Fuga dall’Aracnotesta – Cover, 10


Segno a mente tra le cose che ho imparato: non scrivere Fasci appesi con la bomboletta spray su un muro. La ragazza che ora mi siede accanto ha scritto Salvatore facciamo la rivoluzione ed è stata comunque presa.
Correggo le cose che ho imparato: non scrivere niente su un muro.
Il poliziotto alla fine ha dovuto farmi lo sgambetto per salirmi sulla schiena e immobilizzarmi. Gli avrei detto di non vantarsi troppo poi in caserma perché insomma potrei essere sua madre, non c’è molto da fare gli atletici, soltanto che faccia a terra sfioravo un sampietrino sconnesso con gli incisivi e la conosciamo tutti bene la scena di quel vecchio film con Edward Norton nella parte del neo nazista. Comunque sia m’ha preso e mi premeva col ginocchio in mezzo alle scapole e ripeteva «Che cazzo corri alla tua età eh? Che cazzo corri?» e sarebbe stato proprio da fargli una partaccia, Non è mica una cosa carina da dire, sai? E comunque se la mettiamo così tu che cazzo mi insegui? Ognuno il suo lavoro, ma il film mi si è infilato in testa e sono rimasta buona per terra. Ci hanno caricate sui blindati e la manifestazione è finita lì.
La fidanzata di Salvatore adesso singhiozza, il mascara le cola fino al mento. Le dico di non preoccuparsi, lo ripeto ad alta voce a beneficio di tutte quelle sul furgone con me «Hey tutte, andrà bene» dico a voce alta e un po’ spavalda perché non ci sono più sampietrini, ma uno degli agenti che è salito con noi dice «Signora, faccia silenzio».
Quello che volevo dire l’ho detto così ubbidisco e comunque almeno questo qui ha usato un minimo di cortesia.

Da ragazza salivo spesso a Posillipo per guardare verso Bagnoli perché subivo il fascino delle rovine dell’Italsider: una struttura rossa e arrugginita vecchia di cent’anni che stava ancora lì a ricordarci l’industria che fu – i camini i forni le emissioni insensate – e ci sarebbe stata per altri cent’anni ancora, sempre più sventrata e rinsecchita, amianto e metalli pesanti a forma di scheletro di dinosauro a due passi dal mare impossibile da bonificare – la distanza tra il carretto delle granite e il bagnasciuga, tra la cabina spogliatoio e le conchiglie. Protetta dall’ombra di un pino secolare guardavo dall’alto e mi piaceva lasciarmi turbare come una sciocca credendo di stare davanti a nient’altro che una fantasia steampunk. Quando hanno demolito tutto, tanti salirono apposta a Posillipo per guardare. Andai molto tempo dopo, una volta finita la ricostruzione: il centro sperimentale Lepidoptera aveva effettivamente la forma di una farfalla, come avevo letto, per richiamare la forma dello sciame di Centri in giro per il mondo. Nelle parti non metalliche era bianco immacolato e ricoperto di consapevoli pannelli solari. Molto più basso dell’Italsider, si amalgamava assai meglio col territorio. «Finalmente la città fa un passo avanti nel futuro» disse il sindaco. Nemmeno un puntino di ruggine.

