Dove vive Agata tutto è in squadra. Le strade sono a perpendicolo, i bimbi parlano l’italiano, anche quelli nati altrove, gli adulti un po’ meno, anche quelli nati lì. Edifici e imprese fioriscono, con gestazione di durata variabile in uteri di impalcature metalliche, negli anni recenti armate di antifurto. Le donne si affannano tra impegni propri ed esigenze altrui, gli uomini classificano in modo diverso il proprio e l’altrui — smaltire i fondi di caffè o curarsi dei figli, ad esempio — ma sono comunque molto impegnati. Si sta al mondo, come in tanti posti, ma a chi vive lì sembra che il posto giusto sia quello, esattamente come accade in tanti altri posti e a tante altre persone. Poi ci sono quelli che se ne vanno, portandosi dietro ovunque la squadratura.
Agata non saprebbe dove andare ma non vuole nemmeno rimanere lì: vuole morire, da almeno quattro anni. Di anni ne ha cinquantotto e ha provato a farsi fuori almeno sedici volte, forse diciassette. Non ricorda bene e non tiene nemmeno un diario, perché, tanto, ogni volta sarà l’ultima. Con una media di quattro tentativi falliti l’anno, non se ne rende conto, ma potrebbe trovare spazio in “Curiosità dal mondo”. Non si rende conto di quasi niente, Agata; è fissata con questa faccenda di voler morire, pur se a certe condizioni.
La prima: in modo rapido, possibilmente istantaneo. Non vorrebbe sentire dolore: teme che la trattenga dal suo intento. Ha paura che un taglio le faccia venire voglia di tamponare la ferita, di chiedere aiuto, di vivere. Se il male chiama, lei risponde: un ostacolo ai suoi propositi.
La seconda: nessuno deve rimanere impressionato dal suo cadavere. Fatta salva la libertà di morire, ci vuole un po’ di creanza nei confronti di chi potrebbe rimanere segnato a vita dalla scoperta di un corpo scomposto. Pochi ci pensano, ne è certa, e mandano messaggi prima di andarsene. Ti voglio bene, scrivono, la sera tardi al cellulare degli amici, magari proprio a quelli che il giorno dopo li troveranno appesi e combatteranno anni con un’immagine che li tormenterà, invadente e irremovibile. «Nonno, cosa guardi?» «Niente, tesoro. Niente.»
Vorrebbe semplicemente smettere di fare tutto quello che c’è da fare: svegliarsi, lavarsi, vestirsi, spesa, cucina, nutrirsi, riposare, pulizie, di nuovo in cucina, dormire, ancora. Dove abita si può vivere anche così o ci potrebbe essere dell’altro, ma non fa per lei. La tormenta il pensiero di ripetere ancora a lungo la sequenza monotona degli ultimi cinque anni. Le sue azioni di oggi avrebbero conseguenze per gli altri solo se morisse; bisogna tenerne conto e ridurle al minimo, si ripete, non è egoista. Se ci fosse una porticina da qualche parte sul retro, che conduce al nulla, Agata la aprirebbe, piano. Ma non c’è e tocca trovare delle alternative.
Da sola finora non c’è riuscita: un’infilata di incidenti hanno mandato in fumo tutti i suoi tentativi. Uno per tutti: per non disturbare il medico con richieste immotivate di tranquillanti, ha trafugato dall’ospedale un flacone di ipnotici. Per una che quando non si pettina sembra una badante assonnata, non è stato difficile intrufolarsi nel magazzino medicinali. Purtroppo le pillole si sono rivelate il placebo di uno studio epidemiologico caso-controllo; prese in gran numero avrebbero potuto al massimo farle cariare i denti. Si è resa conto allora che attendere, illusi, la morte, è peggio che vivere.
Per questo motivo ora si trova nell’ufficio di Ernesto. Da quasi un’ora sta scegliendo accessori da funerale: cassa, imbottitura, cuscino, croce sul coperchio, rosario tra le dita, epigrafe, fiori, biglietti ricordo, preghiera, lapide, epitaffio, lumino e ancora non è finita. Nella stanza accanto intravvede una ragazza che ascolta musica in cuffia e imbusta ricordini in quantità e velocità allarmanti. «Quante persone si aspetta di avere al suo funerale quel tizio?» si chiede stupita. Non immaginava ci fossero tanti oggetti da scegliere; meno male che Ernesto la guida a destreggiarsi tra i numerosi cataloghi di madonnine tristi. Le sembra che quelle madonnine la capiscano. Alcune hanno la sua stessa espressione la mattina quando si guarda allo specchio. «Allora c’è qualcuno che è stato come me» pensa, «Altrimenti come avrebbero potuto dei pittori da strapazzo illustrare in quel modo gli accessori da morto; li avranno pur visti da qualche parte quegli sguardi.» Oggi non se ne vedono più.
