Una settimana fa Anna e sua mamma hanno venduto la loro casa in Romagna. Sono partite da Firenze alle sei di mattina, Anna sperava che sua madre avesse sonno e che in auto si assopisse, invece era sveglia e ha chiacchierato per buona parte del tempo. Le facevano paura tutti quei camion sulla corsia dell’autostrada, ma ad Anna non l’ha detto. Arrivate a Forlì, Daniele, l’agente immobiliare, è arrivato a prenderle in un piccolo parcheggio sul ciglio della strada, e con la sua auto le ha accompagnate in centro, dal notaio. Era giorno di mercato, e Daniele ha dovuto parcheggiare distante da piazza Saffi, chiusa al traffico. Così Anna e sua mamma l’hanno percorsa insieme, lentamente, cercando invano di ripararsi dalla pioggia che stava diventando insistente. Avevano dimenticato l’ombrello in auto, prese dalla fretta di salire su quella di Daniele, di non inciampare (la madre), di non smarrire la borsa con le ultime bollette da consegnare al nuovo proprietario (Anna). Mentre aspettavano che Daniele le raggiungesse Anna ha cercato di avvantaggiarsi e di trovare lo studio del notaio da sola. Faceva piuttosto freddo e la madre le sembrava lenta e persa in quella piazza bellissima, che però conoscevano poco, con i banchi del mercato che iniziavano a esporre la merce: nessuno di loro, naturalmente, vendeva ombrelli. Anna ha impostato il navigatore nel cellulare con l’indirizzo del notaio,opzione vai a piedi, ha tolto la suoneria altrimenti, ha pensato, sai che figura che uno mentre cammina ascolta un altro che gli dice ora gira a destra poi continua per 50 metri.
Anna non riusciva, però, a trovare la direzione. Ha visto una signora bionda sulla soglia di un negozio ancora chiuso, fumava una sigaretta, gli occhi grandi. Ha chiesto a lei se conosceva lo studio del notaio, la signora lì per lì ha risposto di no, poi quando Anna le ha specificato l’indirizzo si è ricordata, le ha domandato ma è una donna? Si. Allora ho capito, ci sono andata anche io, è lì, sotto ai portici, dietro al negozio Tre ossi, mi scusi, rido, perché ci sono andata anche io, ma tanti anni fa. Anna ha pensato che la signora non lo sapeva, ma forse stava dicendo dai, ci siete quasi. La madre dopo qualche passo le ha detto vedi, in Romagna sono così, sono più amichevoli.
È vero, ha pensato Anna, ed è la cosa che mi mancherà di più di casa nostra.
La casa in Romagna sta in un paese che si chiama Santa Sofia, ed è un appartamento al primo piano di una palazzina piccola, sei abitazioni in tutto, con un cortile di ghiaia davanti e dietro, e una palazzina gemella accanto. Le palazzine stanno su una curva della strada che da Forlì arriva in paese, proprio sopra alla chiesa. Una curva gigante che costringe le auto a rallentare, così si può vedere meglio chi ci sia dentro. Anna da piccola guardava a lungo la curva e le auto, a volte sola oppure insieme alla sua amica, sempre in attesa che qualcuno si fermasse, anche all’improvviso, e si infilasse nel loro cortile. Qualcuno di nuovo e inatteso, che senza un motivo preciso venisse a salutare. A Santa Sofia, nella casa, Anna andava in estate. I suoi genitori lavoravano e all’inizio di agosto la lasciavano lì, con la sua nonna materna, e lì rimaneva tutto il mese. Avrebbe voluto che ci fossero rimasti anche i suoi genitori e soprattutto quando era più piccola, a cinque, sei anni, Anna piangeva a lungo prima che ripartissero. Un giorno mentre era in lacrime suo padre le si sedette vicino, sul letto matrimoniale, e le disse Siamo uomini o caporali? Smettila, adesso. Lo disse dolcemente, lui che particolarmente dolce non era quasi mai. Anna non sapeva né cosa volesse dire quella frase, né dove lui l’avesse presa ma smise di piangere e da allora lo fece sempre meno. Aspettava trepidante i fine settimana in cui i genitori tornavano, per poi stare con loro cinque minuti e poi scappare di nuovo nel cortile con le amiche. Le nipoti delle altre inquiline delle palazzine erano le sue amiche. Una in particolare, che si chiamava Elena, era l’amica che Anna adorava, che osservava, cercando di capirla, di compiacerla, di imitarla. Elena era bellissima, la pelle olivastra, i capelli lunghi, lisci, neri. Elena salutava tutti, era gentile con tutti, cantava con voce leggerissima e profonda le canzoni tristi che a volte, non si sa bene perché, i bambini conoscono. Anna e Elena si inventavano storie, le mettevano in scena, manovrando