Zanzibar era uscito da una crisi depressiva, una di quelle spirali tormentose che ti avvolgono sempre più da vicino, sino a strangolarti; lui era arrivato quasi allo strangolamento, e se ne era salvato grazie ad un improvviso lume di coscienza che lo aveva trascinato dallo psicologo, e poi da lì dritto dritto in ospedale, reparto psichiatrico, struttura ritentiva per non dire detentiva, come diceva Zanzibar a chi glielo chiedesse.
Ora era fuori. Era uscito con una piccola farmacia di medicamenti da ingollarsi per restare più tranquillo ed evitare un nuovo rischio di stranguglione psichico; ma tutte quelle pillole gli davano una grande tristezza, e quasi un’impossibilità al moto, se è vero che gli unici passi li faceva da casa sua al parco, e dal parco a casa sua nel ritorno.
Insomma la vita di Zanzibar era ben poco in linea con il suo nome esotico, e questo lui lo sapeva se è vero che ormai si presentava sempre come Paolo, aggiungendo poi a bassa voce “detto Zanzibar”. Il soprannome, come tutti i soprannomi che ci tormentano l’esistenza, gli veniva dalla sua adolescenza, quando era ossessionato dall’idea di andare a Zanzibar. La madre, il padre, gli amici lo lasciavano dire, ma a tutti riuscì impossibile non sostituire il vecchio nome di Paolo con quello ben più accattivante di Zanzibar.
In ossequio al soprannome Paolo si era messo in testa di lavorare in un’agenzia di viaggi, in cui avrebbe perlomeno incontrato qualcuno che volesse andare a Zanzibar con lui. Perché andare da solo in fondo non si fidava, e voleva qualcuno che dividesse con lui l’emozione di essere finalmente a Zanzibar. Ma quella si rivelò una scelta sbagliata, perché proprio nell’agenzia di viaggi gli scoppiò la crisi depressiva. Infatti a tutti i clienti proponeva di andare a Zanzibar. E benché loro preferissero altre mete, per esempio l’Egitto, o magari l’America, per Zanzibar esisteva solo Zanzibar e affermava quella sua fede in modo così insistente che l’agenzia di viaggio perse molti clienti per causa sua. Il peggio poi venne quando incontrò qualcuno che veramente voleva andare a Zanzibar, un trentenne in cerca di mare e belle avventure. Zanzibar gli propose, o meglio gli impose, di venire con lui. L’agenzia di viaggi, già in semifallimento, lo licenziò in tronco, e Zanzibar scoprì amaramente che nessuno intendeva andare con lui a Zanzibar, anche l’unica persona diretta veramente laggiù lo schifava e preferiva viaggiare da solo.
La crisi depressiva iniziò allora e Zanzibar ne uscì a fatica, solo imbottendosi di potenti pastiglie che lo ammutolivano. La madre lo guardava scuotendo il capo, a settant’anni non poteva stare ancora tranquilla per quel figlio sconclusionato e vederlo in quello stato di catalessi le mangiava il cuore. Alla fine gli propose di andare a Zanzibar: lei gli avrebbe pagato il viaggio, ma lui avrebbe dovuto trovare qualcuno che lo accompagnasse. La notizia rimise in moto tutte le libido vitali del figlio, che abbracciò la mamma ripetute volte e da subito si mise alla ricerca di un compagno di viaggio. Zanzibar percorse in lungo e in largo la città, fermava la gente per strada, entrava nei bar gridando ad alta voce “Chi vuole venire a Zanzibar con me?”. Arrivò addirittura a fare annunci per le strade, affittando una macchina con altoparlante e battendo le strade fino a notte fonda, finché i poliziotti lo bloccarono all’alba per sentirsi chiedere a loro volta: “Verreste a Zanzibar con me?”; ma anche quelli rifiutarono.
