Ho sempre voluto fare l’attore, da che mi ricordo. Nonostante le difficoltà posso riconoscere a me stesso di esserci riuscito. Certo, non sono arrivato a Hollywood, ma ho avuto le mie soddisfazioni. Film di serie B, come li classifica la critica, e a me sta bene. Anzi, condivido il giudizio e l’assegnazione.
In serie B ci ho passato tutta la vita, per nascita, non per scelta. Ma non ci sono stato male e ora non saprei neppure cambiare.
Credo di essere l’unico attore al mondo che non ha mai mostrato la ragione per cui fa l’attore. In uno spettacolo di immagini in movimento, l’immagine della mia unicità, della mia diversità, non esiste. Chiunque paghi il biglietto e si sieda in una sala cinematografica per vedere un film con Gigette le marionette sa benissimo perché lo fa, compra il biglietto per quello, vuol vedere Gigette che piscia alcool e gli altri attori che bevono piscia pensando si tratti di champagne pregiato o birra da poco o aranciata amara, che è il titolo di un grande successo al botteghino, dipende dalla trama, che poi è sempre un canovaccio, un pretesto o poco più. Eppure, e tutti lo sanno, il desiderio del pubblico è impossibile da mostrare. Non si proietta l’immagine di un odore, né di un sapore. E poi, soprattutto, niente organi genitali maschili al cinema, che producano alcool o meno.
La mia carriera è tutta qui, in qualcosa che nessuno ha mai visto. Gli spettatori pagano per usare la propria immaginazione, per vedere qualcosa che non c’è. Gli si dice che Gigette le marionette piscia champagne, sanno che è vero perché ne parlano i giornali, ma non l’hanno mai visto. E non chiedono le prove. Si fidano. Trent’anni di carriera, quasi cinquanta film, tutti mediamente brutti, qualcuno orribile. Non ho mai capito come ci riescano, come facciano a sorbirsi questi film tutti uguali, le stesse battute, le stesse trovate, per di più con un protagonista che fa qualcosa che tutti sanno che farà e che non si può vedere. Il pubblico è la rovina del cinema. Li ho sempre disprezzati.
Metto fine alla carriera. Sono sicuro che troveranno un altro Gigette da qualche parte o qualcuno che mi somigli. Uno che caca monete o un asino che parla napoletano, una signora che trasforma in oro tutto quello che frigge. I produttori non mancano di risorse e la mafia avrà sempre denaro da riciclare. Il cinema che ho frequentato è tutto qui. Storie risibili e soldi da riciclare. Il gioco funziona.
L’intero cinema italiano di basso livello, quello che frequento io, è in mano alla criminalità, è noto. Dentro ci sono la mafia, la camorra, la Democrazia Cristiana, gli Stati Uniti, i fascisti. È talmente evidente che non vale la pena perdere tempo a raccontarlo. Poi, basta guardare le storie, il pubblico a cui si rivolgono, uno dei motivi per cui la criminalità organizzata funziona in questo Paese anche come sistema culturale è che hanno ben presente il loro pubblico di riferimento, e non perdono occasione per blandirlo, adularlo, farselo amico, se possibile con poca spesa, ma, a volte, anche mettendo mano al portafogli. Gente che sa come si guadagnano i soldi e come vanno spesi.
Di tanto in tanto, nel sistema del cinema italiano di serie B, in questo ignobile circo di periferia proiettato alla conquista del potere, riesce a infiltrarsi qualche comunista, il quale se non riesce a passare al cinema di Serie A, quello di Venezia, di Cannes, della critica e dei giornali, deve adeguarsi a vivacchiare e a conservare gli ideali di gioventù da qualche parte a casa propria. Comunisti nel cinema che faccio io non ce ne vogliono. Anch’io sarei comunista, lo sarei stato se ne avessi avuta la possibilità. Ho chiesto, ho implorato, ho supplicato i registi di farmi lavorare in qualche film che mi desse la libertà di uscire dalla galera della commedia sporcacciona all’italiana, dalla maschera di Gigette le marionette. Nessuno ha avuto il coraggio o la volontà o forse il cuore di farlo. Gigette, ormai sei bruciato, mi dicevano. L’unico è stato Monicelli. Ma sempre con ruoli secondari quando non marginali. I produttori non gli hanno permesso di farmi fare il protagonista. Nessuno ricorda la mia partecipazione all’Armata Brancaleone. Il mio nome, il mio nome vero, è nel cast di Vogliamo i colonnelli e in Amici miei, ma è come se non ci fosse. Monicelli però ci ha provato. Mi diceva: non sei un attore migliore degli altri, ma neanche peggiore. Avrebbe continuato a farmi lavorare in piccoli ruoli, era il massimo che potesse fare per me, ma alla fine mi sono stufato e ho rinunciato. Quando il destino è segnato non resta che farsene carico, se possibile con disinvoltura.