Camminiamo in fila indiana, la fidanzata di Salvatore mi sta davanti, riconosco solo lei tra quelle della manifestazione. Indossiamo tutte scarpe di tela blu con la suola in gomma, produciamo un leggero fruscio. Lei si gira un attimo, dice «Scarpe da ospedale» con una smorfia schifata. Le sorrido ma non so se mi abbia riconosciuta. Dice ancora «Sei tutta bianca, coi capelli e la tuta sembri tipo un angelo».
«Grazie tesoro» rispondo «ma non credo ci sia concesso chiacchierare».
L’avvocato ha detto che conveniva patteggiare chiedendo di scontare la pena come Risorsa Scientifica. Se ti proponi come Risorsa Scientifica baratti il carcere con 6 mesi al Centro a fare test. Niente processo, spese legali minime. Per aver imbrattato i muri la pena è già severa, ma c’erano da aggiungere i cartelli col disegno dell’utero che bestemmia, senza contare che le manifestazioni di protesta devono essere autorizzate e non lo sono mai da almeno vent’anni.
«Siamo fortunati anche solo a poter valutare questa opzione, signora» ha fatto il mio avvocato, «i froci lì al corteo se lo sognano il Lepidoptera».
Forse ha capito che non credevo alle mie orecchie.
«Pardon» ha detto coprendosi la bocca, come se gli fosse scappato un rutto a tavola.
«Non si verificano più incidenti, comunque, stia tranquilla.»
«Quel caso in Brasile.»
«Ma come fa a paragonare la loro situazione politica alla nostra!»
«E in America.»
«Per i froci è sempre un’altra storia.»
Non ha chiesto pardon questa volta.
Camminiamo di corridoio in corridoio per 20 minuti quando arriviamo dove dobbiamo arrivare: un corridoio pieno di porte. Ci mettono una per stanza e non succede niente per un pezzo.

Perlopiù ci prelevano parecchie fialette di sangue. A volte a qualcuna gira la testa e i medici le portano un dolcino. La fidanzata di Salvatore ha finto un capogiro per averlo: le è andata bene solo la prima volta. Dopo la seconda non l’abbiamo vista per tre giorni.
La mattina c’è il colloquio di gruppo in uno stanzone bianco, il pomeriggio quello individuale in uno stanzone bianco diverso. Ci fanno parlare sempre di quanti bambini vorremmo o abbiamo avuto e perché proprio quel numero, perché non di più, e cosa faremmo se vedessimo un bambino in difficoltà, chi salveremmo tra un bambino e un adulto che stanno entrambi affogando nello stesso momento, e tra un bambino e un cane, e tra un bambino e una bambina. A volte le discussioni sono molto accese e qualcuna tira i capelli a un’altra. Gli omoni della sicurezza trascinano velocemente le ribelli fuori dalla stanza. Altre volte invece pare che abbiamo tutte molto sonno e i coordinatori devono pungolarci per farci parlare e anche se parliamo non sembra comunque che ci interessi molto.
Nei colloqui singoli spesso insistono per sapere cosa pensiamo delle altre in base alle risposte che hanno dato.
Quando di ritorno alla mia stanza percorro i corridoi al contrario, mi faccio un sacco di domande tipo Avrò anche domani qualcosa da dire sui bambini? Riuscirò a inventarmi un nuovo giro di parole per non parlare male delle altre? L’inserviente mi chiude la porta alle spalle e devo sedermi sul bordo del letto per il peso delle risposte che non so trovare. A volte piango, ma leggera più che posso, e spero riuscire a cavarmela anche domani e spero di riuscire a non farmi vedere così dalle altre anche domani.
Poi succede questa cosa clamorosa: lancio la mia scarpa di tela in direzione di una trentacinquenne con i capelli ricci e scuri, la scarpa rotea al rallentatore attraverso la stanza e la colpisce in mezzo alla faccia. Non ho idea del perché l’abbia fatto, non provo nessun rancore nei suoi confronti, e comunque di cosa stavamo parlando durante la seduta di gruppo? Nessuna idea. Mi trascinano via.
Al colloquio individuale chiedo al medico se per caso ci stanno somministrando qualche sostanza. Il medico guarda l’altro medico – girano sempre in coppia – e insieme mi dicono di non preoccuparmi affatto, sono gentilissimi e sorridendo mostrano spaventosi denti bianco ottico senza profondità, come ripassati col bianchetto.
Mi domandano «Può dire di avere una generica fobia verso l’assunzione di medicinali?».
«Ah-ah no, adoro i medicinali in generale. Non era questa la mia domanda.»
«La sua domanda è?»
«Se ci state somministrando qualcosa di strano
«Ha firmato una liberatoria.»
«Sì, e potrei sapere quali sono queste sostanze in particolare
«Naturalmente. Tenga, beva un po’ d’acqua. Ma dica, c’è qualche fobia che la sta affliggendo in particolare, signora?»
Non mi va molto, ma parlare assomiglia a un atto riflesso: qui tutto assume una sfumatura medica. Confesso la fobia delle acque contaminate e delle armi chimiche, delle malattie degenerative, dei tubi e degli scarichi, delle persone che litigano, del centro Lepidoptera nello specifico e non genericamente dei laboratori, della scienza, della tecnologia, non ho paura del Cern per esempio o della stazione spaziale internazionale o dei vaccini o della penicillina.
«Si sta riguadagnando un posto tra le persone per bene, vuole o no riguadagnarselo? Le stiamo chiedendo davvero il minimo indispensabile, tutto considerato» dice uno dei due, quello basso o quello alto o quello pelato, comunque mi risveglio chissà quando nella mia stanza.