le barbie ma anche interpretando loro stesse i personaggi. Si raccontavano le cose degli inverni, della scuola, dei genitori. A volte si annoiavano. Mettevano sul muretto che circondava le palazzine le mele che avevano trovato nel cortile della chiesa, cadute a terra, piccole, ammaccate. Le mettevano in fila, una accanto all’altra, solo per vedere che effetto facevano tutte insieme alla fine, e farlo le divertiva. Forse a loro sembrava una specie di scenografia per abbellire con il giallo quelle palazzine anonime dove vivevano le rispettive nonne. La nonna di Elena si chiamava Maria ed era mite, dolce, curva. Quella di Anna si chiamava Evelina detta Lina, era burbera, capellona, culona, con le gambe arcuate, deformate dall’artrosi. Ci passa un cane con la scopa in bocca, diceva delle sue gambe. Parlava a voce alta la Lina, chiamava Anna “core de’ nonna”, con voce rauca. Era nata a Terracina, ma aveva abitato a Roma da ragazza, dove la sua famiglia aveva aperto una specie di locanda sghemba investendoci soldi che in realtà non c’erano. A Roma aveva incontrato Ludovico detto Il Moro, che di mestiere faceva l’imbianchino ed era un anarchico convinto. Pur essendo originario di Santa Sofia Ludovico stava sempre in giro qua e là per trovare lavoro: lui e la Lina si erano innamorati, sposati, e si erano trasferiti nel paesino di lui subito prima che scoppiasse la guerra. La Lina, Anna lo sapeva dai racconti di sua madre, era sempre stata decisa a non confondersi troppo con la gente del paese: voleva essere chiamata la Romana, aveva mantenuto fortissimo l’accento della capitale, e negli anni della miseria si inventava di tutto per tirare a campare. Pare che a un certo punto avesse allestito di punto in bianco un parcheggio a pagamento per le biciclette nel cortile delle palazzine, senza chiedere il permesso a nessuno, si faceva dare un tanto e badava che nessuno le rubasse, spiando dalla finestra. Affittava una stanza della casa, che pure era piccola, e la mamma di Anna doveva dormire in una brandina, finché una sera rientrò a casa e si mise a dormire nel letto, al posto della Lina, per protesta. E la Lina si prese quello che le era toccato, cioè la brandina. Negli anni che Anna aveva trascorso a Santa Sofia, aveva visto la Lina invecchiare, ma la ricordava bene quando era ancora in forze, e nonostante le gambe arcuate la portava a cavalluccio sulla schiena, camminando intorno al tavolo della cucina. Un tavolo economico degli anni cinquanta, leggero e di finto legno, che era rimasto sempre lo stesso negli anni e che Anna e sua madre avevano lasciato al nuovo acquirente. C’era un buco, una specie di tunnel, all’interno del tavolo, che in realtà conteneva un mattarello, e che da piccola ad Anna pareva una grande invenzione, una specie di sorpresa nello scrigno. Sarà che a Santa Sofia le donne il mattarello lo usano in continuazione per stendere la pasta, che fanno spesso in casa, è un oggetto comune che fa parte di ogni abitazione, come se ci fosse incastonato dentro, come le finestre o il pavimento. La Lina non aveva mai voluto saperne delle ricette tipiche romagnole. Guardava la tivù in camera sperando che da un momento all’altro dessero un film con Lando Fiorini o con Anna Magnani, i suoi idoli. Bellissima, il film dove la Magnani si impunta per far diventare la sua bambina una grande attrice, era il suo preferito. Diceva ad Anna hai visto quant’era brutta quella regazzina, nun ce se po’ crede. Rideva, si commuoveva, le importava solo di vedere la faccia della Magnani, la trovava stupenda, era convinta di assomigliarle. Quando Anna pensa alla casa, ora che ha dovuto salutarla, pensa a questa sua nonna bizzarra, che diceva di essere piaciuta in gioventù a moltissimi uomini, che fino all’ultimo aveva voluto tenere i capelli lunghi, raccolti ma lunghi, e ne aveva pochissimi bianchi, per vanità. La Lina che sapeva come affrontare situazioni di imbarazzo, come quando suo figlio paventò di arrivare da un momento all’altro dalla Francia, dove viveva, a Santa Sofia con una nuova donna che non si capiva bene se fosse l’amante, la fidanzata, la concubina. La Lina disse a me nun me ne importa, io me presento co’ du stampelle invece che una, e tanti saluti. Acqua sì, ma mica tempesta, aggiunse. Lo diceva sempre, per chiudere i discorsi, o per farsi riempire di più il piatto se a tavola le era toccata una porzione troppo scarsa.
