Lo si vedeva passare ogni mattina, quel baffone di Rino, con la sua lampada ad acetilene in mano e il giacchetto in fustagno aperto a mettere in mostra panciotto e camicia, quasi fosse uno splendido padrone salito a dar ordini ai suoi manovali; e invece era un minatore, Rino, e quella camicia di cui sembrava andar così fiero era annerita dalla polvere della grafite, lisa dall’uso quotidiano e combusta sulle maniche: perché egli le usava quasi fossero acciarini per dar fuoco agli zolfanelli con cui accendeva la lampada, non appena si calava giù nella lunga galleria della miniera della Gran Roccia, proprio sopra la nostra borgata del Donn.
Alla domenica Rino non veniva alla funzione, se non raramente, quando quella pettegola della moglie l’obbligava a scendere al tempio. Indossava allora la camicia della festa, quella di flanella a scacchi blu e rossi con le filigrane bianche, tanto che i perdigiorni dell’osteria lo chiamavano “il francese della domenica” per via dei colori della camicia. Perché Rino, invece di sorbirsi l’intera funzione come tutti i bravi valdesi, dopo pochi minuti sgattaiolava fuori dal tempio, accendendosi un sigaro malconcio e annerito come lui, e, sputacchiando qua e là sul selciato, raggiungeva l’osteria in cui lo aspettavano gli altri bighelloni del paese, tra cui l’amico e collega Enrico, detto il Conte. Costui però non aveva né il portamento né la favella del nobile; anzi, perfino il pastore si era abituato a sentirlo sacramentare in continuazione e anche il prete cattolico dall’altra parte del fiume aveva ormai smesso di farsi il segno della croce quando Enrico il Conte attraversava il ponte sul Chisone per raggiungere Pinasca, dove giocava a petanque con i cattolici dell’indritto; perché quelli ci scommettevano sempre qualche centesimo su chi vinceva e lui era formidabile. Quel soprannome dunque gli era stato affibbiato perché portava lo stesso nome ed era nato il medesimo giorno del conte Enrico Brayda, socio della Anglo Italia Talc, la società che gestiva la miniera della Gran Roccia, e quindi pure datore di lavoro dei due compagnoni, Rino il Francese ed Enrico il Conte. Il conte Enrico, quello vero, a Lou Donn a controllare la miniera saliva di rado, ché non amava insozzarsi i bei calzoni bianchi sulla rotabile malconcia che da Vivian sale ancora oggi fino alla miniera; e dicono che pure laggiù ad Asti, dove egli era proprietario di ettari ed ettari di terra, si limitasse a gustare il buon vino che i suoi serventi gli producevano, ma difficilmente lo si vedeva aggirarsi per i filari.
Rino ed Enrico lavoravano alla miniera sin da quando, ancora ragazzini, erano stati reclutati, per due lire al giorno, a caricarsi sacchi di grafite per portarla giù a fondovalle, al mulino delle Grange dove il minerale veniva triturato, sminuzzato e raffinato, pronto per essere utilizzato nei lapis e nelle granate. Ma di matite in mano i due ne avevano tenute poche, mentre di granate sì, ché gli unici anni in cui si erano allontanati dalla miniera erano stati quelli in cui avevano combattuto contro gli Austriaci, Rino come alpino sull’Adamello, Enrico come fante sul Carso. Pur se separati da centinaia di chilometri e migliaia di nemici, i due minatori ripetevano le stesse parole ai propri compagni d’armi: «Qui dentro c’è la grafite della Gran Roccia, praticamente l’ho fatta io questa porca bomba», e giù bestemmie.
Quando poi erano tornati dalla guerra, chissà come, entrambi illesi, la Anglo Italian Talc aveva dovuto riprendersi a malincuore i due compagnoni, rinunciando ai prigionieri austriaci che le erano stati assegnati come lavoratori durante il conflitto. Perché, a dirla tutta, i poveri crucchi erano stati poco più che schiavi: costretti a lavorare senza paga dieci ore al giorno in miniera e a dormire in quel tugurio del deposito dei minatori, controllati da un carabiniere sonnacchioso che oziava nel piazzale di Lou Donn e che non aveva di meglio da fare che importunare tutte le ragazzine della borgata. Quegli Austriaci facevano talmente pena che i bambini del villaggio scendevano a turno a portar loro le bucce di patata o un po’ di fondo di zuppa per incrementare la loro cena, che doveva esser poca cosa a veder le loro facce smorte. Ed il conte Brayda e gli altri padroni a fregarsi le mani.
