L’amore di un pesce – Cover, 2

Per quanto possa sembrare strano, l’unica trota superstite del lago di Vinadio s’innamorò perdutamente di Anita, detta Nini, che trascorreva l’intero mese di luglio nel campeggio adiacente insieme agli zii e a un trattenuto malcontento.
Dunque qui si parlerà di come a una trota possa battere il cuore. Vi stupisce? Non si era forse consumato in un gran vorticare di piume il rapporto tra Leda e un pennuto? E che dire di Elisa e della creatura anfibia nel film di un regista dal cognome animalesco? Questo per restare in ambito interspecifico, ma pensate al praticante forforoso che s’innamora della figlia dell’avvocato, alla quarantenne piacente che smagra per il giovane musicista, bruno e incompreso. Ancora meglio, pensa a quella volta in cui tu hai perso il senno e la dignità per un bacio.

Ogni mattina intorno alle undici Anita detta Nini andava al laghetto e si specchiava nelle acque, acque non proprio tiepide. La zia la seguiva annaspando. La trota si avvicinava alla riva e la contemplava. Per la vicinanza del laghetto a un nuovo complesso ricettivo, in determinate ore della giornata una porzione di lago restava in ombra e l’acqua, acqua non proprio tiepida, diventava impenetrabile allo sguardo come una vetrina a specchio. Proprio alle undici avveniva questo fenomeno. E Anita detta Nini si specchiava nelle acque non proprio tiepide prima che arrivasse la zia a coprire la sua immagine e la trota, ah la trota, ecco la trota, non vista, nemmeno immaginata, trota di lago, la sola superstite, argentea non brillante, meno pregiata rispetto alle sorelle di torrente, ecco lei, proprio lei, ammirava Anita detta Nini per un istante fugace, allungava il collo, stirava le branchie e nei suoi occhi tondi la bellezza si acciambellava come un gatto.
La trota vedeva anche i ragazzi. E i ragazzi guardavano la sua amata. Una volta, due di loro, si diedero di gomito e Anita li squadrò da sopra una spalla. Certo, alla trota non piaceva che i ragazzi la guardassero così, ma cosa poteva farci? Era normale, Anita così bella, con la pelle bianca e il viso rosso, i capelli lunghi e neri che si allargavano in acqua, come alghe, più profumati delle alghe, come quella primula, però più scuri, che una volta qualcuno gettò nel lago e la trota provò a mangiare, forse sapeva di gambero, c’era una vecchia trota che un giorno le raccontò dei gamberi di fiume e di cosa sapevano. E la trota vedeva anche la zia. Sentiva l’odore di sigaretta della zia, che si sedeva su un masso a riva, stendeva un telo color tubo e produceva suoni, a volte acuti, a volte sibilanti, spesso paurosi, simile alla ruspa che ogni tanto ripuliva il fondale: «Ossignur, da chi avrò preso questa sagoma di elefante? Mia madre era magra, tua zia Clelia, spiace che non l’hai conosciuta Nini, era una gran donna, mio padre secco come un chiodo. Mia nonna alla mia età già tutta bianca e senza denti. Che tempi, altri tempi. Comunque son gonfia, alla fine è gonfiore, ho letto che può essere sensibilità al glutine, come se io mangiassi la pasta, io la pasta la mangerò toh la domenica, ne’ Nini? Un piattino, puoi capire. Pane fosse per me nemanco lo comprerei. Saran i dispiaceri. Eh tuo zio mica li vede i dispiaceri, ma cosa vuoi, noi donne siamo fragili e forti. Io sempre a far piaceri agli altri e loro, gli altri? Cosa fan mai per me gli altri? Anche con te, per carità mi fa piacere portarti a Vinadio tutti gli anni, mi aiuti a tenere in ordine il camper, ti ho insegnato bene, ma tua madre, ah lasciamo stare sai? Per Natale mi ha regalato un portafoto, lì un coso equo, fatto dai negretti in Africa. Per carità, io a te a Vinadio ti porto per piacere personale, ma son spese comunque. Poi in foto io vengo male, come mia mamma, tua zia Clelia, non c’è una foto in cui sta bene, manco quella che alla fine le abbiamo messo sulla tomba, perché una foto ce la devi mettere, e tua madre lo sa che non vengo bene in foto, osselosà!»
La trota sentiva i ragazzi bisbigliare e ridere, sapeva che Anita si stava togliendo i vestiti, vide la sua ombra allungarsi sull’acqua, presto avrebbe fatto il bagno. Uno dei ragazzi, una canna ingobbita dal peso della sua estremità superiore si avvicinò con una sigaretta in mano e ridendo chiese per piacere un accendino alla zia. La zia frugò a lungo nel borsone di paglia e Anita smise di spogliarsi. Sapeva di avere un grosso foruncolo tra le scapole e non voleva che il ragazzo lo vedesse. Ostentò grande interesse per il lago che alla fine la interessò davvero, «Toh un pesce grigio, mai visto qua un pesce grigio», pensò. Quando il ragazzo raggiunse i suoi amici, la zia le spiegò che in ogni caso lei alla sua età era ancora una bella donna, che se si metteva un po’ bene i maschi si giravano a guardarla, anche quelli più giovani e che quando aveva la sua età, tredici anni, aveva sì quel gran bel seno che ancora ha, ma era magra magra, un vitino, più magra di lei e una pelle, ma una pelle, le sue amiche tutte colle pustole, ma lei no, una pelle ma una pelle, anche quando mangiava il salame e infatti quella volta che…