Ho continuato a fare Gigette, mi ha dato da mangiare e da bere finora. Il panorama umano che ruota intorno a questo cinema è avvilente ma ormai non mi aspetto più di fare il salto di qualità. Almeno ho le risorse economiche per rifiutare le pantomime in televisione, mi imbarazzerebbe molto. Come quel disgraziato, preferisco non dire il nome. Povero sfortunato, costretto a darsi manate sulla testa ad ogni spettacolo, e non è nemmeno particolarmente intelligente, dubito possano fargli bene. Non lo giudico male, lo compatisco, mi fa pena. Non mi fosse capitata la fortuna di pisciare alcool sarebbe toccata anche a me una sorte simile, lo so bene. Anch’io come lui ho bisogno di soldi, non abbiamo mai potuto scegliere. Poi c’è la fame, il ricordo della fame. Quelli come noi vogliono i soldi, anche se non ne hanno bisogno urgente, vogliono le cose, avere il frigo pieno anche se non siamo mai a casa, è una malattia. Lo sappiamo e tra noi ci scherziamo, ma è uno scherzo che non ci fa mai ridere. Capita di vedere qualche collega passato al cinema vero che, ce lo ricordiamo bene, è come noi, ha la casa piena di roba buona solo per essere buttata. Sono i momenti peggiori, quando riconosci gli occhi di chi è come te ed è riuscito a lasciare le trattorie per i ristoranti; l’invidia è tremenda. A me dà l’ulcera. Sono invidioso, lo confesso, come lo sono tutti i colleghi e le colleghe che ho avuto il piacere o il dispiacere di conoscere.
A volte maledico questo dono, questo scherzo della natura che mi porto dietro. Se non pisciassi alcool forse avrei potuto avere una carriera più normale, forse mi avrebbero giudicato come attore e non come distilleria. Poi penso che non posso lamentarmi, che non devo, che devo avere rispetto dei sacrifici che ho fatto. Faccio un lavoro artisticamente terribile ma dignitoso. Sarei potuto finire nel porno, non nascondiamocelo. La pipì viene fuori dall’uccello anche a me. Con il lavoro sono arrivato a questo cinema infantile, machista, noioso, fascista e me lo sono tenuto stretto perché mi ha fatto tornare a casa con il frigorifero pieno di cibo da buttare. Però che fatica le relazioni, le feste a cui dover partecipare, le telefonate da sopportare. Questi film orribili, mostruosi, popolati da creature mostruose, che raccontano storie senza fantasia. E non potere mai dire basta, io sono diverso da voi e non perché piscio alcool, sono diverso perché vi odio. E ancora un’altra telefonata, un party, un invito da rifiutare, una colazione irrinunciabile, questi registi con la sciarpa. Le sciarpe andrebbero vietate a chiunque intenda intraprendere la carriera nel cinema. Ti presento questo ragazzo, ha delle idee rivoluzionarie. Lei è un’attrice nata, pensa, si chiama Stella. Insopportabile. E tutti che mi chiedono come è possibile che la mia urina sia alcolica. Il perché non si è mai capito. È successo e basta.
Mi sono spaventato quando è successo, me lo ricordo bene; avevo tredici anni, ero solo in casa, come quasi sempre del resto. La mia famiglia, lasciamo perdere… Ad ogni modo non li sento più da quando avevo diciott’anni. Non so neppure se sono vivi o morti.
Ero terrorizzato. Così, feci l’unica cosa che mi sembrava ragionevole in assenza di altri sintomi. Aspettai. Sarebbe tornata normale. Non accadde, né è mai accaduto finora, neppure una volta. E ho quasi sessant’anni. È il momento giusto per ritirare Gigette dai set. Ho abbastanza soldi e poco tempo da vivere, con le cattive abitudini che ho assecondato non dovrei arrivare oltre i settanta, settantacinque anni, è già più di quanto avrei stimato da giovane. E se dovessi scoprire di essere ancora più coriaceo, potrei sempre peggiorare le cattive abitudini, niente di più facile e piacevole.
Oggi la troupe troverà piscia nei posti più impensabili, ne berrà inavvertitamente, ci si ritroverà con le mani a bagno, ci sono litri e litri di piscio ovunque. Pipì conservata con cura da settimane, congelata appena minta per trattenerne tutte le proprietà, trasportata con fatica e circospezione dopo lunghi appostamenti. I Vietcong sarebbero fieri di me.
Spero con tutto il cuore che basti per non lavorare mai più. Ho solo il dispiacere, me lo porterò nella tomba, di non poter vedere gli sviluppi dell’onda di piscio che sta per sommergerli. Non posso restare, il rischio è troppo alto, sono capaci di ammazzarmi, questa è gente abituata a usare un vocabolario molto ristretto e a ricorrere alle mani appena non gli viene in mente una parola. Spero che qualcuno dei comparti tecnici abbia la generosità di venire a trovarmi e raccontarmi cosa accadrà tra poche ore.
Cambiare vita non è più possibile. Mi è finalmente chiaro cosa fare, sparire, assecondare il destino, essere fantasma, non produrre più niente, scivolare fino a non avere più ombra.