Come quella storia del cane muto e della papera sottomessa. Lui un tempo ci rideva. Ora gli saliva la brina negli occhi quando Lei riattaccava a raccontare. Si distraeva moltissimo, soprattutto nella parte in cui Lei ripeteva il pezzo della papera che si lascia strattonare sulle strisce pedonali dai bambini delle scuole elementari. Era tutto un lastricato di mani e di piedi – diceva Lei – che l’avrebbero potuta portare via. Lui aveva inventato un trucco per farla smettere di parlare. Voltava la testa a sinistra procurando in Lei la paura di perdere il controllo della macchina, uscire fuori strada o, peggio, finire morti in uno scontro frontale con le macchine che avanzavano in direzione opposta a quella loro. Solo così Lei faceva immediatamente silenzio e Lui tornava a guardare dritto davanti a sé. A casa, qualche mezz’ora prima, avevano litigato sull’orario di partenza. Lei diceva di farlo subito, appena finito di caricare il bagagliaio. Lui era contrario perché si stava a un quarto dal mezzogiorno e si sarebbe crepati dal caldo in macchina e conveniva aspettare la sera e partire col fresco. Alla fine si fece come voleva Lei. Come sempre – bofonchiò Lui che nel frattempo andò a lasciare il merlo jamaicano dal dirimpettaio di ballatoio, raccomandandosi di ucciderlo lentamente dandogli da bere acqua e sale.
Lei ora si asciugava le ascelle con le salviette umide per le parti intime e le si stringeva il culo a dover ammettere che aveva ragione Lui, che quella macchina era un forno crematorio in cui si faticava a respirare. Iniziò a tormentare con le dita dei piedi l’adesivo della Madonna della scala attaccato al vetro nel suo lato passeggero. E nonostante avesse un gran mal di testa non lo disse, piuttosto prese a pensare sottotraccia che non poteva più spendersi in questioni private a basso rendimento affettivo. Eppure; le scuse per resistere erano tante. Dalla depressione che l’avrebbe certamente colta se si fossero separati, alla necessità di fargli stuccare i buchi lasciati nel muro dai chiodi rimasti senza quadri e divelti uno ad uno durante la prima notte trascorsa nella stessa casa, mentre Lui dormiva e Lei non poteva trovare pace.
Lui guidava sospeso nel passato più recente. Ripensava alle prostitute intraviste sulla Palmiro Togliatti poco prima di imboccare l’autostrada, agli ombrelli che stringevano tra le mani per ripararsi dal sole battente e alle ombre lasciate sull’asfalto da quei corpi seminudi. Per sfuggire allo sguardo obliquo di Lei, che aveva appena iniziato a riraccontare della papera e del cane muto, aveva finto disinteresse e si era ritrovato a piegare gli occhi su degli enormi fenicotteri decapitati, le proiezioni grigie diffuse dal catrame bollente di quelle lucciole meridiane. Il pensiero si allargò fino a tornare all’estate del ’96 quando si era messo a spiare la vicina d’ombrellone mentre cambiava il costume nella cabina gialla del Lido Azzurro, all’eccitazione suscitata dalla caduta del costume bagnato sulle assi di legno del pavimento, alla sabbia che impanava i colori elastici di cui la donna si liberava, al suono della sabbia sotto i piedi della donna, ai seni bianchi che brillavano al centro di una gouache di pelle abbronzata, al twister di vaniglia e cioccolato che gli colava fino al gomito, alla corsa verso il mare per cancellare le tracce della colpa. Quella appena iniziata prometteva di essere l’estate delle presentazioni ufficiali, sua madre aveva insistito perché scendesse con la ragazza e facessero “i bagni a casa”, che un mare più bello di quello del Gargano non lo trovavano nemmeno alle “Saiscendi”. Lui la corresse facendole notare che alle Seychelles non ci andava più nessuno da quando c’era stata la tempesta tropicale e tutti avevano paura di galleggiare in mezzo ai morti.