Sette ragazze su quindici sono incinte. Contribuirete ad aumentare la natalità dello zero virgola zero zero qualcosa, il personale medico blatera di continuo frasi simili pronunciandole come se fossero di congratulazioni. Le ragazze vincono un’ora di tv sul canale che manda a rotazione commedie romantiche. Non hanno il telecomando. In una delle passeggiate verso le nostre stanze, la fidanzata di Salvatore mi chiede «Di cosa sono incinta?» e a parte stupirmi della scelta lessicale non so risponderle.
Io che non posso rimanere incinta, al quinto mese come Risorsa Scientifica saprei intervenire in caso di apnea notturna del neonato e sono ingrassata di 20 kg. I capelli mi si sono diradati e sono duri e ritorti come la resistenza di una lampadina fulminata. Tra un bambino e una bambina tenterei di salvare entrambi mettendo a repentaglio la vita di tutti e tre: questa è incredibilmente la risposta giusta, lo intuisco durante l’ennesimo colloquio individuale, da una certa piega che prende il sorriso dei dottori. A letto ci ripenso e comincio a ridere nel cuscino: sto solo tirando a indovinare da 5 mesi.

La fidanzata di Salvatore è enorme, capita ormai di vederla soltanto ogni cinque o sei giorni ma è sempre circondata da coppie di medici affaccendati, è impossibile parlarle in mezzo alla quadriglia. Di sera, lei e le altre incinte vengono riportate alle stanze in sedia a rotelle. Approfittando della confusione attorno a loro, riesco portarmi in camera un cucchiaio che tengo nelle mutande per 12 giorni e non serve assolutamente a niente: non a cavare un occhio, non a perforare carne, non a scavare tunnel di fuga, non a minacciare ostaggi. L’inutilità del cucchiaio mi spezza a metà così mi do un’occhiata dentro e dentro ci sono io che piango per questa mia debolezza: una vita intera a protestare ma quando arriva il mio momento non so dare una scossa agli eventi foss’anche solo con un cucchiaio. Vorrei farla finita, levarmi di mezzo, e piango ancora di più perché ho solo un cucchiaio. Poi la smetto perché capisco che è colpa degli ormoni e di chissà cos’altro che mi somministrano.
Poi scadono i 6 mesi.