Dopo tutti quei fallimenti, la crisi depressiva stava ritornando. Zanzibar aveva perso l’entusiasmo, era diventato ancor più apatico di prima a furia di ingollarsi le pasticche come caramelle alla menta. La madre non poteva sopportare di vederlo così e decise un’ultima disperata mossa: chiamò un suo vecchio amico d’infanzia, Terenzio, e gli chiese in lacrime di andare a Zanzibar con il figlio; lei gli avrebbe pagato il viaggio. Terenzio all’inizio rifiutò, disse aveva tanto da lavorare e poi siamo matti, pensò, in vacanza a Zanzibar con uno come Zanzibar era il modo migliore per invecchiare precocemente. La madre lo pregò a lungo, e infine Terenzio accettò, a patto non soltanto di avere il viaggio pagato, ma anche di avere una diaria consistente come compenso per fare compagnia a Zanzibar.
La madre diede fondo a tutti i suoi risparmi e pagò Terenzio anticipatamente, come lui aveva richiesto. Poi lo fece venire a casa e lo lasciò solo con Zanzibar; quando il figlio catalettico sussurrò, ormai senza convinzione: “Vuoi venire a Zanzibar con me?” Terenzio disse con un sospiro: “Va bene”. Zanzibar, dalla gioia, quasi non ebbe un attacco di panico. Abbracciò Terenzio, abbracciò la madre che piangeva, senza sospettare nulla e senza notare gli strani gesti di intesa fra i due.
Finalmente a Zanzibar! Zanzibar non stava più nella pelle e telefonava a Terenzio almeno quindici volte al giorno, a volte soltanto per dirgli: “Andiamo a Zanzibar”!!”. Terenzio non ce la faceva più, e rimpiangeva di avere detto sì alla madre; la madre di notte dormiva dalla contentezza e sognava il figlio che prendeva il sole a Zanzibar, finalmente guarito, senza pillole di cui strangugliarsi.
Infine giunse il giorno della partenza: Zanzibar aveva otto valige, di cui soltanto una piena di guide turistiche, alcune vecchie di qualche anno; Terenzio giunse all’aeroporto molto più leggero e con una faccia smunta che non diceva nulla di buono.
Zanzibar montò sull’aereo a passo di carica, mentre la madre lo osservava smaniare dalla terrazza dell’aeroporto e le lacrime le bagnavano tutto il vestito di flanella.
Per tutta la durata del volo Zanzibar non rimase tranquillo un momento, costringendo Terenzio a nascondersi dietro le tendine dell’oblò, fingendosi un viaggiatore portoghese. Gli altri passeggeri lo avrebbero volentieri proiettato fuori dall’aereo, e continuavano a chiedere alle hostess di farlo stare zitto una buona volta, quella era una vacanza e non una comitiva di beneficenza.
L’aereo finalmente atterrò. Zanzibar corse avanti a tutti urlando, tanto che i poliziotti del luogo furono obbligati a bloccarlo e trattenerlo per qualche accertamento.
Quando Zanzibar uscì dal gabbiotto della polizia, era già tardi e le luci illuminavano l’aeroporto vuoto; al centro stavano le sue otto valige, una in fila all’altra, quella di guide turistiche in cima a tutte. Qualche inserviente spazzava il pavimento, Zanzibar chiese un aiuto per portare le valigie , forse Terenzio era là fuori ad aspettarlo, forse aveva già prenotato un taxi per portare tutta quella roba. Ma nessuno lo comprese, erano tutti indaffarati e lavoravano come matti.
Allora le portò fuori una ad una, lasciando per ultima quella delle guide turistiche, ma ogni volta che tornava fuori dall’aeroporto con una nuova valigia non trovava più quella che aveva appena portata. Attorno a lui la gente rideva, lo indicava e gli gridava “Zanzibar, Zanzibar”, accompagnato da qualche altra parola incomprensibile.
Gli restava soltanto l’ultima valigia, quella delle guide turistiche.
Zanzibar guardò fuori, si era fatto buio, la gente rideva e suonava i clacson.
Gli inservienti stavano lucidando l’aeroporto, ormai lavoravano da ore e ancora non era pulito.
Zanzibar aprì la valigia delle guide turistiche e ne prese una delle tante. Si sedette su una panca e si mise a leggere.