Lei aveva accolto con favore la proposta di fare il mare da lui. La scarsità di mezzi economici faceva il paio col desiderio di essere presentata in famiglia, anche se sapeva che essere ammessa in casa non l’avrebbe sollevata dalla gelosia nutrita per Lui. Premeva con l’alluce sulla testa della Madonna e fissando la scala raffigurata pensò come messa in orizzontale avesse un aspetto simile alla recinzione intravista nelle foto d’infanzia di lui. Ora che nel giardino di quella casa al mare stava per entrarci materialmente anche Lei, lo spazio le si strinse attorno al corpo. Il giardino di casa recintato come uno zoo domestico. Premeva sulla gola la fotografia della gabbia in cui Lui bambino in mutande giocava a innaffiare il prato cavalcando la grossa pompa dell’acqua come un cowboy. Si vide dietro quel reticolato di ferri verdi e capì che, spinta lì dentro, Lui sarebbe tornato fuori a battere libero.
All’altezza di Valmontone Lei provò a rivolgergli la parola per ricordargli di fare benzina; Lui rispose che c’era ancora mezzo serbatoio e si poteva aspettare. Lei gli ricordò che la lancetta del cruscotto non era attendibile perché il galleggiante nel serbatoio era bloccato e falsava l’informazione di servizio. Lui replicò che il galleggiante non poteva segnare mezzo serbatoio pieno se dentro non c’era la benzina. Lei provò a spiegare che invece era già successo che l’asticella del cruscotto tutto d’un botto scendesse da metà a zero e che il rischio sarebbe stato quello di trovarsi a 40 gradi fermi in autostrada. “Fa caldo eh?” abbaiò Lui. Lei tacque consapevole che a tirarla lunga ci avrebbe rimesso, e poi perché aveva detto mezza verità, omettendo che prima ancora di rifornire la macchina Lei aveva bisogno di vuotare la vescica nel bagno del primo autogrill disponibile. Conosceva già la reazione di Lui in merito. Avrebbe accostato nella prima piazzola di sosta incontrata, l’avrebbe fatta scendere per pisciare nella campagna oltre il guard rail, le avrebbe detto quanti passi fare e quando fermarsi, di continuare a dare le spalle a Lui e alla strada e abbassarsi i pantaloni. Lui si sarebbe eccitato a guardarle il culo bianco specchiato nel sole e il liquido dorato colare sulla sterpaglia arida. Lei non avrebbe avuto niente con cui asciugarsi e si sarebbe tirata su le mutande con la paura di essersi infilata dentro anche qualche moscerino. Perciò fece silenzio e continuò a sfottere l’immagine mariana.
Dove la linea dell’orizzonte veniva interrotta dalla presenza di un cavalcavia Lui iniziò a fare mente locale sulla prima volta che l’aveva incontrata, due anni prima, a un raduno cattolico per giovani dai 18 ai 33 anni. Era stato un amico a insistere, Lui si era da poco lasciato con la sua fidanzata storica e quella chiesa, assicurava l’amico, era piena di fica. L’amico aveva usato l’aggettivo “pudiche” e quella parola, più di qualsiasi altra argomentazione del sodale Mercuzio, gli fece stringere gli occhi attorno a un nuovo, sconosciuto, desiderio carnale. La notò al momento della benedizione, seduta nella navata di sinistra, sotto un quadro del Pagliarelli di cui, ricordava, la fidanzata storica, laureata in Storia dell’arte antica, gli aveva pure parlato qualche volta. Trovò nelle immagini la prova tangibile che non tutto quello che la sua ex gli aveva detto andava archiviato nel faldone delle bugie e volle riconoscere in quell’incrocio di rimandi la spia di un destino segnato. Lei era bella e questo favoriva l’ermeneutica fatalista. Tornò in quella chiesa per altre sei volte prima di riuscire a parlarle. Per sette mercoledì consecutivi trascorse la serata a recitare i misteri gloriosi del rosario pronunciando parole a caso, versetti di preghiere antiche di cui non gli era mai importato e che ora mimava muovendo la bocca ma rimanendo muto. Batteva le labbra seguendo il movimento di quelle di Lei, attraversando le parole come un esercizio per far circolare il sangue agli orli della bocca e contrastare così la secchezza della cute, nell’attesa di baciarla.
