita previsto, mi siedo sul divano a leggere un po’.
«Augusto andiamo, non vorrai mica arrivare tardi?». Per carità, sia mai. La macchina scivola cauta sull’asfalto ancora umido di pioggia – cos’ha da perdere uno alla mia età contro un motore ruggente? nulla – eppure, nell’invecchiare, son diventato un guidatore prudente. Vattelappesca.
Eccola la Mara che ci aspetta sull’uscio, tutta in ghingheri e sorridente: «Augusto! Matilde! Benarrivati! Ce l’avete la sedia?». Alla Mara che gliene frega se stai bene o male. Alla Mara gliene frega se c’hai la sedia.
«Tutto bene Mara, grazie! La sedia la porta Ennio». Mi guarda con disappunto mentre ci fa accomodare in casa.
La casa della Mara – o meglio, di Oreste, perché gliel’hanno lasciata i suoi quando sono morti -, la conosco a memoria. Io e Oreste ci abbiamo passato i pomeriggi con i discorsi sconci da bambini, poi i pomeriggi con i giornaletti sconci alle superiori, poi i pomeriggi con i filmini sconci all’università. È una casa bruttina ma piuttosto grande, piena di schifezze d’arredamento che alla Mara piacciono un sacco – a Oreste non credo, ma non è uno attento a queste cose – come quell’angioletto portaombrelli smaltato a colori pastello, che ogni volta che lo vedi ti vien voglia di bestemmiare.
«Gino e la Manola son già arrivati, manca solo Ennio. Augusto vai pure in salotto, te Tilde vieni in cucina con me che mi dai una mano; la carne mi sembra asciutta e nella lasagna ci andava più sugo». La conosco bene la Mara, e anche la Tilde la conosce abbastanza da risponderle subito «Ma va’, che sarà tutto buonissimo al solito!». Si allontanano sghignazzando e spariscono dietro la porta; mi avvio quindi verso il salotto.
«Allora vecchiacci? che fate in piedi a quest’ora, non avete mica più l’età per far festa». Dico sempre cose di questo genere ai miei amici, a loro piace, credo. Si levano risolini e rintoccano sonore pacche sulle spalle.
«Augusto! Chi ti ha vestito, il falegname?» mi dice Gino squillante, riferendosi al completo marrone che la Tilde mi ha scelto per l’occasione. Non lo biasimo; sembro un cassettone di ciliegio. La Manola, che fino a ora sorrideva compiaciuta, serra le labbra di scatto, sgrana gli occhi, chiari come il cielo, e lo punta con ostilità; se avesse avuto una mazza l’avrebbe rivoltato, per intenderci. Gino e la Manola sono una di quelle coppie che io proprio non ho mai capito.
Lui è uno di quei tipi ridanciani con la battuta pronta – solitamente rozza -, uno che ha studiato e tutto, lavorato con un posto buono nella ditta grande, ma che sotto sotto rimane un paesano purosangue, come tutti noi, del resto, ad eccezione della Manola: la Manola ci ha avuto sempre i soldi. È una di quelle che a casa aveva la cuoca, la balia e la serva, nonostante il nome contadino. Non so se il peso del portafogli sia proporzionale alla lunghezza del manico che uno ci ha nel culo, però con quello della Manola ci fai le Olimpiadi di salto con l’asta.
«È arrivato Ennio, possiamo metterci a tavola!» squittisce con trepidazione la Mara, che è spuntata all’improvviso, e una forte vampata di profumo si spande per la stanza. Rimane sulla porta come per assicurarsi che ci si sposti proprio tutti, poi la chiude alle sue spalle e ci raggiunge in sala da pranzo.
Le portate sono tutte squisite. La Mara è così: ti cucina sempre come se fosse la tua ultima cena. Come se, intenta a guarnire, mescolare, sminuzzare, infornare, pensasse che prima del prossimo pasto schiatti di sicuro, e che ti meriti di lasciare questo mondo digerendo il miglior tacchino della tua vita, il risotto più cremoso che tu abbia mai desiderato, la pasta frolla più friabile che Dio potesse concedere a uno come te; essere mortale di dubbia levatura, con i peli nelle orecchie, peccatore recidivo.
«Un brindisi agli sposini!» urla a un certo punto Ennio levando il calice di spumante, visibilmente avvinazzato. Sposini una sega, fanno cinquant’anni di Matrimonio.
Emozionato, Oreste sorride e si issa con fatica sulle gambe intorpidite dalla cena e dall’età. Fruga maldestramente il tavolo e solleva il bicchiere: vuol dire qualcosa, vecchio sbronzone commosso.
«Via, allora voglio dire grazie alla Mara: per la cena splendida e perché mi sopporta da cinquant’anni…» Attorno al desco, colorato e famigliare, i volti si schiudono in espressioni di gratitudine, interrotte solo dalla voce di Ennio che esplode nuovamente, esaltato: «Poera Mara!».
«Però volevo anche ringraziare voi. Si sa che siamo agli sgoccioli, è inutile fare finta… Ma io son proprio felice di essere arrivato agli sgoccioli insieme: siete le mie persone preferite e senza di voi la vita sarebbe tutt’un’altra storia! Salute!». Oreste si appoggia alla sedia e con lentezza si rimette giù. Proteso verso la Mara, che scoppia di gioia fin sopra i capelli, le stampa un breve bacio sulla bocca e la stanza si riempie di applausi e gridolini allegri; grandi sorrisi di dentiere solcano le bocche dei commensali e io mi sento contento, sono contento e penso: Già. Chissà quale storia avremmo raccontato se avessimo vissuto una vita diversa. Chi sarebbe stato Ennio se non avesse preferito i telai freddi al calore di una donna, e se Gino fosse scappato alle Hawaii come ha sempre detto – Un giorno di questi sai che fo? eccome se lo sappiamo, ma tanto ce lo dici lo stesso – mi levo di culu e vo’ ad Honolulu! Tiè! – e la Manola? Secondo me la Manola ci avrebbe avuto lo stesso un manico lungo così. Ma che ce ne faremmo di una storia diversa; ci basta la nostra, ci basta una vita.
La Manola poggia la mano su quella di Gino, distesa sul tavolo, e la carezza con piccoli movimenti del pollice. Ennio, due sedie più in là, tira giù un grosso sorso e schiocca le labbra soddisfatto. Guardo la Tilde; è seduta tronfia, con la sua compostezza artificiosa e il culo tutto dritto sulla sedia. Mi vede. Le sorrido; un grumetto di sugo le è rimasto intrappolato tra le pieghe delle labbra, all’angolo destro della bocca. Quando si mangia, la Tilde mi piace di più.