La dismissione delle cabine telefoniche – Cover, 8


Sua madre, da quando era rimasta vedova, aveva cambiato il lato del letto; diceva che gli odori non se ne vanno, impregnano il materasso e i cuscini, lei li sentiva.
Prima di morire d’infarto suo padre aveva litigato con sua madre per colpa di quei terreni che aveva ereditato da un lontano zio, non ne voleva sapere di venderli, erano andati a dormire senza dirsi una parola: nessuno dei due aveva immaginato che sarebbe stato per sempre.
Erano passati sei anni, tutto era andato avanti esattamente uguale, solo che invece: ad esempio il lato del letto.
Questa cosa l’aveva scoperta per caso, un giorno che sua madre stava poco bene e lui era andato a portarle le medicine e le arance; non usava mai le chiavi di casa, anzi il fatto di averle lo disturbava, avrebbe voluto citofonare anche quella volta, ma sua madre lo aveva pregato di non creare problemi, non ce la faceva ad alzarsi dal letto.
Aveva notato subito il posto sbagliato occupato dalla madre e non lo aveva nascosto; solo allora sua madre gli aveva rivelato la teoria degli odori, sopravvivere è una soluzione necessaria, e quel modo di girare il cuscino cercando. Anche l’assenza è una questione di adattamento.
Non era pronto a una confessione perciò era rimasto in silenzio a sentire, piano piano, i vestiti sciogliersi per troppo calore interno, come quando da bambino aveva scritto la favola del cordone ombelicale e sua madre non ci era rimasta male, l’aveva letta a tutti i parenti.
Lui, per la vergogna, se la ricordava ancora, gli era tornata in mente proprio in quel momento: c’era una volta un cordone ombelicale che doveva essere tagliato in un punto preciso per separare il bambino dalla mamma; infatti il cordone ombelicale è fatto di tanti puntini ma ci sta solo un punto dove il cordone ombelicale quando viene tagliato non sente male e non sente male nemmeno la mamma e così la mamma può cominciare a volere bene al bambino; siccome io sono nato in anticipo e non mi aspettavano per quel giorno, il punto preciso del mio cordone ombelicale non lo hanno trovato, hanno sbagliato a tagliarlo e alla mia mamma ha fatto male.

Erano passati tre mesi da quando Margherita se n’era andata di casa.
La sera prima avevano scopato sul divano nuovo, lei indossava biancheria intima nera e succinta, lui si era addormentato sfinito quasi subito e la mattina, sulla moka già pronta, aveva trovato un biglietto con sopra scritto: non cercarmi.
Come voler raccontare un sogno che dopo: aveva pensato a uno scherzo, ma non era uno scherzo.
Mentre Margherita non rispondeva più al telefono, ai messaggi e non richiamava, lui aveva distrutto la macchina contro un albero, le gomme lisce sul bagnato sono pericolose, Margherita lo ripeteva sempre, ma dove cazzo stava, ora che glielo avrebbe voluto dire.
Dopo l’incidente si era lasciato convincere a prendere i mezzi pubblici, non aveva né la testa né i soldi per un’automobile nuova, nella tasca portava sempre il disinfettante, poggiare le mani sulle superfici, i germi, lo sporco, il fetore: non riusciva a immaginare un modo più veloce per smettere di fumare, e non voleva farlo.
Le osservava tutte le persone sulla metro, o sull’autobus, attaccate come l’edera sui finestrini, sulle porte, a scansare il fiato pesante degli altri, a ripulirsi le guance col polsino della giacca, ingannarsi la giornata con qualcosa di importante, o con la lista della spesa, anche lui ci cascava, passare la matita su una sagoma, ripetere a memoria qualcosa: come l’ossessione di voler capire a tutti i costi.