Anita si gettò nelle acque non proprio tiepide del lago, acque che in certe ore del giorno diventavano scure per via del nuovo complesso ricettivo che faceva ombra al sole. Entrò nell’acqua come sempre, senza immergersi centimetro per centimetro, senza gettarsi manate di acqua sulle braccia per abituare il corpo, senza emettere gridolini o accompagnare i brividi con emissioni vocali ricche di «erre», solo un grido, per trattenere meglio il respiro. Il freddo le faceva battere il cuore, questo ad Anita piaceva moltissimo; era una bella giornata e nuotava con ampie bracciate in stile rana. La trota le trotterellava di fianco, pronta a confondersi con le piante acquatiche dai lunghi e morbidi steli e la baciava, le baciava gli alluci, i malleoli, i gomiti, una volta perfino l’ombelico e un’ascella. Fatto il bagno, Anita usciva dall’acqua e immediatamente si trovava avvolta in un telo grigiastro con la scritta «La mia estate sei tu! – Nivea», vinto dalla zia a un concorso. Anita si accovacciava e sollevava il mento verso il sole. Di tanto in tanto il venticello che portava il fresco dalle cime fino alla conca del lago si interrompeva e la zia spiegava che è proprio così che ci si scotta, il sole è caldo, non te ne accorgi, vengono le rughe e i tumori, allungava il flacone di crema in direzione di Anita senza togliere gli occhi dal suo Donna moderna e le intimava di pensare al nonno, a proposito di melanomi.
Preso il flacone, Anita conficcò gli occhi abbagliati nella conca tra due tozze montagne e si pettinò la frangia. La trota adolescente infilò il muso tra la melma e scuotendolo si compativa. «Condizione misera la mia! Una trota! Un pesce di fango! Lei non potrà mai amarmi, così bella, così liscia, ragazza di sole e di colori. Io, io, cosa sono? Una trota senza speranze, senza illusioni, grigia, grigia! Mille volte meglio la morte. Morire! Sì, morire, ma come? Di chi esser preda quando l’ultimo luccio io neanche l’ho visto, mi hanno raccontato che è morto di noia. Il pesce gatto? Ah quello l’hanno tolto dal lago perché era brutto e spaventava i bambini. Era brutto! Saranno belli loro, quelli del bar-ristorante! Saranno belli quei corpi molli come alghe dei campeggiatori o quelle lame di eliche che sono i bambini. Io sopporto, se questo è il prezzo per vedere lei. Brutto, dicevano. Ma sapessero questa mia vita quanto fa più orrore. Come morire? Neanche morire si può. E per non poter morire io devo vivere. Vivere! Senza sogni, senza speranze. Che condanna, maledetti tutti.»
E meditando sulla morte in vita, sulla vita che si vive come morti e sulla sua immensa sfortuna, la trota adolescente piangeva sul suo cuscino di muschio e componeva versi al ritmo dei suoi singhiozzi, versi confusi, molto tristi:

