Tutti i film di Bill Murray


La verità è che la morte di mia madre non l’ho mai superata. E Marco seguitava a dirmi che palle sei sempre mezza spenta, non ridi mai e anche sorridere lo fai poco.
È morta tre anni fa. Lui l’ho conosciuto un anno dopo, e all’inizio gli piaceva che non ero una col sorriso facile, ne sono abbastanza sicura, poi deve avere cominciato a dargli sui nervi.
Avevo tentato di parlargliene. Dico tentato perché quando gli raccontai di mia madre non mi sembrava che avesse capito come stavo davvero. Aveva annuito e aveva detto qualcosa che neanche mi ricordo. Niente di straordinario evidentemente. E uscivamo da tre mesi, il periodo in cui ci si conosce e ci si racconta. E credo che lui pensasse che io avessi superato tutto dopo quella chiacchierata, così. O che l’avessi già superato da sola e glie lo raccontavo tanto per dire qualcosa sul mio conto.

Marco aveva nove anni più di me ed era carino, di quei carini che ti danno l’impressione di non tenerci, all’aspetto, e di non rendersi conto che potrebbero essere belli ma siccome non ci tengono sono soltanto carini. Era alto, slanciato e largo di spalle. I capelli erano folti e neri, spettinati, la barba incolta, e portava quegli occhiali con la montatura grossa da nerd.
Bisogna dire però che era largo anche di pancetta, e che aveva il culo basso, ma indossava sempre un cappottino grigio demodé e ampie camicie scure fuori dai jeans, e che quella montatura faceva apparire un po’ più grandi i suoi occhi marroni davvero piccoli, e poi la barba era più curata di quello che voleva dare a vedere e i capelli non erano mai troppo lunghi, li tagliava una volta ogni due mesi spaccati. In effetti era solo un carino che voleva fare il bello che non ci tiene.
Comunque, aveva messo su questa casa editrice con degli amici, e siccome il suo romanzo non glie lo aveva mai pubblicato nessuno, se lo pubblicò da solo. Lui si occupava degli inediti, selezionarli, editarli eccetera. Era il tipo di persona che usa la parola cestinare. Per esempio, quando aveva scritto sul sito le regole per l’invio dei manoscritti – numero minimo e massimo di caratteri, estensione dei file, generi che non accettavano e tutto il resto – la frase finale diceva: “i manoscritti che non rispetteranno questi parametri verranno cestinati”. Ora, c’è chi scrive “rifiutati” o “respinti”, oppure non scrive niente visto che ha già messo in chiaro le regole. No, lui aveva dovuto scriverci “verranno cestinati”. Ed era una piccola casa editrice appena nata. Nei primi quattro mesi ne hanno ricevuti nove, di manoscritti. Li aveva cestinati tutti. Diceva che in giro è pieno di gente che non sa scrivere ma vuole farlo per forza. Così, era stato costretto a pubblicare il suo romanzo.
Quanti soldi ci ha buttato, in quella casa editrice. Comunque non se la passava male. I suoi gli avevano comprato un appartamento – ottanta metri quadri, ultimo piano, zona centrale – e messo un po’ di soldi in banca. Mi trasferii da lui dopo un anno e mezzo che stavamo insieme. La spesa la facevo quasi sempre io e le bollette le pagai tutte io, ma non furono molte. Io lavoravo alla cassa del cinema di Via del Corso. Ci andavo a piedi in venti minuti. A Marco non piaceva il Cinema, salvo qualche eccezione. Diceva che non era affatto la settima arte, ma solo il figlio svampito di fotografia e letteratura. E il teatro? No, secondo lui quello non c’entrava niente col Cinema, e ormai era morto. Che rivoluzionario. E quindi non ci andavamo mai al cinema, anche se potevo avere i biglietti omaggio.

E insomma editore, scrittore, discorsi su Tolstoj, Nabokov e Pasolini (che non guasta mai), sempre a leggere romanzi, saggi, biografie, sempre in giro per mostre fotografiche. Uno intelligente, si direbbe. Ed era quello che mi dicevo. Ma era più una questione di atteggiamento. Diciamo che per la sua intelligenza valeva lo stesso discorso del bello e del carino, come per il suo romanzo. Come per tutto il resto.