Nell’ombra del sottopassaggio del cavalcavia la proiezione mentale di quella ultima sera, di quando il prete a fine catechesi chiede se c’è qualcuno tra i presenti che va in zona Monteverde e può dare un passaggio in macchina a questa ragazza qui, indicando Lei. Lui che alza la mano in sinc. Lei che gli porge la mano. Lui che la stringe. Lei che chiede dove ha parcheggiato. Lui che dice di essere venuto a piedi. Lei che mostra i denti. Lui che vorrebbe morderle gli zigomi.
Se non piscio muoio. Se non piscio, muoio. Se non piscio, Gesù Bambino, muoio. Lo psicologo le ha detto di visualizzare mentalmente ciò che vuole quando desidera fortemente qualcosa. Padre Giovanni le dice di fare attenzione alle immagini mentali e di imparare a distinguere ciò che è divino da ciò che è diabolico. Suor Beniamina, del convitto dove abitava prima di andare a convivere con Lui, le diceva di proteggersi la testa con la preghiera del cuore perché “è la testa la prima cosa in cui il diavolo tende ad infilarsi”. Testa-cuore, cuore-testa, testa-cuore, le sembra di giocare a carta/forbice/sasso con se stessa. Vorrebbe solo bere dell’acqua benedetta capace di annullare qualsiasi fisiologico bisogno e, placata, annullarsi in un lungo sonno senza visioni. Non sa se questo desiderio sia legittimo o abbia a che fare col peccato originale, ma crede che nelle difficoltà sia possibile chiedere qualsiasi cosa. La prima volta che avevano fatto l’amore era stata la prima volta per Lei. Non riusciva a riconoscere gli umori del corpo ed era preoccupata di non farlo capire. Confuse l’orgasmo con il bisogno di urinare, lo spinse fuori di se e corse al bagno.
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La sosta senza dirsi una parola all’autogrill di Pontecorvo, a 100 km da Roma, Lei opta per il bagno dei disabili, perché in quello delle donne c’è troppa coda. Mentre si regge al manubrio di sostegno posizionato accanto alla tazza pensa che forse farebbe ancora a tempo a tornare indietro, che magari potrebbe provare a chiedere un passaggio all’incontrario; poi ragiona sul fatto che tutta la gente che le sta attorno sta viaggiando verso sud e Lei per invertire il senso di marcia dovrebbe andare dall’altra parte dell’autostrada. Ma come si attraversa l’autostrada? Non ha la forza fisica per tentare di trovare risposte, sente la schiena umida, la maglietta un sudario. Attorno è tutto gigante, maxi tubi di patatine, confezioni di pasta tricolore da cinque chili, trecce di marshmallows lunghe due metri, bottiglioni di caramelle gommose, big pennarelli confezione da cento pezzi, bicchieri di carta con la scritta “bevi il grande, paghi il medio”, bauli di latta pieni di biscotti al cioccolato, colonne di biglietti da grattare per vincere, l’imbuto della pompa di benzina che sembra risucchiarla. I soldi, i bambini, i cani, i gattini costretti nelle gabbie. Vede Lui a pochi metri da Lei scendere dall’auto per fare rifornimento al self service. Qualcuno la afferra sotto le braccia un istante prima che stia per crollare per terra, Lei volta la testa all’indietro, “Hey tutto bene?”, Lei guarda il ragazzo negli occhi forse troppo vicini ai suoi, il ragazzo continua a tenerle le mani addosso carezzandole i fianchi dei seni, Lei non si allontana e vorrebbe provare vergogna per quella sensazione di piacere appena raccolta, si abbandona nell’alito di tabacco del ragazzo che sposta di poco le dita per cercarle i capezzoli, “sei tutta sudata” le dice. Non dice una parola, Lei, trattiene, fissando le labbra socchiuse del ragazzo, il ricordo di una fuga che non tenterà.