Meschina, muschiosa.
Io.
Io,
che ebbi colpa d’amare.
E di nascere trota,
trota di lago.
Fossi stata salmone,
salmone di mare!
Almeno!
Io.
Io,
trota rotta dentro.
Nel fondale della noia, il tormento.
E le tinche,
nessuno come me.
Solo tinche.
Le tinche pensano solo al plancton.
Tu, creatura dalla pelle asciutta,
costume rosa
capelli come rametti e muschio,
branchiata nella pancia,
piccola pigna caduta.
Ti amo, sempre ti amerò.
Voglio morire.
Ti giuro che morirò.
Fosse l’ultima cosa che faccio.
L’ultima!

Previa autorizzazione, ai campeggiatori era consentito pescare in giorni e orari prestabiliti e in aree delimitate. Rimaneva vietatissimo sempre gettare pietre nell’acqua. Meno male che la nostra trota non sapeva leggere, altrimenti avrebbe saputo di un’altra possibilità di morte a lei preclusa e ne avrebbe sofferto. Vigilava sul rispetto delle norme un ragazzo magro, alto e verdognolo che la trota talvolta, per il gioco delle ombre, confondeva con un giunco solitario. Era il membro più giovane della famiglia che aveva costruito e gestiva il bar-ristorante. Munito di fischietto, redarguiva con suoni e gesti chi infrangeva il regolamento e vegliava sulla generale sicurezza dei bagnanti, benché nessuno lo credesse davvero fornito di brevetto. Ma non si poteva mai dire. Una volta gli scappò di sorridere ad Anita. Lei arrossì pensando di aver commesso un’infrazione, lui quando fu solo e a letto mescolò il ricordo delle sue guance riscaldate a immagini in movimento, di pura fantasia. La conoscenza di questi fatti restò del tutto ignota sia alla trota sia ad Anita.
Un fatto che invece la trota conosceva bene era che lo zio di Anita, abitualmente allungato sotto l’ombra del camper, quando giungeva dagli altoparlanti l’annuncio del via libera alla pesca, si alzava, passava nel capanno del noleggio lenze ed esche e si faceva accompagnare dalla nipote munita di cesta. «Morirò per mano sua!», pensò la trota e batté le pinne, prima tra loro, poi sui fianchi e sul dorso, si piegò, si allungò, girò su sé stessa, vorticò, prese lo slancio, ma non saltò. Rimase a bocca aperta a guardare le nuvole, le palpebre coperte per metà dall’acqua dove galleggiava in forma d’occhi l’unto di innumerevoli creme solari. «Morirò per mano sua! Addio cielo, misterioso fondo blu, addio pini e odori verdi, addio». Quando il pizzicore dell’aria alle narici divenne insopportabile, la trota sollevò le pinne e si immerse. Puntò il viso verso il fondo del bacino e nuotò fino alla melma: «Addio, volta marrone, addio bicchieri di plastica, fili d’erba, rami. Addio, zampe di zanzare morte, ali di api sfrangiate, addio Dio! Morire per mano sua! Non potevo pensarla meglio. Sarà una morte dolcissima, più bella dell’amore».

