Grace Ansley e Alida Slade si erano conosciute a Roma ventitré anni prima. Durante il semestre trascorso all’Accademia di via di Ripetta, le due ragazze avevano rivelato temperamenti innegabilmente opposti; eppure, ciò non aveva impedito che – per un singolare incastro di anime – la loro amicizia si assestasse prontamente su un delizioso quanto pragmatico equilibrio: Alida, la più florida, invitava la seriosa Grace ai pub crawl clandestini, dandole l’opportunità di dimenticare per qualche ora la malinconia assonnata delle intense ore di studio; Grace, dal canto suo, offriva ad Alida quei turbamenti dell’intelletto che si provano nel prendere parte ad attività culturali, come visitare gli studi degli scultori neoclassici di Campo Marzio o leggere antologie poetiche sui prati immemori della via Appia Antica.
Tornate a San Francisco, Grace si era laureata con una tesi su Basquiat, mentre Alida, invece, aveva abbandonato l’Università per dedicarsi alla sua prima opera. Qualche mese dopo, Cat woman (black lives matter) era pronta: un busto della scultrice afroamericana Edmonia Lewis realizzato con la cenere di un quintale di gatti Bombay carbonizzati.
L’opera era stata esposta in un ex-hotel di Tenderloin ed era finita sotto gli occhi della potente Edith Wharton, la quale – forse per smentire le accuse di razzismo che circolavano nell’ambiente e per cui veniva amorevolmente chiamata la bianca baldracca dorata –, aveva segnalato la giovane artista alla galleria Qu’Acre, nota per le strenue battaglie a difesa delle minoranze.
L’improvviso successo di Alida aveva benedetto anche Grace, che aveva scritto una minuziosa analisi sull’arguto discorso politico di Cat Woman, capace di mettere in relazione gattofilia militante e lotta antirazzista. Il pezzo era stato accettato da Art Flesh; e proprio in seguito a questa prestigiosa pubblicazione Grace aveva ricevuto la prima chiamata da Stanford, dove insegnava ormai da quasi vent’anni.
«È proprio incredibile essere di nuovo a Roma con te!» esclamò Grace.
«L’hai detto, dolcezza! Ma sarà ancora meglio quando cattureremo quel cameriere» rispose l’amica.
La disinvoltura con cui Alida riusciva a parlare di certe cose imbarazzava e al contempo divertiva Grace. L’avrebbe voluta lei, quella faccia tosta; invece, Grace Ansley era solo una mite insegnante di Arte Contemporanea, una donna di mezza età un po’ all’antica che tutti rispettavano – o che, come lei stessa temeva, semplicemente ignoravano.
«È lui il nostro fusto di allora» riprese Alida. «Si ricorda, puoi scommetterci. Quante volte gli saranno capitate due gnocche come noi?»
Grace provò una gaia e istintiva riconoscenza nei confronti dell’amica: Alida l’aveva detto, aveva detto che anche lei era gnocca; e questo per Grace era un fatto straordinario, poiché lei era sempre stata la cervellona, appunto, la raffinata, l’interessante… ma mai, mai la gnocca.
«Diamine, quella volta sei stata tu a tirarti indietro. Non giocarmi brutti scherzi: stasera ce lo scopiamo!» proclamò Alida. «Sarà facile come andare in bicicletta.»
Grace produsse un sonoro risucchio di stupore che riverberò nell’aria fetida di agosto. Poi, notando che il cameriere le stava spiando nascosto dietro la porta socchiusa della sala interna del ristorante, scoppiò a ridere di vergogna, si appoggiò al parapetto con entrambe le mani e si diede un piccolo slancio, come se fosse tornata a quella sera in cui, insieme ad Alida, aveva quasi fatto l’amore con un cameriere – quel cameriere? – sulla tomba del Milite Ignoto; le parve di cadere giù dalla terrazza e di non averne paura.
Ma quando il fremito del ricordo svanì, il suo sguardo si posò proprio sull’alcova mancata, l’Altare della Patria. Non era il tramonto a dipingere il monumento: che si trovassero sulle scale o sui propilei, le macchie purpuree non avevano nulla del chiarore rassicurante del sole; i loro contorni apparivano netti e indelebili, e per questo – pensò Grace – dovevano essere resti di uno o addirittura più supernova. La donna si fece prendere da pensieri macabri: credette di vedere i corpi degli uomini-stelle che esplodevano sul marmo candido; immaginò quegli scoppi come azioni di Pollock – forse perché aveva appena pubblicato un saggio sul maestro del Wyoming o forse unicamente per edulcorare una fantasmagoria altrimenti troppo truce.