Il suo editore lo chiamava quasi ogni giorno, era sempre più preoccupato, le settimane erano passate senza l’invio di nessuna bozza, le clausole contrattuali lo inchiodavano. Lui provava a rassicurarlo, prendeva tempo, conosceva le scadenze, ma le parole non trovavano una via d’uscita, come quando una gelata improvvisa interrompe la fioritura primaverile; affondare e non riuscire a tornare in superficie, dimenarsi scomposti, anche i bambini sanno fare il cagnolino nell’acqua, ma la sua testa era una discarica di rifiuti ingombranti e cemento armato, col peso andare più giù. Le dita riuscivano a comporre solo il numero di Margherita, un abbandono, un trauma, un incubo, cos’era: per questo non scrivere niente.
Una volta, alle quattro del mattino, l’aveva chiamata, era tardi, lo sapeva, ma aveva sperato che la disperazione potesse meritare un moto di clemenza improvvisa, o anche solo l’abitudine di allarmarsi, il fiato che si spezza in piena notte, l’urgenza di un conforto estorto; era quello il fondo, aveva pensato, spedirsi direttamente in un girone di miseria senza conoscere una colpa, una qualsiasi, per cui essere processato.
Che Margherita fosse viva lo aveva saputo da amici in comune, nessuno aveva voluto aggiungere altro, i volti contratti dalla discrezione come tante formichine in processione che sanno solo raccogliere le ultime briciole di un pasto sconosciuto, stringere gli occhi e non guardare cosa c’è dietro lo spioncino, le lacerazioni profonde fanno impressione, l’ago e il filo per le suture appartengono ai dottori e così soltanto i dottori imparano la chirurgia del linguaggio, dalle loro bocche le parole escono fuori morbide, giuste.
Nessuno dei suoi amici era un dottore e lui non aveva insistito.
All’inizio gli era bastato quel biglietto per rimanere calmo, Margherita sarebbe tornata, in casa c’erano ancora i suoi vestiti, le creme, le scarpe, i libri, gli orecchini, e ogni cosa che un tempo era stata indispensabile.
Lui era rimasto in casa.
Ma il biglietto a furia di leggerlo si era deteriorato, un alone di unto aveva fatto sbavare l’inchiostro e due gocce di caffè avevano incurvato la carta. Non riconosceva neppure la grafia di Margherita, lo avrebbe potuto lasciare chiunque, forse lo aveva davvero scritto una sconosciuta.
Lui e Margherita erano stati bene finché lui, una notte, si era addormentato. Era caduto in uno stato asintomatico e si era svegliato al contrario, quante volte l’aveva sentito, si trattava di una complicazione improvvisa, il protocollo seguito con cura e le parole come ovatta nelle orecchie: ci dispiace per la sua perdita, abbiamo fatto tutto il possibile.
Anche suo padre stava bene il giorno prima di morire e anche allora i dottori avevano detto cose morbide, giuste.
Le cose si sfasciano, un gesto goffo, una gomitata per sbaglio, le mani come burro che non trattengono, a terra un tonfo: tutto fin troppo semplice.
Eppure, fuori da un ospedale c’è dell’altro, le parole quando sono dette per sbaglio, e vengono fuori male, si appuntano dentro il cervello di chi le ha ascoltate e da lì non se ne vanno, crescono storte, spingono forte, vogliono uscire ancora una volta; o il silenzio, che allora era come non volersi dare una tregua, spegnere la luce e non vedere più gli oggetti nella stanza, se rimangono al loro posto oppure scompaiono, giocare a nascondino con una sequenza di numeri infiniti da contare, abolire il tana libera tutti, imprigionarsi contro il muro, e le ginocchia, doloranti, in castigo, sui ceci.
Lo fanno tutti, lo aveva fatto anche Margherita che odiava gli aghi e alla vista del sangue tremava.

Ogni giorno, prima di rincasare, si fermava nel bar del quartiere, ordinava al bancone due birre, rimaneva seduto sullo sgabello fino alla chiusura mentre Aureliano, il proprietario, sistemava le sedie sopra i tavoli e passava lo straccio sul pavimento di ceramica grigia.
Accanto ad Aureliano la sua lingua si sentiva al sicuro, la fatica in gola si placava, qualche volta prendeva appunti sul tovagliolo fradicio sotto il boccale, Aureliano era un omone alto e tozzo, aveva orecchie proporzionate alla sua statura, parlava poco e muoveva di continuo le mani nell’aria.

C’era la storia della dismissione delle cabine telefoniche, Margherita non l’aveva mai trovata un argomento interessante, sbuffando si spostava in un’altra stanza quando lui riprendeva il discorso, ma lui la inseguiva e continuava, anche la scelta imprenditoriale della Telecom era diventata una questione personale, si parlava addosso, lei non ne poteva più così preferiva darsi della stupida perché non lo capiva; solo allora lui le dava ragione e smetteva.
Sì, soprattutto quello, non trovare il tempo per guardarsi allo specchio prima di riflettere lo sporco nella faccia di qualcuno, lavarsi il viso con il sudore di un altro, sistemare l’evidenza in un cassetto e così ripiegarsi composti e ordinati nel giusto, non importa a quale prezzo, distribuire la ferocia in un posto familiare e assicurarsi ogni giorno una nuova, piccola comodità domestica. Era difficile immaginare un incastro più riuscito.
Anche ad Aureliano aveva dichiarato il suo disappunto per la dismissione della cabine telefoniche, quando comunicare era una questione di gettoni limitati, un fatto serio e calcolato, si doveva arrivati preparati, le cabine puzzavano di piscio e c’erano sputi ovunque, sfidare le malattie, un barlume di romanticismo e di cura dentro al degrado, e le telefonate interrotte non per noia ma per indigenza: dalla cornetta arancione trasmettere le uniche cose importanti, misurarle.
Aureliano se le ricordava le cabine telefoniche, diceva che erano spazi angusti e soffocanti, ci entrava a malapena, non ne sentiva la mancanza.
«Per me ci pensi troppo, è solo un mezzo come un altro. Le cose cambiano, ma sono solo cose, se c’hai ‘na cosa da dire, la dici e basta».
Margherita adesso aveva una tariffa coi minuti illimitati, 15 euro al mese tutto compreso, ma non aveva più niente da dire.