Pensavo che sarebbe stata una roba straziante, la fine con lui. Invece dopo due anni di storia la disperazione è durata una settimana, la tristezza un mese, forse un mese e mezzo a fargli una concessione, e quella vaga malinconia che resta più a lungo si è mischiata subito con tutta l’altra che mi porto dietro, ed è solo un pizzico di sale in un brodo già troppo salato.
Era un tipo da un mese e mezzo, tutto lì. E mi sono sentita una stupida. Con uno da un mese e mezzo non ci rimani insieme due anni, specie se dopo i primi tre mesi già senti odore di fregatura. Ma non avevo voluto sentirlo. È che mi serviva qualcuno. Da quando mia madre è morta mi sono ritrovata in questa assurda bolla di solitudine, come se gli altri non mi riconoscessero, o parlassi una lingua diversa da tutti gli abitanti del pianeta, o avessi, non lo so, i piedi palmati o quattro dita per mano. Cose del genere. Così avevo finito per immaginarmelo, qualcuno.
Avevo tentato di parlargli della morte di mia madre anche quando le cose tra noi avevano preso la piega della fine, due mesi prima che lo lasciassi, quando ormai me lo diceva tutti i giorni, che non ridevo mai e sorridevo poco. Non collegai immediatamente che gli raccontavo di mia madre come una giustificazione del mio essere in quel modo. Forse un po’ lo sapevo. Ma è che ci tenevo, alla nostra storia, e volevo guardarmi dentro sinceramente e affrontare tutto con lui perché è con questo impegno che le storie vanno avanti e superano le difficoltà eccetera eccetera, e a questo tipo di cose ci credevo e mi aggrappai alla speranza che funzionavano davvero, perché ero terrorizzata al pensiero che mi lasciasse. E quindi, naturalmente, era venuta fuori la morte di mia madre. Feci scivolare l’argomento in mezzo agli altri fingendo di non dargli più importanza di quelli, perché lui era già molto abbattuto per la casa editrice che andava male. In ogni caso era un argomento che, ribadisco, non avevo mai più toccato dopo quella volta a tre mesi dal nostro primo incontro. E lui aveva risposto che era ora di superare la cosa. Tutto lì. Lo aveva detto pure con l’aria un filo scocciata, come a dire che palle ancora con tua madre che è morta tre anni fa mica ieri, che cazzo ci vuole a superare che tua madre è morta sotto una macchina quando avevi diciannove anni e le dicevi tutti i giorni che era una stronza acida e musona e cose come papà se n’è andato per colpa tua e appena trovo un lavoro me ne vado pure io, che cazzo ci vuole?
«Ma non devi farlo per me» aveva aggiunto, «devi farlo per te stessa».
Che consiglio, cazzo. Da annegare tra pianti e rimpianti per averlo perso, uno così. E pensare che non si ricordava nemmeno come era morta. Mentre gli raccontavo di lei sgranò gli occhietti quando parlai dell’incidente, e facemmo entrambi finta di nulla.

In quegli ultimi mesi naturalmente non facevamo più l’amore. Andavamo a letto, spegnevamo la luce e ognuno per i fatti suoi. Nemmeno prendevamo in considerazione di parlare un po’, o di darci la buona notte. Io non riuscivo a dormire e mi voltavo dall’altra parte e restavo sveglia a guardare il buio. A volte mi alzavo e giravo per il suo appartamento chiedendomi che cosa non andava in me. Non accendevo la luce per non svegliarlo, aveva il sonno leggero e si incazzava da morire quando non si svegliava per conto suo. E, diceva lui, poi non riusciva più a riaddormentarsi. Mi faceva certi pezzi quando succedeva, sempre conclusi con un bel “non posso più andare avanti così”. Non è che diceva non possiamo più andare avanti così, dobbiamo lasciarci, devi andartene. Ma solo quella frase, a libera interpretazione.
Così aspettavo che i miei occhi si abituassero al buio e mi alzavo piano piano. Poi ho cominciato a farla davvero, quella domanda sul che cosa non andava in me. La facevo alla mia borsa. Cioè, a quello che c’era dentro. Nel portafogli avevo una foto di mia madre. Non la tiravo mai fuori, ma quando cercavo i soldi o il bancomat o un documento, infilavo istintivamente un dito nella taschina della foto. Un gesto quasi nervoso. Alla fine capitò che una volta portai la borsa in cucina, erano le undici e mezza e Marco era già in coma, presi la foto e la guardai alla luce della cappa dei fornelli.