«Ehi, che ti prende? Il nostro manzo italiano non ti piace più o cosa?»
Grace non era capace di dissimulare quando veniva colta da un cruccio, indicò l’Altare e disse:
«Guarda quelle chiazze.»
«Io vedo solo uno splendido tramonto sulla Città Eterna, amore. E anche se fossero stati dei supernova, sai che ti dico? Pazienza.»
Alida riusciva a essere così indifferente alla brutalità del mondo. Come faceva? Qual era il segreto di tale distacco? Grace avrebbe voluto chiederglielo, ma il piglio impetuoso dell’amica non si addiceva alle conversazioni troppo intime; e così, Grace preferì tacere.
Roma, nel frattempo, era stata ricoperta dal velo torpido del crepuscolo. Lo sfrigolio degli omnibus si confondeva con il cicaleccio delle friggitrici; una colonna di fumo si innalzava da un grattacielo sventrato, mentre i bambini-lucidascarpe affacciavano i loro musetti sdentati nelle hall damascate degli alberghi, per cercare clienti facoltosi a cui vendere i loro svelti servizi.
Il cameriere continuava a fissarle, con un’espressione un po’ stolida; come se, più che essere eccitato, fosse abbagliato da una luce fastidiosa. Alida inspirò facendo lievitare la scollatura sudata e poi sorrise maliziosamente, in un modo che Grace non sarebbe mai stata in grado di replicare.
«Hai paura» fece Alida, senza togliere lo sguardo dal cameriere. «Hai paura che possa essere un dannato supernova. Be’, quando l’ho visto con quell’aria da babbeo, ti confesso di averci pensato anch’io… Ma forse… forse è proprio questo rischio a rendere piccante la situazione. Voglio dire, sapere che una persona può scoppiare da un momento all’altro rende il tutto ancora più sexy, non trovi?»
Grace inorridì: cosa c’era di sexy in un corpo che si spappolava a sorpresa, magari mentre lo stavi baciando, toccando, o addirittura… mio Dio, addirittura mentre era dentro di te?
«Come quegli insetti che schiattano mentre fanno godere la femmina» soggiunse Alida con una voce rauca e famelica.
Grace capì qual era la peculiarità che rendeva l’amica così unica: un’irriverenza
spettacolare, irresistibile per qualunque uditorio.
Poi, Alida schioccò le dita per attirare l’attenzione del cameriere.
«Prego» fece lui, con quel languore irresistibilmente infantile degli italiani.
«Ho una domanda: da dove viene quella colonna di fumo?» chiese Alida nella lingua locale.
«Da una zona oltre il Recinto, signora.»
«Ricevuto, ma da dove esattamente?»
Il cameriere non rispose ma continuò a sorridere. A Grace sembrò di cogliere un certo malcelato fastidio nella sua espressione forzatamente gentile; si sentì un’idiota, una straniera che con arroganza fingeva interesse nei confronti di una guerra di cui, a conti fatti, sapeva ben poco.
«Alida, lasciamo tornare il signore al suo lavoro» disse quindi. Tuttavia, proprio in quell’istante l’uomo aprì bocca, e con una sorta di rantolo disse:
«Il fumo sale da Mostacciano, signora. Roma Sud.»
«Il Sud è la zona dei terroristi, giusto?» lo incalzò Alida.
«Sì, di quelli che voi americani chiamate terroristi.»
A Grace non sfuggì la vena polemica sottaciuta nella risposta del cameriere; Alida, invece, si portò i capelli dietro le orecchie per aprire il sipario sul suo collo recentemente smerigliato dai bisturi.
