L’amministrazione


Ho conosciuto l’Amministrazione alla fine degli anni novanta.
Era un pomeriggio d’inverno ed entravo in un’antica scuderia, trasformata dal tempo nella destinazione e nell’uso, per chiedere informazioni riguardo a una mediocre faccenda. Ben presto però mi trovai alla scrivania di un uomo sovrappeso. Ce l’hai il diploma? chiese. E così venni informato, senza volerlo, del Bando.
La Gazzetta Ufficiale uscì poco dopo, studiai, e quando vinsi il Concorso mi chiamarono in un ufficio diverso. Una donna, una madre giudicai dalla pelle del collo, si congratulò con me senza troppo entusiasmo. Solo con gli anni mi resi conto di quanta umanità, invece, era contenuta in quel gesto e di quanto quella madre avesse deviato dalla norma, di quanto si fosse, per così dire, esposta, con quella parola innocua: complimenti.
Quando mi chiameranno? chiesi. Sa, per organizzarmi.
Ed è stato allora, credo, che conobbi per la prima volta l’Amministrazione.
Si abitui, disse la madre, con l’Amministrazione è così. Non si possono fare programmi.
Disse proprio Amministrazione.
Si abitui, disse, e mi congedò. Forse avrei evitato molti dei problemi che ho poi avuto negli anni, forse tutti, se non avessi ignorato quella madre gentile, tanto gentile che oggi, guardandola nel telescopio della storia, penso che alla fine non si fosse abituata nemmeno lei.
Ma ero giovane, entusiasta, bramavo di partire e a quel punto, dopo averne scoperto l’esistenza, volevo conoscere l’Amministrazione, costasse quello che costasse.
Non sarebbe stato semplice.
All’inizio pensavo che l’Amministrazione fosse il Funzionario del mio ufficio. Era un bravo ragazzo di Benevento, che si agitava a modo suo, nella speranza di fare carriera. Anni dopo lo avrei incontrato in una città diversa e avremmo parlato dell’Amministrazione con toni diversi, ma allora io credevo, ero sicuro, che l’Amministrazione fosse lui. Ma nacque un problema.
Entrava nel mio ufficio, teneva in mano una domanda di ferie o una richiesta o un’istanza e piegava il labbro inferiore mentre scuoteva la testa.
E come facciamo… diceva. Qui l’Amministrazione farà storie. Io ti vorrei aiutare, ci mancherebbe, ma l’Amministrazione…
Quindi non era lui.
Guardai più in alto. In fondo al corridoio soggiornava per alcune ore un Dirigente. Nessuno ha mai saputo spiegarmi cosa facesse il Dirigente; l’unica certezza era che, nelle sue poche ore di lavoro, a differenza dei Funzionari di rango inferiore, non firmava mai nulla; neppure quando qualche giovane più solerte, mi azzarderei a dire altezzoso, si presentava nella sua stanza con una legge che, in modo lampante come solo una legge può stabiulire, stabiliva che la sua funzione dirigenziale e solo quella era incaricata di quella specifica responsabilità: neppure in quel caso il Dirigente si piegava e sprecava le sue alte energie nell’apporre una stupida firma.
In tutti quegli anni non mi ero mai dedicato davvero a cercare una spiegazione di quel comportamento; al massimo vi avevo destinato pochi minuti del mio pensiero durante una pausa fra un’attività ben più emergente e l’altra. Col tempo la questione però era cresciuta e avevo speso via via una quantità sempre maggiore di risorse, alla ricerca di un chiarimento che non giungeva, finché mi ero trovato a una determinazione apparentemente vuota, ma invero profonda, che tra l’altro mi soddisfaceva del tutto: ero senza alcun dubbio certo che lui fosse l’Amministrazione; e l’Amministrazione non firma.