Mia madre era leggermente di profilo, aveva un largo maglione grigio, tipo quelli che mi metto io, forse proprio uno di quelli. Aveva trent’anni e la palpebra sull’esterno dell’occhio era già stanca, piegata ad arco verso lo zigomo, come ce l’hanno le vecchie. Non era truccata, non lo era quasi mai. I capelli erano corti e ricci, come i miei, dello stesso castano. Si era sforzata di sorridere perché le facevo la foto, e ricordo di aver dovuto insistere parecchio perché sorridesse. Quando non le veniva non c’era verso, e non le veniva mai.
Una cosa strana era che alcune parti del suo volto sembravano quelle di una che sorride, altre no. Te ne accorgevi a partire dagli occhi. Se guardavi solo quelli, in particolare il sinistro, vedevi una persona triste. Se guardavi le palpebre e la fronte, una donna affaticata e confusa. Se guardavi solo il basso degli zigomi e la bocca, potevi credere che sorridesse, ma non per qualcosa, più come fosse imbambolata. Una specie di Frankenstein di espressioni mosce. Io sono più alta, ma cazzo se mi somigliava. Cioè, somigliava alla me stessa ventiduenne, solo col doppio degli anni. Però quella foto glie l’avevo fatta quando ero piccola.
Comunque glie lo chiesi, col pensiero.
«Che cazzo c’è che non va in me?».
«Adesso qual è il problema?».
«Marco dice che non rido mai».
«Mi ricorda qualcuno».
«E dai, mamma, io mica ti rompo che non ridi mai. Era solo per la foto!».
«Ah sì? Lasciamo perdere».
«Va beh, insomma, Marco mi dice questa cosa, che sono sempre mezza spenta e non rido mai, e anche sorridere lo faccio poco».
«Mh. E lui chi è, Bill Murray?».
«Che?».
Poi mi venne in mente che le era sempre piaciuto Bill Murray. I suoi film erano l’unica cosa che la facesse ridere, l’unica. E non ho mai capito perché. So che piace a tanti ma da quel poco che avevo visto non mi sembrava niente di speciale. Tutta quella roba di fantasmi, zombie e sottomarini mi pareva solo demenziale e noiosa, e Bill Murray sempre lì con la stessa faccia da cazzo. Non so che ci trovasse, una come lei. Non glie l’ho mai chiesto.
«Ma chi, Marco?» risposi alla foto. «Non direi proprio. Anzi, spesso è nervoso per la casa editrice. Sta sempre a pensare a quello. E poi, insomma, è un tipo serio. Odia il Cinema e il suo scrittore preferito è Tolstoj».
«E allora che c’è da ridere? Devi trovarti uno che ti fa ridere».
E a quel punto mi prese un colpo. Ero la voce di mia madre. Dovetti uscire di corsa in balcone, strozzare i singhiozzi e respirare a fondo una decina di volte, prima di fare il numero della mia amica Sara e chiederle quello del suo psicoterapeuta. Un attacco di panico tremendo. Mi serviva aiuto. Mentre il telefono dava libero dovetti infilare la foto in un vaso, a faccia in giù.
Sara mi domanda se è tutto apposto e io dico di sì, e lei risponde non sembra. Le dico solo che è da un po’ che pensavo a quello che mi aveva detto sulla psicoterapia e mi ero decisa.
Mi risponde che faccio bene, che a lei ha fatto bene, ma che è un percorso difficile e lei ci ha messo cinque anni, ha finito da due mesi ed è diventata finalmente una donna. Così dice.
Ne parliamo parecchio. Io rimango sul vago circa il mio problema. Lei mi spiega anche molto di sua iniziativa. Tipo che ci si arriva insieme, tu e lo psicoterapeuta, e tirate fuori un sacco di cose, alcune delle quali sono cose che non ti immagineresti mai e di certe non vorresti parlare perché ti fanno paura o ti fanno stare male, ma sono quelle, che ti fanno capire chi sei. Anzi, rettifica, ti fanno riconoscere chi sei. E dice che non mi devo preoccupare perché le ansie, le paure, le insicurezze, i sensi di colpa, sono cose che hanno tutti ma dobbiamo affrontarle e capire perché le abbiamo. Finché ne siamo sommersi non tiriamo fuori tutto, oppure ci mettiamo sulla difensiva e non le analizziamo lucidamente. E una volta capito, dobbiamo liberarcene, altrimenti ci frenano e basta.