Da ragazzina, a Santa Sofia, Anna si era invaghita più e più volte, durante l’estate. Un anno nel cortile dietro la chiesa, che era separato da quello delle palazzine solo da una rete di plastica, venne organizzato una specie di torneo di calcetto, i ragazzi si avvicendavano, Anna e le sue amiche a turno assistevano concentratissime alle partite e si innamoravano di questo e di quello. Qualcuno dei ragazzi chiese se le spettatrici potevano tenere il tempo della gara, e Anna, che con i numeri era sempre stata una frana, sbagliò per l’emozione e fece durare il primo tempo dieci minuti in più. Da quel giorno guardò le partite dalla finestra della cucina senza farsi vedere, ma le sembrava una cosa molto romantica lo stesso.
A Santa Sofia, nei pomeriggi di agosto c’era ben poco da fare. Il paese, che è attraversato da un fiume, il Bidente, dormiva per buona parte della giornata, e Anna e le altre ragazzine appena trascorsa l’ora più calda lo percorrevano a piedi, quasi facendo finta di chiacchierare per rendersi interessanti. Camminavano intorno ai “tre ponti” per cercare le solite presenze fantasma, quelle che dovevano sorprenderle e scuotere loro e tutti dal sonno e dalla noia, ma naturalmente non arrivava mai nessuno. Guardavano i gruppetti di ragazzi e adulti che sostavano nei tavolini dei bar intorno alla piazza, le uniche presenze da studiare, conoscevano qualcuno sì e qualcuno no, ma erano comunque tutti comodi per diventare personaggi delle loro storie, e capitava che dopocena, quando passavano ancora un paio di ore nel cortile prima di andare a letto, si inventassero su di loro ricordi e mondi che in realtà erano solo frutto della loro immaginazione.
I vecchi che passeggiavano, le signore che si davano il cambio in canonica per fare i cappelletti per il prete, i ragazzini che appena quattordicenni già giravano con il “motore”, l’ospizio poco sopra le palazzine che le nonne guardavano con sospetto perché avevano paura di finirci dentro, prima o poi. Erano questi i personaggi delle estati di Anna in quegli anni. Ma anche il grande spettacolo pirotecnico di ferragosto, come veniva annunciato dalle auto che giravano da fine pomeriggio nelle strade del paese, con l’asfalto che ribolliva e gli altoparlanti spiegati a promuovere la festa dell’Avis, o dell’Unità. Santa Sofia era la musica dal vivo che in queste feste c’era sempre, insieme ai tortelli alla lastra e alla pesca di beneficienza. La musica che loro, bambine, spiavano senza avere il coraggio di buttarsi a ballare in pista, perché tutte le coppie sapevano bene i passi della mazurka e loro invece non si azzardavano. Una sera organizzarono una di queste feste anche nel cortile della chiesa, e Anna, che aveva sedici anni, anche senza sapere i passi ballò con suo padre, che in queste occasioni si entusiasmava e metteva su una faccia allegra come raramente lei gli aveva mai visto fare. Al padre di Anna piaceva stare nella piazza di Santa Sofia, vicino al fiume, ad ascoltare i concerti della banda. Uno degli ultimi anni in cui trascorse del tempo in paese il padre stava già male e quasi non parlava più, ma dopo aver ascoltato la banda si alzò in piedi tra la folla e fece partire un applauso fragoroso. Sua moglie rimase seduta accanto a lui, e si vergognò un po’, vedendolo così felice, il più felice di tutti, che non si accorgeva se la gente lo guardava strano. Anzi, non gliene importava.
Santa Sofia è il paese dove Anna sa di avere allenato il cuore a sentire, semplicemente perché c’era tanto tempo per farlo. Tempo per inventarsi i giochi, le storie, le sedute spiritiche. Attraversarono, Anna e il gruppetto di nipoti delle palazzine, anche una fase horror, leggendo al mattino a voce alta i racconti di Poe e guardando la sera a casa di Elena il ciclo di film horror che trasmetteva rete 4, tra i quali Cujo, Il cane infernale. Tempo per immaginarsi le storie d’amore, ma anche per parlare sottovoce di sesso, di violenza, dei segreti malvagi che Anna e le altre immaginavano covassero nelle case, tra le pettinature grigie delle nonne. Anna pensa che ancora non le sembra possibile che quella casa non sia più la loro. Spera che il nuovo proprietario usi il loro mattarello, se il tavolo lo butta pazienza, non era un granché.