Negli ultimi tempi ho avuto però il privilegio di poter riflettere sulla questione, e di poterlo fare da una prospettiva diversa. E ora che posso spingere i miei ragionamenti ben più in là, ritengo di poter affermare, e lo voglio affermare perché ritengo di aver capito, che il Dirigente non era l’Amministrazione. E se non era l’Amministrazione, avrebbe dovuto firmare. Quindi dalla mancanza di questo fatto, perché invero il Dirigente non firmava, io ora ritengo di aver dedotto come stavano le cose: non firmava perché, poveretto, non sapeva né leggere né scrivere e probabilmente nemmeno far di conto. Questo spiegherebbe molte cose, come ad esempio il perché non capisse mai quello che veniva scritto nelle Circolari. E perché, nonostante il ruolo, sembrasse sempre fuori luogo, quasi che le difficoltà quotidiane, quelle che anche gli Addetti di più basso rango sapevano risolvere, fossero per lui insidiose sabbie mortali. E anche perché inseguisse con un moto ispettivo persecutorio e implacabile chi, per l’Amministrazione, costava indennità e straordinari, ma senza purtroppo mai riuscire a individuare le prede corrette.
Ne sono certo: non sapeva scrivere.
Sopra di lui comandava il Direttore Generale. Una figura singola, ma molteplice, perché cambiava quasi ogni anno. Per molto tempo non ebbi modo di conoscerne alcuno dei Direttori che si alternavano. Capitava al massimo di incontrare il Direttore di turno, in maniera effimera, nelle brevi occasioni ufficiali ove ufficialmente mi trattava, senza che potessi cogliere in lui alcun dubbio né conferma riguardo ciò che ritenevo come un dato assodato: egli era l’Amministrazione.
A conferma di ciò, mi accadde una sera, accanto alla cassa di un ristorante, che uno di questi Direttori Generali mi abbracciasse. Sentivo il peso del suo torace tozzo sulla spalla. Mi disse che non aveva apprezzato la mancanza del mio nome, sul foglio per lo straordinario programmato.
In quel momento io fui certo, senza alcun dubbio, che lui era l’Amministrazione. L’avevo trovata. Come poteva altrimenti conoscere in dettaglio chi aveva firmato, e chi non aveva firmato, uno stupido foglio di straordinario programmato che ancora stava balzellando di ufficio in ufficio, di scrivania in scrivania, e lui invece già sapeva che quel foglio, planato fra le mie pratiche, adagiato per giorni a cavallo dell’indecisione, era ripartito senza la firma di assenso. Solo l’Amministrazione poteva esserne a conoscenza, e interessarsene, e intervenire per aggiustare una situazione di possibile pregiudizio per l’equilibrio della gestione del tempo, della carta, del personale.
E così, per molto tempo, la mia ricerca si fermò. Finché un giorno, mentre camminavo per un corridoio troppo largo, sentii una voce.
Ehi, diceva. Ehi, vieni qua.
Entrai nella stanza di un ufficio stretto dove le scrivanie erano attaccate le une alle altre. Mi aveva chiamato un vecchio collega, riemerso da un tempo diverso nel quale entrambi eravamo impiegati in un ufficio diverso.
Io mi sono stancato, disse il Sindacalista.
Perché adesso lui non era solo collega, era progredito, era anche Sindacalista.
Vuoi prendere il mio posto? chiese. È un po’ che ti osservo e sei la persona adatta.
Io lo guardai, pensai, accettai, e iniziai così a frequentare il nuovo Direttore Generale. Ma un giorno, mentre parlavo con lui del più e del meno, fui travolto da una catastrofe.
L’Amministrazione non capisce, disse quello dal nulla, che decido io dove spendere i miei soldi.
Non accettava il trasferimento, questo il senso delle sue parole, ma non mi interessava del suo trasferimento né dei suoi soldi. Il mio problema, ben più grave e di nuovo urgente, era a quel punto daccapo l’Amministrazione.
A chi, chiesi deglutendo, a chi ha fatto domanda per il trasferimento?