C’era però un altro rischio che forse Alida stava sottovalutando, pensò Grace: il contagio. Certo, l’Ambasciata aveva confermato il parere dell’HHS, secondo cui gli integratori che gli americani prendevano regolarmente fungevano da agenti immunizzanti per quel tipo di virus. Eppure, Grace non si sentiva tranquilla: se la salute dei turisti non era minacciata dalla Febbre Romana, perché le autorità avevano spostato i ristoranti, gli alberghi e i negozi di souvenir sulle terrazze? Poteva trattarsi meramente di una precauzione a tutela del decoro urbano? E come mai Alida, che non era di certo un’ingenua, non si era insospettita? Osservando l’amica che seguitava a mimare pose da pantera maliarda, le sovvenne un dubbio orribile: forse Alida il contagio lo desiderava, perché così – grazie alla Febbre Romana – avrebbe potuto raggiungere il marito e la figlia nel vuoto mistero dell’aldilà.
Grace sapeva quanto fosse stato faticoso per Alida dar luce alla sua ultima opera, Ritratto di famiglia dall’interno. Nonostante quella vecchia miliardaria della Wharton – ormai ridotta a una larva bisbetica e rattrappita – avesse scritto che l’installazione era un esempio della potenza sublimante dell’Arte rispetto al dolore dell’uomo, Grace era fermamente convinta che nella raccolta di immagini endoscopiche provenienti dalle autopsie di Delphin e Jenny non vi era alcuna catarsi: Ritratto si poteva considerare una satira pornografica della morte; e la satira nasce, per lo più, da un livore irrisolto, ovvero per nulla sublimato.
«Quando era ancora di sotto, l’Impasse era un posto fantastico» riprese l’artista, rivolgendosi al cameriere. «Anche se tu devi essere felice adesso che è stato spostato in terrazza…»
«Dopo il turno torno giù, signora.»
«Capperi, ma lo sai che giù puoi beccarti la Febbre? Per fortuna ci siamo noi a salvarti! Quando finisci?» aggiunse Alida.
«Ho già finito.»
«Grandioso! Allora cambiati, ti vogliamo per un drink. Giulio Ferrari Riserva del Fondatore!»
Il cameriere abbassò la testa obbediente e sparì dentro un’intercapedine. Grace si incupì pensando al destino quotidiano di quell’uomo, a cui era permesso di respirare l’aria salubre delle terrazze esclusivamente durante il turno.
«È in momenti come questo che ringrazio il laser a diodo!» esclamò Alida, sempre più in estasi. «Okay le lotte femministe, ma vogliamo mettere l’importanza dell’epilazione definitiva per la nostra autostima di stronze one-night stand?»
Grace guardò Alida con un accenno di allegro sconcerto; ma subito dopo, l’allegria fece posto a una disapprovazione intima, una specie di senso di colpa che si diffuse nelle sue esili membra come un’infezione e che le scatenò una risata stridula, un guaito che non riuscì a trattenere.
«Io non credo…» disse poi. «Non credo che sia giusto.»
«Cosa non è giusto?» le domandò Alida, sorpresa. «Non vuoi cornificare il tuo maritino?»
«Non dico questo, o almeno non solo. È che offrirgli una bottiglia da ricchi mi sembra una prevaricazione.»
«Dargli l’opportunità di assaggiare un vino da urlo ti sembra una prevaricazione? Scusami tanto, tesoro, ma stiamo parlando di generosità.»
«No, Alida. Assaggerà un vino pregiato, e allora? Noi resteremo quassù… mentre lui tornerà nella sua catapecchia fuori dal Recinto.»
«Grace, voglio dirti una cosa: anch’io vorrei un mondo più sensato. Ma dimmi, non faccio già abbastanza donando un quinto dei miei cachet ad Artisti Per L’Infanzia Deturpata? Quando penso all’epoca in cui questi fottuti europei non si facevano la guerra, mi commuovo, credimi. Però, ci sono due strade per affrontare la vita: esitare, riflettere, mettere in crisi qualsiasi atteggiamento vagamente propositivo… oppure cercare di essere nel presente. Che sarebbe: ottieni il meglio dalla situazione in cui ti trovi.»
«Alida, io non credo che i nostri privilegi di classe debbano ridurre le sane aspettative di giustizia sociale…»
«Dannazione, Grace, perché ti ostini a non capire? Quello che sto dicendo è: “Visto che da soli non possiamo cambiare le cose, cerchiamo almeno di vivere alla grande”. Voglio solo scoparmi un italiano insieme a te. Sono in vacanza con la mia migliore amica, mio marito e mia figlia si sono cotti nell’idromassaggio per uno stramaledetto cortocircuito… voglio darmi un’altra chance, e sai cosa? Penso di averne tutto il diritto.»