Vennero il giorno e l’ora, la trota un poco pallida si diresse verso la conca, dove alcune tinche già si trovavano, per via che d’estate l’acqua fresca la trovi solo in profondità. Questo fatto era noto anche ai pescatori. La trota si avvicinò alla camola che pendeva dall’amo di Anita e la baciò prima di infilarla in bocca. Avrebbe preferito un nudo amo, ma non se ne lamentò.
«Nini, da te abbocca!», strillò lo zio. «Da te abbocca, che fortuna», ripeté in concomitanza a una gomitata.
Anita si alzò di scatto ribaltando il cadreghino Decathlon. Provò a tirare e si impaurì per la debole resistenza che le oppose l’altra estremità. E se fosse stato un vermone? Un serpentaccio? «Oh, Nini, dai che sarà una tinca piccola, tira con uno strappo!». Anita tirò e le sembrò di vedere un balenio argenteo che immediatamente precipitò in acqua, sollevando qualche schizzo, disegnando giusto un paio di cerchi.
«Cribbio, s’è staccato!», esclamò lo zio, «Era una trotella!». Dall’amo penzolavano la camola intatta, stecchita di paura, e un lembo rosaceo. Nini lo studiò: presentava tre pois rossi e un triangolo bianchiccio: tre gocce di sangue e un dentino. La trota aveva immolato un labbro.
Cosa accadde poi? La trota restò stordita sul fondale per il tempo necessario a una mosca di fregarsi le zampe sul suo pezzo di bocca abbandonato a riva. Quando si riprese, quando comprese, com’è ovvio impazzì.

Anita si fece grande, alle vacanze con gli zii sostituì camerierati in rifugi d’alta quota e in seguito servizi au pair in Europa. Gli zii a un certo punto vendettero il camper a una coppia ottuagenaria di liguri. E la trota? Cosa? Vi sembra sciocco occuparsi di una trota con tutto quel che accade nel mondo? Può darsi, perciò ve ne parlo.
La trota acquisì la longevità di una monaca. Era pazza, scappava alla vista dei girini, un giorno scambiò un sasso nero per un bikini rosa. Allineava rametti e muschi, ecco tutto. Talvolta, il suo cervellino menomato le inviava un profumo, il brivido di una carezza data e mai ricevuta, e soffriva. Allora il cervellino impietosito si oscurava di nuovo, lasciandole a malapena le facoltà necessarie a nutrirsi e ad allineare, alternati, rametti e strisce di muschio.
Il ragazzo con funzioni di bagnino in un lunedì pomeriggio di fine agosto si annoiò terribilmente. Tanto valeva tuffarsi in acqua. Lo fece, nuotò, continuò ad annoiarsi, galleggiò, si finse morto. Meditò su un racconto che aveva scritto e nessuna rivista gli aveva pubblicato. Pensò di allungarlo per farne un romanzo. La trota gli girò attorno e siccome era pazza, lo scambiò per Anita e anziché un bacio, gli diede un morso. Il ragazzo neppure se ne accorse, anestetizzato dall’acqua fredda nel corpo e dall’arte nella testa, ma ugualmente uscì. Nessuno seppe mai che fu questa la causa di ciò che avvenne dopo. Si parlò di depressione, di sensibilità, più in generale di gioventù. Il ragazzo andò a vivere nella grande città, si portò dietro il contagio. Cominciò a scrivere romanzi autobiografici, tutti tristissimi, tutti lamentosissimi, tutti contro la mamma, il papà, le montagne di merda, le donne che non lo amavano, gli amici non all’altezza. E chi li leggeva ne restava contagiato e a sua volta tirava fuori i traumi, le malattie, i viaggi a piedi o in bicicletta e li divulgava al mondo. Qualcuno che stava bene arrivò a sperare in un disturbo raro, qualche parente si lamentò per essere finito nei libri con nome e cognome e volle scrivere la propria versione. Molti si ricordarono di quella volta che erano stati bambini. Terapeuti bravissimi persero il lavoro.
La trota?
Vive ancora.

(Tratto da L'amore di un pesce, scritto da Anton Čechov, Amore da pesci e altri racconti)