Nel piazzale davanti al Lepidoptera, il sole è così forte che dobbiamo coprirci gli occhi con una mano, così sembra che guardiamo tutte il panorama cioè le auto oltre il cancello.
Mi hanno restituito in un sacchetto di plastica le mie cose: orologio, anelli, portafoglio, cellulare ripristinato alle impostazioni di fabbrica.
Mio marito è poggiato contro la nostra auto. Prima di riconoscermi passa più volte lo sguardo su di me, e lo ributta in mezzo al gruppo. Quando gli arrivo davanti sorride ma si vede che è scioccato. Inizio a pensare a una battuta delle mie ma lui fa prima, mi abbraccia con un movimento nuovo inventato adesso, una postura adatta a contenermi. Stiamo così per un tempo lunghissimo e io lo so che sta piangendo e non vuole che lo veda.
Da sopra la sua spalla rintraccio la fidanzata di Salvatore che raggiunge Salvatore: è un ragazzo magrissimo con i capelli tagliati a scodella. Avrà vent’anni ed è arrivato con un motorino cinquanta che a stento può reggere lui. Si mette le mani sulla testa poi la bacia poi si mette di nuovo le mani sulla testa e insieme guardano il motorino e la pancia enorme il motorino e la pancia enorme come di fronte a un rebus e si baciano ancora.
«Andiamo? C’è un sacco da fare» mi chiede mio marito nel collo e, nell’attesa che sia io a muovermi per prima, bacia l’esatto punto in cui ha parlato.

Siamo circa venti sedute in cerchio ma sul tavolino basso ci sono caffè, biscotti, giornali e siamo in un salotto. Qualcuna è appollaiata sul bracciolo del divano, i nostri mariti e i nostri Salvatore sono al telefono con certi giornalisti stranieri che ancora raccontano quello che succede nei Centri Sperimentali o sul balcone buio a fumare o dietro di noi con una mano sulla spalla. Ogni tanto qualche bambino piagnucola dalla stanza accanto. Ci abbiamo messo mesi a ritrovarci tutte e riorganizzarci. È una serata familiare e spaventosa che ricorda una seduta di gruppo per la posizione delle sedie – lo pensano tutte ma nessuna lo dice – e perché vorrei lanciare la mia scarpa contro Anna e Lucia e una ragazza nuova di cui non so ancora il nome. Hanno preso la parola e hanno chiesto se vale la pena ricominciare ancora una volta tutto da capo, se vogliamo mandare altre al Lepidoptera, far loro avere figli con la forza o farle ammalare o peggio e forse dovremmo smetterla di imbrattare i muri e protestare se la pagheremo così cara, e parlando indicavano di volta in volta me, una che aveva partorito, un’altra con un grosso foulard colorato in testa.
Quando hanno concluso si sono sedute e noi altre siamo rimaste tutte in silenzio con i nostri fogli in mano che pesavano un quintale perché su c’era disegnato a matita il percorso della prossima manifestazione e c’erano abbozzate le grafiche da farci certi poster e ne stavamo parlando già da un paio d’ore anche via Skype con le coordinatrici di altre città.
Poi qualcuno ha borbottato che sono gli stronzi a farsi i fatti propri, stavano chiedendoci di girare le spalle Anna, Lucia e quell’altra nuova? e allora tutti hanno iniziato a urlare e chi si è schierato da una parte e chi dall’altra e urlano ancora, saranno quindici minuti.
Io sto in silenzio, mi guardo le scarpe e me le tengo ai piedi, nonostante il primo impulso. Segno a mente tra le cose che ho imparato: gestione della rabbia. Ma la lite attorno continua e un paio di bambini si sono svegliati per le grida e piangono oltre le pareti. Mi domando se non abbiano ragione, se tutto questo porterà a qualcosa, forse no e comunque non so a che costo, e mancano ancora delle ragazze e dei ragazzi all’appello dopo tutti questi mesi. Inizio a fare i conti – quanto tempo è passato dalla manifestazione, quanto per le prime udienze, chi ha fatto richiesta dopo, chi prima, chi ha scelto il carcere – ma mi perdo subito tra le facce che immagino e che mi mancano, e le urla nella stanza. D’un tratto raggiungo una specie di soglia che non sapevo di avere e tutto si fa muto. Mi trovo immersa in questo silenzio che è solo mio e mi viene in mente che stiamo andando per forza da qualche parte perché almeno una cosa l’ho imparata. Così correggo la lista: non farsi scoprire a scrivere Fasci appesi sul muro.
Non farsi scoprire.
Alzo la mano nella baraonda e aspetto che mi diano la parola.

Tratto da «Fuga dall'Aracnotesta», scritto da George Saunders.