Qualche volta in quel bar aveva riscoperto la voglia di finire a letto con una donna, abitava a pochi metri, la casa era vuota, era ancora bello nudo.
Un’ora appena, il vantaggio di non chiamarsi per nome, venire per un trasporto elementare e modesto, Margherita aveva un corpo che lo ipnotizzava, urlava fino a spaccargli i timpani, era quello il suono dell’orgasmo, non c’era più altra forma di piacere che il suo udito avrebbe saputo riconoscere, o che la sua lingua avrebbe voluto accogliere, anche se l’accoglieva.
Era il primo a recuperare i vestiti da terra e mentre la sua amante era ancora stesa sul letto con le gambe divaricate e le braccia spalancate lui nella testa continuava a svestire e rivestire Margherita; all’esterno, però, non sembrava distratto, era gentile, le chiedeva sempre se avesse bisogno di una doccia, scherzava sul bagnoschiuma bio alla lavanda per pelli sensibili, non aveva mai fretta di mandarla via.
Dall’altra parte della città, in una stanza che neppure riusciva a mettere a fuoco, forse Margherita stava urlando verso l’orecchio di qualcuno, come quando era il suo, nello stesso identico modo, solo che non era il suo; questo pensiero lo perseguitava, non si trattava di scopare con un altro uomo, quanto ripetere l’intensità di quel suono, voleva che fosse solo sua, ma non basta volerlo, se per di più non c’è la prova di innocenza. Non glielo avrebbe mai perdonato.
C’erano attimi in cui esitava ad aprire la cassetta della posta perché temeva di trovarci dentro un video di Margherita; nessuna immagine, solo le grida a squarciare come il taglio profondo di una tela di Fontana il nero pece dello schermo e da lì infilarsi ovunque fino a ricoprire le pareti e occupare ogni angolo, mentre di lui, a poco poco, scompariva ogni traccia corporea dentro la maglietta che lei gli aveva regalato per il compleanno e che indossava come una pelle ormai logora eppure irrinunciabile.
Era un fatto di spessore: senza Margherita si sentiva sottilissimo e più si assottigliava, più si convinceva che Margherita, in quei mesi, aveva capito di volere ogni uomo tranne lui, era andata via senza averglielo detto a voce alta e, almeno di questo, poteva esserle grato.
Invece lui ce l’aveva sempre davanti agli occhi Margherita; qualche volta avrebbe voluto strapparsi i bulbi oculari per trovare sollievo, ma non l’avrebbe trovato neppure così.
Era piuttosto il bisogno di mettersi in salvo quando diventa un tarlo che scava altri buchi nel cervello e da quelli dipendere, fingere di addormentarsi fra nodi di lenzuola e ogni tanto girarsi dall’altra parte: il vuoto lasciato non è altro che un campo lungo cinematografico e in lontananza altro spazio nell’armadio per le camicie, i pantaloni, le felpe della palestra, la lavatrice ogni 10 giorni, le bottiglie di birra sul pavimento, il tubicino del dentifricio lasciato aperto. Lui non le aveva mai volute le rotture di coglioni.
Poteva essere un fatto semplice pure quello, come scopare che allora era solo un modo per raccogliere la polvere da un pavimento marcio e con le crepe, o, ancora, un’involuzione verso uno stadio di ripulita normalità: funzionava, quando funzionava.