Ernesto, un tipo pratico dall’aria paffuta, da oltre quarant’anni gestisce con disinvoltura un’impresa funebre: tra i suoi vanti le sepolture di una mecenate e un creso americani morti a Venezia. La lettera di ringraziamento di una delle due famiglie, il minimo dopo quello che ha passato a causa delle paturnie da ricchi statunitensi su segreto e sicurezza, è appesa nel corridoio d’ingresso sopra un vaso di fiori finti, straordinariamente vividi di lunedì mattina dopo essere stati spolverati. La si nota sempre meno, perché è in inglese e ormai ingiallita, più che un encomio sembra un permesso che qualcuno si è dimenticato di rinnovare: “Borgo Ricco, 25 ottobre 1975. Autorizzazione annuale all’utilizzo della pesa pubblica comunale sita in Via Roma incrocio Via Desman per il mezzo targato PD930754…”. Ernesto ogni tanto se la rilegge a voce alta; l’unica parola che pronuncia correttamente è Mister, ma dopo si sente in gamba.
«Come si chiamava la defunta?»
«Agata.»
«Un nome di famiglia, allora. Anch’io mi chiamo come nonno Ernesto. Lo chiamavano tutti Scarpía perché già da giovane aveva il viso grinzoso come una ragnatela e…»
«Elvira e Teresa.»
«Come dice?»
«Le mie nonne: Elvira e Teresa.»
«Sì, ehm, dov’eravamo? Cognome?»
«Agata sono io e non sono ancora morta. Potrei esserlo presto, con il suo aiuto.»
In anni di carriera ne aveva viste e sentite di storie, Ernesto. C’era chi si comprava tutto in anticipo e lo stivava in casa, per varie ragioni: non preoccuparsi più dell’inflazione, non rimanere per l’eternità in balia dei gusti kitsch dei parenti, evitare spese a chi restava, arredare una stanza con originali complementi in legno, torturare la moglie con un quotidiano memento mori infilato sotto il letto. Alcuni lasciavano in eredità elenchi di obblighi e divieti che facevano sudare ai superstiti sette camicie. «Impedite a Goffredo di avvicinarsi alla mia tomba.» Come si fa? Goffredo paga le esequie. «Non voglio essere sepolta vicino a un fascista.» Per esserne certi ci si sarebbe dovuti circondare di morti prima del 1914; quasi impossibile visto che entro gli anni ’60 erano stati praticamente tutti estumulati e trasferiti in ossarini. Senza contare i precursori: tra le salme ante guerra si sarebbe potuto nascondere un fascista ante litteram, pronto a indossare il fez appena se ne fosse presentata l’occasione. La zona era propizia.
Aveva visto guardie armate di confine sbiancare di terrore alla vista del passaporto di un defunto; avevano più paura di quel documento che dell’AK-47 da assalto in braccio al collega-nemico cento metri più in là. Alla guida di un carro funebre aveva attraversato di notte, protetto dal lasciapassare più potente: un timbro con la data di morte, alcune delle cesure più blindate delle guerre jugoslave. Di solito non ci si pensa quando si viaggia, ma i documenti servono anche se lo si fa sdraiati in una bara. Le verifiche formali su esistenza e identità non finiscono mai, un po’ come sul web quando per iscriverci a una newsletter ci viene chiesto di biffare la casellina “Confirm Humanity”. Apparteniamo alla specie umana, non siamo robot. Siamo stati un umano vivente, lo attesta un timbro consolare. Saremo stati umani? Chi può dirlo…
Tante ne erano capitate a Ernesto. Nell’intorno della morte le persone agiscono in modi inaspettati e lui si era abituato ad accoglierli tutti, dosando parole ed espressioni in punta di piedi, anche quando gli sarebbe venuto più spontaneo strabuzzare gli occhi o sganasciarsi dalle risate. Un’arte affinata con il tempo e un pizzico di affettuosa ironia per le miserie umane, che erano anche le sue. Aveva avuto modo di scoprire, infatti, che con un morto in casa una famiglia di becchini può diventare il proprio peggior cliente, in barba agli anni trascorsi osservando l’umanità alle prese con l’angoscia di sparire.