Grace esitò; poi socchiuse gli occhi, domandandosi se i suoi scrupoli non fossero sintomi di una personalità opaca. I suoi propositi trasgressivi erano pronti a sgretolarsi al primo attacco, e allora forse voleva dire che erano inconsistenti. Di certo, finché non avesse avuto quella sicumera che sempre sfoggiava l’amica, Grace non sarebbe mai riuscita a ottenere il successo che desiderava.
Dopo aver pronunciato mentalmente la parola “successo” Grace fu sopraffatta da un sospetto, un pensiero scivoloso che tentò di allontanare senza riuscirci: anche se aveva un marito amorevole, una figlia intelligente e un lavoro gratificante probabilmente non era felice. Tutto era filato liscio in quei quarantacinque anni. Forse troppo liscio, commentò con stizza; forse Grace Ansley era soltanto una persona ordinaria, incolore, che aveva raccolto più di quanto avesse seminato, il cui talento non era nemmeno lontanamente paragonabile alla creatività dissacrante, prepotente e tragica dell’amica.
Eccoli, netti e indelebili, i contorni dell’invidia. Indignata da se stessa, Grace si chiese come fosse possibile nutrire sentimenti tanto contrastanti; come fosse concepibile che nell’animo della buona, limpida e retta professoressa Ansley ristagnasse tanta meschinità; e le venne voglia di esplodere come un supernova.
Ma gli americani erano immuni al virus, stando almeno alle rassicurazioni dell’HHS, e non fu Grace a esplodere, ma il tappo dello squisito Metodo Classico che l’italiano aveva portato insieme alla glacette. Il colpo rimbombò, e Grace notò che la luce stinta della sera dava ora all’incarnato del cameriere una sfumatura malsana. L’uomo si era tolto la divisa: la camicia a mezze maniche, maculata di sudore, metteva in mostra braccia ossute, un collo nervoso; sembrava una magrezza tossica, la sua, e quei bulbi oculari sporgenti e abbacinati annunciavano un finale sinistro. Grace riconobbe che il cameriere era completamente diverso da tutti gli uomini che incontrava ai flashmob o alle maratone di beneficienza, ovvero in tutte le occasioni mondane che un’intellettuale del suo calibro era solita frequentare; eppure, nonostante la valutazione poco incoraggiante, quel cameriere la affascinava più dei maschi sani e progressisti del suo giro; forse anche più di Horace, il suo meraviglioso marito a cui era sempre stata orgogliosamente fedele.
Brindarono. Il tintinnio dei calici si innestò nei rintocchi delle campane di Santa Maria in Vallicella e nelle strombazzate della fanteria, dando vita a un accordo sbilenco. Le due donne mandarono giù un paio di sorsi, mentre l’uomo trangugiò il bicchiere senza apparente interesse; un singulto inespressivo lo sconquassò come uno spasmo, i suoi occhi parvero sul punto di tracimare dalle orbite. Grace pensò a quanto potesse essere meccanica la disperazione e si sentì un groppo in gola che scambiò per un rutto.
«Wow, ti vuoi proprio divertire!» disse Alida al cameriere, versandosi un altro calice con un gesto troppo veloce che fece debordare la schiuma. «Che disdetta! Be’, comunque porta fortuna! Tieni, leccamela, prenditene un po’» soggiunse, allungando il braccio liscio e bagnato verso la bocca di lui.
Grace credette di scorgere nel viso dell’uomo l’ombra di un timido, rispettoso disagio.
«Dacci un taglio, Alida, non siamo nelle condizioni…»
Ma prima che Grace potesse terminare la frase, lui cominciò a suggere l’arto dell’artista, che a sua volta emise uno squittio di piacere.
Il fragore di una cannonata scosse i ventilatori nebulizzanti. Un lasagnaman invitava i pedoni a fare il break più appetitoso dell’Urbe improvvisando arpeggi orecchiabili con un liuto. Le frecce lanciate dagli insorti planavano all’orizzonte verso obiettivi ignoti, come uccelli pigri e nostalgici di suolo. Alida si portò la bottiglia alla bocca e bevve lunghe sorsate senza respirare.
«Ehi» disse Grace. «Va tutto bene?»
