L’albero vero


«Se non viene naturale…» dice. «Se non viene naturale, allora niente.»
Io lo so cosa vuole da me, l’ho capito benissimo. Il suo odore è molto vicino, siamo stesi sul divano del mio salotto. Tutta buia la sua faccia, tutto buio uguale. L’unica cosa che si vede è la spia rossa del suo cellulare, la batteria è scarica. Fosse stato per me le lucine dell’albero le avrei lasciate accese, invece no, «Spegni», ha voluto così.
«Lo sa qualcuno che sono qui?» mi chiede.
«Non l’ho detto a nessuno.»
«Io invece l’ho detto.»
«A chi l’hai detto?»
«Alla Giulia.»
Il suo cellulare vibra; la spia rossa diventa verde.
«E perché gliel’hai detto?» le chiedo.
«Senti, la Giulia mi ha infamata. Mi ha detto che io esisto solo per rovinarle la vita. Poi anche altre cose. Cose nostre.»
«Ma cosa gliel’hai detto a fare, alla Giulia.»
Solo un anno, era il 2014, per Natale ho comprato l’albero vero. A Bellaria ce li hanno, lo scegli, te lo caricano in macchina loro, legato con lo spago in un sacco nero. La fregatura è che gli alberi di natale, quelli veri, in casa perdono gli aghi e va a finire che passi le feste a spazzare il pavimento.
«La Giulia è sempre piena di rancore» mi dice.
«Un po’ tutti» dico io.
Sento il suo piede, ha fatto un piccolo scatto, laggiù in fondo al divano, dove la coperta finisce. Sono tre mesi che abito in questa casa; nessuno mi aveva sfiorato così tanto, sul mio divano, prima di adesso. Ma io lo so cosa pretende da me, per questo natale, che regalo vuole. Un po’ alla volta, vado più vicino. Respira, ed esce dal suo naso un odore, è una cosa preziosa, da proteggere, tenere in una scatolina da quant’è buono. Col mio naso tocco la sua guancia, per stare lì con la sua pelle. Si muove, la cerco, e se durasse fino a domani sarebbe bellissimo. Ci baciamo. Poi arrivano le sue spalle, il collo, gambe, confusione. La spoglio e lei a me, ma era meglio prima, coi nasi e coi piedi. Però va bene. Si stende a pancia in su e io scendo con la faccia tra le sue gambe, per leccargliela come un cagnolone. Ci siamo, la mia testa è andata, lei respira da animali, non si tiene.
«Fermati» dice di colpo. «Non me la sento.»
Torno su per vederla in faccia, che occhi ha, ma è tutto buio.
«Non ti preoccupare» riesco solo a dire. «Non ti preoccupare.»
Mi stendo anch’io e riprendo fiato, il cuore che martella, lei invece non fa rumori. Resto così, a guardare il buio diffuso e ascolto gli scricchiolii del divano, appena ci proviamo a muovere. L’albero è là, a tre metri, nell’angolo dietro il tavolino. Non un riflesso, eppure ha addosso chili di addobbi e quaranta lampadine a incandescenza: le migliori, da accese scaldano anche. Le mie poi sono multicolor, primi anni ’80, con quattro giochi di luce. Mica come quelle a led, robaccia.
«Quanto siete stati insieme, tu e la Giulia?» mi chiede.
«Noi? Tre anni.»
«E la senti ancora?».
«Mai».
Infilo una mano sotto il cuscino e trovo le sue dita, schiacciate lì come le macchine di un incidente. Erano i primi di dicembre e mentre tornavo da Bellaria, in autostrada, con l’albero chiuso dentro un sacco nero, buttato sui sedili didietro, mi ero sentito un poliziotto: mi sembrava che l’avessi arrestato e che lo stessi portando in caserma, nel mio salotto. Credevo che comprarlo, come dire, avrebbe alzato il livello del Natale, volevo solo che tutto fosse autentico.
«Ci si dà un bacetto, di solito, prima di dormire» dice lei.
«Di solito?»
Glielo do e fa una risatina.
«La prossima settimana ci rivediamo?» le chiedo.
«Meglio di no. Cerchiamo cose diverse. E poi se non viene naturale…».
Poi zitti, silenzio. Restiamo ognuno nella sua parte di divano, passano i minuti e diventano mezz’ore. Col piede, laggiù, ogni tanto mi dà un colpetto. Se l’ha detto alla Giulia, allora forse vuol fare le cose per bene con me. Sapesse quanto mi piace, a saperglielo dire, sarebbe tutto più facile per lei. L’ho pensata così tanto che dirlo non si può, mi vergogno. L’odore che le esce dal naso è già il mio posto preferito. Sono dentro i suoi capelli, sto fermissimo. Dormo e non dormo, mi sembra di pensarla anche nel sonno, per molto tempo. Poi sulla finestra arriva il giorno e riesco a vederla in faccia: le sue labbra non combaciano, la bocca un pochino aperta. E dopo che l’ho vista mi addormento da dio. Quando mi sveglio c’è il sole e lei è fuori dalla coperta, che scrive al cellulare.
Passato natale, l’albero vero l’avevo spostato in terrazzo. Non sapevo cosa farci. La gente dove li mette gli alberi veri, finite le feste? Allora l’avevo legato stretto con attorno la carta di giornale, e con la macchina ero andato giù a Bellaria, ma quel posto era chiuso, c’era il catenaccio al cancello e un foglietto con scritto: “si riapre a fine marzo.”
«Facciamo colazione?» le chiedo.
Mi alzo, stiracchio la schiena e invece di cercare le calze accendo le lucine; attaccano a intermittenza e mi colorano i piedi scalzi, pallidi per l’inverno. Lei resta con gli occhi sul cellulare. Ritorno sul divano, faccio per mitragliarla di baci ma sposta via il collo, si gira contro il muro. Poi dice:
«Non so se voglio più di questo da te.»
L’albero vero l’avevo lasciato lì, in un fosso vicino al casello. L’anno dopo ho riesumato quello finto, era come nuovo. Adesso siamo nel 2019 e va ancora bene. Con gli alberi finti puoi farci quello che ti pare: lavarli col sapone, stramazzarli, chiuderli in garage, non diventano mai secchi. Un problema in meno, si evitano i sensi di colpa.
Forse sono come un albero finto, per lei. Con me ci voleva fare una fischiata natalizia e fine, non ci siamo riusciti. Io le servo? Se non vuole cominciare niente, vabbè, posso capire; avere a che fare con le cose vere, la linfa, il cuore che c’è sotto, è difficile. Bisognerebbe sbattersi e noi non abbiamo mai tempo; ci siamo disabituati.
A vestirsi è più veloce, però in bagno ci sta un quarto d’ora. Mentre l’aspetto sbircio il suo cellulare, batteria piena. Spalanco le finestre, c’è un’aria buona che non la vendono da nessuna parte. Poi mi raggiunge in cucina, apre il frigo, ci guardiamo dentro insieme. Mangiamo lo yogurt con un cucchiaino solo, e mi bacia così, coi baffi bianchi.
Io non lo so cosa vuole da me. Non ho capito niente, mi sembra.