Alcune avventure Ernesto le raccontava a casa, la sera a cena, per far ridere i bambini o per guardarli ascoltare zitti con i cucchiai di minestra fermi a mezza strada; altre no. Questa mai. Non gli era mai capitata, né gli era passato per la testa di inventarla, nemmeno quando romanzava un po’ i fatti del giorno perché gli pareva che bastasse un tanto così per trasformarli in storie interessanti. Nessuno gli aveva mai chiesto di fornire un servizio a tutto tondo, di solito i clienti arrivavano già bell’e pronti; tutt’al più si aspettava qualche ora il certificato del medico necroscopo. Si sa, i documenti si affannano sempre in ritardo dietro ai fatti che attestano.
Ernesto è disorientato, in questa situazione non si raccapezza, perché Agata non ha paura di sparire, anzi, ne cova un desiderio organizzato. Ora che sa, rivede con altri occhi l’espressione asciutta e decisa con cui ha individuato la Virgo Clemens che sarà il fil rouge di tutti i materiali a stampa. Le paratie del pianto, che tengono a stento mentre si descrive la morte del caro, spesso finiscono per crollare al bivio tra un sottile filetto nero ad angolo e un Cristo affranto, più d’impatto ma meno elegante. Non ci si capacita di dover fare certe scelte, ci si distrae, e giù a piangere. Le lacrime più amare sgorgano se a scegliere si è in due o tre: si piange e si litiga sul colore del pizzo per l’interno cassa, rinfacciandosi a vicenda di non aver mai conosciuto a fondo i gusti del caro estinto. Agata, al contrario, sciorina idee chiare e compie scelte soddisfatte.
Sul modo in cui potrebbe essere uccisa, invece, tentenna, proprio come fanno gli altri davanti al font per la lapide. Non c’è da stupirsi: è la scelta con le conseguenze più durature. Verdana o Calibri? Consideri il Didot, classico ma a suo modo originale. Martellata in testa o coltellata? Di arma da fuoco non se ne parla, il signor Ernesto non sembra un tipo da avere il porto d’armi. Nel laboratorio di falegnameria e marmo ci dovrebbe essere qualche attrezzo che fa al caso loro. Agata ne chiede comunque conferma; non si sa mai: ci fossero solo seghe, scalpelli e trapani la faccenda si farebbe più complicata.
Ernesto ascolta, risponde a monosillabi e interiezioni. Si sforza di pensare, ma è sbigottito. Indossa a fatica i visi più neutri che possiede e prova a controllare anche le mani, il suo tallone d’Achille, autonome ed espressive come sono. La destra è bloccata sotto la natica, ci si è seduto sopra, e l’altra stringe una candela votiva, così forte che l’unghia del pollice ha i colori della fiammella di plastica, violacea al centro in basso e via via più chiara verso l’alto. Agata gli spiega che si è spenta — lei non lo sa, ma è un eufemismo ricorrente nel linguaggio funebre professionale — e tuttavia continua a vivere. Si scusa e si giustifica, avrebbe volentieri evitato di dargli questo disturbo, ma proprio non ce la fa da sola, ha bisogno di aiuto. Confida nella sua comprensione, visto che è del mestiere. Ernesto in qualche modo la capisce, o almeno crede, l’empatia a volte è un’illusione, ma non se la sente proprio di accontentarla e al tempo stesso non sa come esprimerle il suo rifiuto. Vorrebbe essere altrove, ma, al punto in cui si trovano, non lascerebbe Agata da sola.
«Signora, non me lo chieda.»
«Sarebbe un’opera buona.»
«Le tengo da parte ciò che ha scelto per quando sarà il momento.»
«No, grazie. Meglio il coltello? O forse una martellata? Nel punto giusto.»
«Non saprei.»
«Scelga pure come le viene più comodo.»
«Lei non si rende conto.»
«La imploro.»
La scrivania ha sempre protetto Ernesto dall’onda di dolore che emana dai parenti: si infrange sui cataloghi e i depliant accatastati sul piano di noce biondo e lambisce appena le sue dita mentre prende appunti sul foglio giallo del registro ordini. Se l’onda è alta, come per il trapasso di una piccola bara bianca, Ernesto può adagiarsi sullo schienale, che si reclina un po’, e posare per un attimo le mani in grembo. Stavolta l’addome preme contro il bordo del tavolo e lo spessore sprofonda di almeno quattro centimetri nell’adipe accogliente. Chiede all’imbustatrice di ricordini di preparare due tè, aggira la scrivania e si siede nella poltroncina accanto ad Agata. Finisce per mostrarle le foto di tutti e nove i nipoti, nel tentativo di spiegarle come, anche a causa loro, non se la senta proprio di accontentarla. Agata sorseggia il tè. Piange, finalmente.