A Roma, rispose lui. Mi pare ovvio.
Certo, dico adesso. E certo dissi allora. Ovvio, e a Roma andai.
Non subito. Impiegai qualche anno per raggiungere la capitale. Non è semplice accedere alle Direzioni Centrali e ai Dipartimenti, ma attenzionando a dovere i bollettini e la bacheca, trovai il modo.
A Roma ero già stato per le fasi del Concorso, e poi qualche volta, senza un vero motivo. In quell’occasione scesi carico di convinzione e mi diressi verso gli uffici importanti, di chi ce l’ha fatta. Li trovai stranamente silenziosi mentre, fuori dai vetri spessi, la città sobbolliva di una caotica indecisione. Le ragazze nei Ministeri sono tutte bellissime. Perfino quelle anziane, se non si possono magari definire straordinarie, di certo brutte non sono. Ma non ero lì per loro. I Funzionari, che dalle mie parti comandavano un intero ufficio, erano qui pressappoco segretari. I Dirigenti raggiungevano a mala pena, e non sempre, il privilegio di una stanza solitaria mentre i Direttori Generali iniziavano, ma iniziavano soltanto, a contare qualcosa. Era come salire sul tetto di un palazzo e scoprire, senza averlo mai sospettato, che dopo l’ultimo piano esistono altri, molti, moltissimi ultimi piani, tutti più cari e appetibili e prestigiosi di quell’ultimo piano che, fino a ieri, si guardava col mento all’insù.
Anche a Roma, è inutile dirlo, dedicai tutto il mio tempo alla ricerca dell’Amministrazione. Scalavo quella piramide irrazionale di macerie umane e, per ogni campo base che piantavo, dovevo subito salire di un tiro, senza potermi acclimatare, e incontravo cordate su cordate che, secondo logiche che non afferravo, calcavano le mie stesse creste. Capitava a tratti che qualcuno, nella parte bassa della cordata, cadesse miseramente verso un baratro per causa di un errore banale. A quello serviva restare legati. E la riconoscenza per quei salvataggi aiutava i pionieri, là in alto, ad affrontare le insidie dell’altezza.
Ma se quei luminari scalavano alla ricerca di un luogo dove assestarsi, e con quell’obiettivo in mente imbastivano lo scontro col prossimo, io inseguivo soltanto la mia sete di conoscenza. Finché mi trovai di fronte al Capo Dipartimento. Persona assai affabile, disponibile, quasi serena.
È lei l’Amministrazione? chiesi.
E quello scoppiò a ridere.
Come potrei essere io, l’Amministrazione, se di quello che accade, nell’Amministrazione, non so nulla? Me ne sto rinchiuso tutto il giorno e.
Mi scusi, lo interruppi, ma sono salito fin qui, non è stato semplice, e l’Amministrazione non c’è?
Sei un bravo ragazzo, disse lui.
Quindi non è lei, borbottai, più che altro per conferma a me stesso.
Lui partì a raccontare di un suo vecchio amico col quale cenava spesso, una gran brava persona, morto da tempo, ma ormai non lo ascoltavo più e mi congedai.
Da allora smisi di cercarla. Avevo come l’impressione che mi avessero nascosto qualcosa, che ciò che mi aveva, fino ad allora, circondato, le inefficienze, lo scansare, il denigrare e infangare, le menzogne cariche di etica e la morale vergognosa, che tutto fosse colpa soltanto dell’Amministrazione. Non averla trovata fu per me, e lo è ancor oggi, un fallimento. Ogni tanto le penso. Mi siedo sulla panchina di un parco, magari davanti a un lago color del fumo e cerco di mettere ordine nella nostra storia. La amavo, come si può amare solo chi non conosciamo; la inseguivo, come si può inseguire solo colei che si nega, dopo aver paventato di concedersi. Non tutti abbiamo il privilegio di provare l’amore ricambiato.