Lui vede tutto mentre infila chirurgico il guanto di plastica prima di afferrare la pistola e riempire il serbatoio. Tenta una lusinga per le mani di quel ragazzo, ma gli viene la schiuma alla bocca per quella ragazzina che va in giro senza reggiseno. La sua puttina, che lo ha tenuto tre mesi in sospeso prima di dargliela. Puttina come tutte le puttine che simulano imbarazzo per i loro corpi in eruzione. Puttina che si accoppia solo nella semioscurità e non vuole mostrare il godimento del volto. “Quando vengo sono brutta” dice sempre, nascondendosi la faccia tra i capelli. Puttina come tutte le puttine di quella chiesa a fine novembre, con i seni lasciati liberi sotto i maglioni, a sgranare preghiere sedute in punta di panca, goffamente contrite, con le gambe contratte in una scimmiottata castità. Puttina che quando lo accarezza vuol fare la romantica e se pensa qualcosa di maiale dice che si può fare perché sta scritto nel Cantico dei cantici della felicità. Puttina, puttina, puttina mesozoica, puttina bizantina, puttina cretina, cretina. Cretina.
La guarda mentre si scosta dal petto del ragazzo, sorride a testa bassa, risponde forse così a un complimento, accetta un fazzoletto che strofina sulla fronte, l’offerta di un sorso d’acqua, Lei che non si bagna nemmeno le labbra e sembra tutto d’un tratto avere fretta di correre via. Il ragazzo che punta gli occhi in direzione della pompa, Lei che si allontana, getta la piccola carta bagnata nel primo cestino che incontra e si rinfila silenziosa in macchina.
«Potevi rimanerci» le dice mentre si riposiziona alla guida.
«Davvero. È il caldo.»
«Non hai capito.»
«Sta macchina, non funziona nemmeno l’aria condizionata, ma quanto ci vuole per aggiustarla?»
«Non mi hai capito, non mi capisci mai.»
«Cosa?»
«Potevi rimanerci.»
«Si potevo, ma non sono morta. Ti dispiace?»
«Col coso potevi rimanerci.»
…
…
«L’ultima volta che ho accettato il passaggio di uno sconosciuto mi sono ritrovata ad attraversare a piedi di notte mezza Roma. Direi che ho già dato.»
«Ritenta, sarai più fortunata.»
«Allora scendo» e senza aspettare una reazione la ragazza apre la portiera, afferra la borsa che ha accanto alle caviglie e abbandona l’auto.
Sembra un gabbiano con un’ala sola quella ragazzina che agita le natiche su tacchi inesistenti, ha persino un laccio delle scarpe da tennis slacciato, rischia l’inciampo. La segue da lontano, la vede attraversare in diagonale la stazione di servizio, posizionarsi in punta all’uscita, stendere il braccio nell’aria. Senza ombra si tiene stretta alla tracolla ed è come se agisse in una assenza di pensieri o per la compresenza di una sovrabbondanza di misteri che all’improvviso allargano la mente. Non sa se davvero vuol salire nella macchina di un nuovo sconosciuto o se piuttosto spera in una catastrofe naturale che azzeri l’estate, le scelte che all’improvviso paiono sbagliate, il senso del peccato e il suo oggetto. Le si avvicina una monovolume con dentro una famiglia, Lei ringrazia, poggia il palmo della mano sul collo della maglietta, serrando l’affaccio sui seni e dice che no, no sta scendendo a Napoli, perciò grazie, magari aspetto un altro po’.