Erano passati un po’ di anni da allora, ma Rino ed Enrico continuavano a svolgere le loro mansioni alla Gran Roccia senza porsi troppe domande, nonostante gli altri lavoratori si fossero avvicendati più e più volte, non appena trovassero qualche mestiere migliore. Era un lavoro da cani. Rino il Francese scavava, estraeva e caricava grafite sui vagoncini. Poi, fuori, il Conte faceva una prima cernita, scartando i blocchi di minor valore, insacchettava il minerale e lo conduceva giù al mulino, frenando perfino con i piedi quando la slitta, carica fino all’inverosimile, sembrava prendere troppa velocità, col rischio di spezzargli una gamba o, peggio, schiacciarlo.
«Grafite sporca, vale niente». Avevano detto gli operai che il conte Brayda e i suoi soci avevan fatto venire apposta dalla Polonia per insegnare ai montanari dell’inverso l’arte di estrarre la pietra nera dalla montagna. La grafite della Gran Roccia era di infima qualità e i Polacchi lo avevano detto subito: sì, ce n’era tanta, disseminata sotto tutta la cresta del Don, ma talmente poco pregiata che la Anglo Italian Talc si era limitata a scavare un’unica lunga galleria, quella della Gran Roccia appunto, con l’intento di sfruttarla fino all’esaurimento della vena, per poi chiuder tutto; d’altronde la società era già proprietaria di dieci e dieci altre miniere in tutta la valle e certo non aveva bisogno della Gran Roccia per incrementare le sostanze del conte e degli altri ricchi signori – metà inglesi, metà italiani – che sedevano nel consiglio d’amministrazione.
Ed ormai si avvicinava la chiusura della miniera, sempre meno produttiva, quando avvenne la tragedia. Eppure Rino la dinamite aveva imparato a maneggiarla in tutti quegli anni. Era Enrico il Conte a portargliela direttamente dalla polveriera, servendogliela in piccoli barili che ricordavano le barriques del vino del conte Brayda. «Il signore gradisce altro?», provocava l’uno. «Tua madre», rispondeva l’altro. E quel gioco andava avanti da anni ed anni. Ma quel giorno si interruppe. Lo scoppio fu tonfo e quasi impercettibile al di fuori della galleria. Tanto che neppure Enrico il Conte se ne avvide subito. Fu quando risuonò un urlo di sirena strozzata che gli altri si precipitarono dentro, trovando Rino colpito da un muro di pietre e pietruzze nere che lo avevano atterrato. Col volto assente, la bava e il sangue alla bocca, il Francese era riuscito a cacciare quel grido disperato, prima di perdere i sensi.
Il conte se lo caricò sulla slitta bestemmiando e scese a perdifiato verso il fondovalle, dove contava di trovare il dottore che medicasse l’amico. Era il disgelo allora, a marzo. Ma non tutto il fondo della stradina era già sgombro dalla neve e dal ghiaccio. Bastò un secondo d’imprudenza, quella che mai in tutti quegli anni Enrico aveva avuto nello scendere con la slitta carica di grafite, a costargli la vita. Un piede in fallo, la presa che si perde, la caduta e il pattino sinistro che lo colpì dritto sulla fronte. Col suo corpo inerme Enrico frenò la discesa della slitta, impedendole di finir fuori dalla rotabile, giù nel bosco. Quando da Vivian salirono attirati dal trambusto, trovarono il Conte ormai morto per il gran colpo. In quattro scaricarono Rino dalla slitta e lo montarono di gran furia sul carretto che lo condusse dal dottore.
Ci volle parecchio prima che Rino il Francese potesse ricominciare a camminare, ammaccato com’era. Ma da che era morto l’amico non parlò più, se non con parole smozzicate come i sigari che si fumava al cimitero sulla tomba del Conte.