A quel punto Alida si voltò, mise la bottiglia sul pavimento e con gli occhi gonfi di lacrime sibilò: «Perché? Perché proprio a me, Grace? Ho dovuto scontare il prezzo della gloria? È per questo che Delphin e Jenny sono morti?»
Erano bastati un paio di bicchieri.
«Alida… sei una persona meravigliosa» balbettò lei.
«E allora spiegami perché tu invece non hai mai vissuto una disgrazia simile. Dimmi perché tu, che nella vita sei una perdente, hai ancora Horace e Barbara!»
Il corpo di Alida cominciò a tremare, forse di lì a poco sarebbe scoppiato; doveva essere la Febbre, pensò Grace terrorizzata. Ma Alida non scoppiò: emise solo un grido rattenuto. E poi, barcollando, imboccò il sentiero che si apriva sulle terrazze e che l’avrebbe condotta al relais.
Il cameriere reggeva il suo flûte vuoto con sguardo bovino.
«Mi dispiace» fece Grace quando Alida fu sparita. «La mia amica avrebbe bisogno di uno strizzacervelli.»
Grace si sentiva confusa, l’alcol le stava intasando la mente di recriminazioni.
«Sai, sarò pure una perdente… Ma mi piacerebbe… mi piacerebbe che almeno lei lo ammettesse… non voglio prendermi dei meriti che non ho, vorrei soltanto che lei non trascurasse… voglio dire, l’idea di Cat Woman è venuta da me, sono io che le ho fatto conoscere Edmonia Lewis mentre eravamo a Roma! Maledizione! Fosse stato per lei, sarebbe rimasta tutto il giorno a rimorchiare i buttafuori del Nag’s Head. Tu conosci la mitica Edmonia, no? L’America non l’ha capita per via del colore della pelle… Roma invece l’ha accolta… questa città è un luogo divino, un palcoscenico senza tempo.»
«Boh» disse il cameriere, atono.
Grace si rabboccò il calice e poi servì lui, che bevve il vino con un’avidità impressionante.
«Scusami, ma perché lo stai mandando giù così? Non dovresti concentrarti sulle sensazioni gustative?»
«Io ho sete» fece lui.
Quell’uomo non poteva permettersi il lusso della degustazione lenta. I suoi bisogni primari annientavano qualsiasi proposito epicureo, mentre attorno a lui, ogni giorno, stranieri danarosi si viziavano con pranzi luculliani. Il processo di abbrutimento della società si era irrimediabilmente compiuto, constatò Grace con inservibile amarezza; la barbarie aveva smesso di essere oscena, e dalla realtà oggettiva era penetrata nelle persone, orientandone le aspettative, plasmandone il carattere. La disuguaglianza? Solo un’ombra inevitabile. Ormai, il successo era riservato a donne dall’ego smisurato come Alida; la discrezione e la delicatezza – qualità che appartenevano a lei come al cameriere e che per certi versi li accomunavano nonostante l’abisso sociale che invece li separava – venivano considerate fuori moda, alla stregua di veri e propri impedimenti.
Quindi, la donna fece scivolare la mano tra i riccioli scuri del cameriere, e la lasciò sulla sua nuca irsuta per qualche secondo aspettando di vedere il segno di un cambiamento, illudendosi di poter sciogliere quella rigidità spaventosa che non aveva mai abbandonato l’italiano, mentre nella sua testa rimbombavano le parole di Alida, Ho dovuto scontare il prezzo della gloria, tu che alla fine sei una perdente… in quel momento lo baciò; e facendo roteare la lingua sulle sue labbra screpolate, le parve di poter dimenticare tutto – le cannonate dei lealisti, le frecce dei terroristi, l’impossibilità di redimere il mondo – e più lo baciava e più la sua coscienza si offuscava… era la prima volta che tradiva Horace e non provava alcun rimorso; al contrario, si sentiva finalmente posseduta dalla leggerezza temeraria di Alida, sperimentava per la prima volta l’ebbrezza dell’audacia; cominciò a spogliarsi e a spogliare lui senza staccarsi dalla sua bocca secca… finché, a un certo punto, non gustò un sapore ferroso. Saranno le ulcere dell’ipovitaminosi, si disse con le guance infuocate, mentre il corpo del cameriere iniziava a sobbalzare.
Tratto da Roman fever, scritto da Edith Wharton.