Lui la osserva, non sa se ridere o arrabbiarsi, accosta sotto l’insegna del rifornimento, slittando un metro e mezzo più avanti delle pompe. Fa attenzione a non perdersela questa mutazione della puttina in bacchica-bacchina-battona neanche troppo di periferia. E nel cervello solo due parole lo percuotono a martello: lo – sapevo. La mutante ora sta tutta piegata in avanti e ha tolto la zampa dall’orlo del cotone, si offre mostrando il panorama superiore a due ragazzi in una twingo nera. Lui sente il cazzo premere sull’acceleratore e inchioda a un millimetro dal paraurti posteriore dei gentiluomini che se la stanno caricando.
I due ragazzi escono dall’automobile pronti ad andare in escandescenza, Lui anticipa ogni mossa e poggiando le mani sul petto di uno dei due invoca la loro comprensione. «Scusatemi davvero ma non potevo fare altrimenti, ve la stavate portando via» poi rivolto a Lei «Signorina, io la amo». Lei ora ha una spillo di luce negli occhi «Ci conosciamo?» risponde, e Lui «Ancora no, Signorina. Ma io la amo. Se vuole un passaggio lo prenda da me». I due sconosciuti non capiscono se si tratti di uno scherzo o di follia, Lei invece sembra divertita e accetta di giocare «Dove sta andando?» «Non ho una direzione stabilita, decida Lei.» «Dovrei fidarmi a viaggiare con un uomo che non conosco e che non ha una destinazione?» «No signorina, lei dovrebbe continuare a non fidarsi di nessuno, rimanga coraggiosa e venga via con me». La sua risposta è un sorriso di compiacimento, prova conforto a ritornare in macchina, seduta accanto al suo uomo che sì la vuole ancora, la vuole sempre. Ripartono senza più paura di non incontrarsi.
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A Venafro non c’è il mare, ci sono due fiumi ma Lei non può vederli. Lui ha messo il cellulare in carica, vibra e scuote il comodino, sul monitor il nome della madre che vorrà sapere a che punto sono del viaggio, forse persino cosa gradiscono per cena. Lei osserva dai vetri della stanza il paesaggio che le sta di fronte, un pezzo di strada statale con un trattore che procede lento tenendosi sul ciglio tra l’asfalto e l’erba. Le era sembrato divertente sconvolgere i piani stabiliti, aveva riso leggera, con voce occipitale, quando Lui, continuando a darle della sconosciuta, aveva pagato il casello all’uscita di San Vittore. «Cerchiamo insieme un luogo ameno, vuole?» le aveva detto.
«Dici che c’è un’arcadia in mezzo alla statale dove starsene nudi a fare l’amore senza che qualcuno passando chiami la polizia?»
«Dico, signorina, che Lei è molto spiritosa ma dobbiamo concordare ancora un prezzo per questo passaggio inaspettato.»
Lei si sta annoiando con questa storia di Lui che le dà il “lei”, tenta con una smorfia del volto di fargli capire che basta così. Lui non stacca gli occhi dalla strada. Potrebbe sentirla però quella faccia attraverso il silenzio sfiancato che produce. Lei compressa nella farsa, stizzosa risponde «Pagamento in natura, le va bene?» «Eccola, era questo che volevo sentirle dire». Finiscono nel primo bar/pasticceria/ristorazione veloce/vino sfuso/tabaccheria/locanda che incontrano, sulla provinciale che porta a Venafro, dove non c’è il mare. Ma ci sono due fiumi, pensa Lei, mentre cerca di allontanare dalla mente le immagini recenti di Lui che la prende da dietro schiacciandole il viso sul tavolino ai piedi del letto. Ci sono due fiumi, come a Babilonia, e le sono impraticabili, come quelli in Israele. Pensa al popolo di Dio, lo visualizza nella strada oltre i vetri come un enorme blob opalescente che rotola in corteo dietro il trattore.