Poi va a ruota libera con i pochi elementi che le ho dato, e da quelli, presumibilmente, tira fuori che le colpe non servono a nulla e che molte cose non sono nemmeno una questione di colpa, ma noi crediamo di sì. E quindi bisogna distinguere, e perdonarsi. Bisogna imparare a perdonarsi, Titti. Mi chiama sempre Titti.
Poi fa una mitragliata di adagi tipo: la persona più difficile da perdonare è sempre te stessa, capire chi siamo vuol dire accettarsi, bisogna guardare avanti, bisogna capire quali sono i nostri mezzi per essere soddisfatti e sereni, ognuno li ha. Ma scusa, mi chiede alla fine, di che ti senti in colpa? È per Marco?
Siccome non le rispondo mi dice che quello che è fatto è fatto, e mi ripete che non è nemmeno detto che si tratti di colpe, e anche se fosse ormai è inutile piangerci sopra, e devo andare avanti, e la psicoterapia mi aiuta in questo, e i veri errori sono soltanto non aver guardato le cose per quello che erano e non aver fatto quello che era meglio per noi. Per lei è stato così. E aggiunge che se siamo fatti in qualche modo che non ci fa stare bene è a causa di qualcosa o qualcuno, e non bisogna incolparsene, ma bisogna comprendere la causa, e quando ci arrivi capisci cosa devi fare per essere soddisfatta e stare bene con te stessa, e questa è un’assunzione di responsabilità, dice, è maturare, perché significa prendere degli impegni con noi stessi e portarli a termine. E alla fine della carrellata, a bruciapelo mi fa: è per tua madre?
Lo ha detto quasi sotto voce. Aspetta una mia reazione, ma io non reagisco. Butto lì un non ti preoccupare, ma vorrei che si preoccupasse.
La mia amica Sara. Aveva capito un po’ più del fuochino, ma rispondere sinceramente a quelle domande avrebbe voluto dire piangerle addosso tutta la mia disperazione in un casino di latrati sconnessi. Che cazzo, con un’amica che è stata in terapia va a finire così. Non è che ti dice Marco è un cazzone andiamo a sfondarci di shottini. No, ti analizza, e ti fa il monumento della sua ricetta per la felicità come un testimone di Geova.
È che la sua ricetta non mi convinceva. Voglio dire, tutto questo guardarsi dentro con grande sforzo per maturare e assumersi le responsabilità, e poi che cosa? Accettarsi, perdonarsi da soli, fare quello che è meglio per sé. Solo se non fai quello che è meglio per te, sei colpevole. E che ci sarebbe di maturo? Cioè: le insicurezze e i sensi di colpa mi frenavano e basta. Certo, servono proprio a quello! Mi sentivo in colpa ma tutto sommato non era giusto. E chi lo decide? Lo decido io. E quelli con cui hai fatto la stronza? Sono loro che dovrebbero deciderlo, e sono loro che dovrebbero perdonarti. Naaa, vadano affanculo, tanto anche se lo decidono io mi accetto, e poi mi so perdonare da sola, sono cintura nera di me stessa.
Non mi sembrava questo grande traguardo. Certo, può anche darsi che se sei incasinata e ne vuoi uscire, un effetto collaterale devi beccartelo. Ma alla fine non ho più chiamato lo psicoterapeuta. Però la questione Marco e la telefonata con Sara, a qualcosa erano servite. Tanto per cominciare avevo tirato fuori quella foto, e aveva ragione, devo trovarmi uno che mi faccia ridere. Dovremmo trovarcelo tutte. E poi ho capito che se ero quello che ero a causa di mia madre, e della sua morte, allora anche lei doveva avere avuto il suo motivo. Sapevo che quel motivo non ero io, perché lei era già così. Può darsi che fosse perché mio padre l’aveva lasciata. O magari lui l’aveva lasciata perché lei era fatta in quel modo. Corsi e ricorsi. Ma in questo caso non ero stata migliore di lui, a lasciarla sola a mia volta sputandoglielo in faccia tutti i giorni. E quindi avevo contribuito a renderla ancora più triste e acida.

Quello che faccio adesso? Guardo i film di Bill Murray, uno dietro l’altro, anche se non mi fa bene e non mi fa superare la morte di mia madre e dovrei lasciarla andare e pensare a me stessa e trovare me stessa e un mucchio di stronzate.
Li guarderò tutti, quei cazzo di film. Finché non mi faranno ridere.