Margherita si era schiarita i capelli e la frangia le cadeva lunga sugli occhi, Aureliano le aveva detto che quel colore miele le addolciva il viso: era bellissima.
Ogni giovedì, all’ora di pranzo, passava a salutarlo, ordinava un tramezzino al salmone e un succo di frutta, chiacchieravano di cose stupide e leggere, ma mentre lo facevano ognuno dei due diceva anche altro; Margherita, ad esempio, aveva parlato di un week end alle terme da sola, dell’appartamento che una sua amica le aveva lasciato per sei mesi, di come aveva riscoperto il piacere di un bagno caldo prima di addormentarsi, aveva dimenticato quanto le mancasse una vasca.
Si fidava di Aureliano e quell’appuntamento era come salire le scale e aprire la porta della sua vecchia casa, un pezzo alla volta, poteva bastare, non le servivano le creme, le scarpe, i libri: non ancora.
Un giorno, però, si era seduta e senza neppure salutare Aureliano si era messa a piangere, non aveva fame, un macigno sullo stomaco le impediva di ragionare, così aveva detto, allora non farlo, le aveva risposto Aureliano.
E Margherita lo aveva ascoltato e con la voce che singhiozzava gli aveva detto che parlarsi l’uno di fronte all’altro, durante la cena, e tenersi in vita raccontandosi della minestra troppo insipida, quante volte aveva pensato a quell’immagine: le dita che tamburellavano sul tavolo e contavano le molliche di pane mentre gli occhi proiettavano nel piatto il presagio di una resa. Scoprirsi annoiati, infuriati e aggrapparsi di nuovo alle parole che sono incidenti linguistici ma vale la pena usarle anche solo per giustificarsi e non tenersi gli affanni chiusi dentro che può fare impazzire, come tutti quelli che credono di poter svoltare le insicurezze altrui con un tono convinto e non trovano pace finché non trovano un esempio ineccepibile per farsi capire e avere ragione.Eppure, ogni volta, quella immagine sembrava solo inventata, si portava via una mensola del soggiorno, un cuscino dal divano, la fotografia del loro viaggio in Nepal: non riusciva a farla stare in piedi. Allora aveva provato a ricominciare da capo, una scena diversa da ripetere ogni sera, era diventata brava ad allestirla in modo che non strappasse fischi, o anche solo un inciampo, un disturbo, una domanda.Ma mentre il suo nascodiglio diventava sempre più arioso, fuori si sentiva assediata, certe sere non riusciva neppure a tornare a casa, rimaneva seduta in macchina, spiava le luci accese dei palazzi ma quelle luci finivano per trasformarsi in altrettanti nemici, qualcuno avrebbe potuto riconoscerla, interrogarla dall’alto e infine smascherarla; così prendeva coraggio e rientrava, e chiudendosi la porta alle spalle desiderava solo rovesciare la tovaglia e riconoscere due corpi stesi, lunghi sulle assi di legno e nel pavimento i cocci rotti, i resti di cibo sparsi ovunque: non c’era molto altro da ammettere.
Come se baciarsi fosse firmare un’assoluzione: era andata via dopo averlo ingoiato.
Aureliano non aveva detto niente, faceva il barista da più di trent’anni, sapeva quando era il momento di tacere e sapeva riconoscere le persone che non vogliono essere spiegate; dalla vetrina dei dolci aveva preso un waffel, a Margherita piacevano molto, li aveva tenuti nella carta menù solo per questo.

Poi: la porta del bar che si apre, il vento che entra come un leggero fastidio sulla pelle dei polpacci scoperti che infatti diventa d’oca, una signora china sull’asfalto che recupera le mele e quattro carote cadute dal carrellino della spesa, le fa male la schiena si capisce da quanto si lamenta ma non vuole aiuto, il clacson di una macchina in prima fila che risuona sui cartelloni pubblicitari e le quattro frecce di quella in seconda ma nessuno che arriva a spostarla, una ragazzina alla fermata dell’autobus che manda a fanculo una sua amica, forse non erano amiche.
Margherita ha davanti tutte queste cose quando si volta verso l’ingresso del bar, ma non le vede, vede solo lui che entra e mentre lo fa nella testa ha una verità monca.
Lui dietro di sé ha le stesse cose, ma non ci bada, fissa Margherita come si fa con la lavagna luminosa nella parete dell’oculista per provare a decifrare ogni lettera, ogni segno di interpunzione e non perdere diottrie; anche lui nella testa ha una verità monca.
Si avvicina al bancone, si siede nello sgabello accanto a quello di Margherita, il suo viso è una galassia di punti che esplodono, solo le labbra rimangono concentrate in un semicerchio, un sorriso; Margherita non si sposta e continua a mangiare il waffel.
«Ancora un po’ di marmellata e di» dice lui.
«Grazie, non ce l’ho» risponde Margherita.
Dentro il bar, quel giorno, sulle lacrime di Margherita a un certo punto galleggiavano due verità monche: da leggere a due voci, cosa impossibile ovviamente.

Tratto da «Dialogo di una rottura», scritto da Julio Cortazar.