Lui occupa la superficie del letto seduto come una di quelle bambole piene di pizzi e trini che adornavano il talamo vedovato della nonna paterna. Gli avevano sempre fatto impressione, da bambino aveva desiderato incendiarle, da grande gli succedeva di entrare in quella stanza per lasciarci il cappotto. Metteva i vestiti sul letto tentando di escludere dallo sguardo gli esserini poggiati di schiena ai cuscini. Certi ribrezzi infantili finiscono per essere la coltre impermeabile di un’anima per tutta la durata di una vita. Così ora quello che non riusciva a sentire era il suo corpo, lo aveva usato per rispondere al bisogno fisico di possederne un altro, quello della ragazza, che aveva smesso di essere Lei da almeno un anno; da quando aveva portato in casa quel merlo jamaicano senza prima consultarsi con lui, da quando l’aveva spiata al bagno farsi fotografie nuda allo specchio, immagini che erano state spedite dal cellulare a un altro che non era Lui, da quando Lei aveva iniziato a raccontare quella storia del cane muto e della papera sottomessa con aria civettuola, privandola di qualsivoglia, seppur triste, poesia. Si infilava in panegiriche parafrasi letterarie per mostrare la sua intelligenza, vantandosi di cogliere infiniti sottotesti inesistenti nella semplice vicenda di due animali. Ma Lei era per Lui bella, poi intelligente. Ad attrarlo era stata l’affacciata di quel corpo sul mondo, la crosta di pelle e peli che la componeva. E tutto quel sentimento che aveva dovuto metterci dentro per farla contenta aveva finito per indebolirlo. Non c’è niente che si salvi, pensava mentre tirava fuori dalla giacca 111 euro e li metteva accanto a sé in direzione della ragazza che continuava a dargli le spalle stando alla finestra. Niente che si salvi, compiendo il gesto di fermare i soldi sul letto con la moneta in cima.
Lei si toccava le gambe per sentire se dentro c’era ancora sangue, non si spiegava in base a quale legge della fisica riusciva a stare ancora in piedi. Temeva che spostando il peso del corpo dalla posizione attuale sarebbe caduta frantumi sul pavimento. Si era sempre voluta immaginare incapace ad accoppiarsi per il basico gusto del sesso, qualcuno le aveva detto che quella cosa era male. Ma prima di essere male, quella cosa faceva male. Sentiva dolore alla nuca, tra le costole, tra le natiche, ai seni, allo zigomo sinistro; negli occhi che per un tempo senza eco avevano fissato il pomello di un comodino. Aveva desiderato un posto ameno in cui giocare a fare l’amore con Lui, le sarebbe bastata l’audacia di un’aperta campagna dove congiungersi semivestiti sottoposti al rischio di qualche guardone. Le era accaduto, invece, di ritrovarsi in un luogo che faceva a meno di tutto e che finiva per non essere niente perché troppe voglie voleva soddisfare, non un vero albergo, né un vero ristorante, né una vera tabaccheria. E non sapeva dire se il vino fosse buono.
La sera in cui aveva inviato la sua immagine nuda all’ex compagno di classe, il fidanzatino dei tempi del liceo, per assecondare un umore che attraversava entrambi piantandosi tra l’erotismo e la nostalgia, poi si era seduta a tavola per cena in accappatoio e Lui le aveva allungato una carezza sui seni vantandosi della fortuna che Lei aveva avuto a incontrarlo.
«Non credo alla fortuna» fu la sua risposta.
«E a cosa credi? Ai santi? Si giusto, tu credi pure al fatto dell’arca di Noè.»
Sì, pensò Lei, mentre tutto finiva fuori fuoco dentro e fuori della locanda.
Sì, mormorò tra sé e sé, mentre innalzava una preghiera a Dio e gli diceva “so che puoi comprendere”.
Sì, disse a Lui, voltandosi di scatto verso il letto, «anche le bestie possono salvarsi.»
Tratto da «Il falso autostop», scritto da Milan Kundera.