Cannella


Teneva le mani incollate al volante. Incollate nel senso effettivo della parola. L’asfalto procedeva dritto per più o meno un paio di chilometri, poi, a destra, l’uscita per l’autostrada. A sinistra, poco prima, quella per il paese. E man mano che la conversazione andava avanti le sue dita si stringevano sempre più attorno allo sterzo. Se ne rese conto solo al metro numero 523.
«Veramente il centro commerciale chiude tra mezz’ora.»
Conversazione per modo di dire, poi. Non rispose niente, ancora; ma se la lagna continuava, avrebbe stritolato il volante. Quando faceva così Laura sembrava proprio una bambina.
«Scusa, non possiamo prima andare a comprare le tende, e la tua lettera la invii domani?»
Lo guardava con gli occhietti appena socchiusi. Non capiva che ci sono cose che non si rimandano, punto e basta. L’ufficio postale era in paese, cinque minuti e avrebbero preso tutte le uscite dell’autostrada che volevano. E se mancava mezz’ora alla chiusura non era certo per quei cinque minuti.
Quando raggiunsero il metro numero 784, Laura si voltò di scatto verso di lui, come se un pensiero improvviso l’avesse fatta sobbalzare sul sedile.
«Di che colore le prendiamo le tende?»
Bofonchiò fra denti un “non lo so, dimmi tu”.
«Viola?»
Anche le tende viola no. Lei però sorrideva come se stessero giocando. Un ciuffo di capelli le scendeva al lato della bocca, incorniciandole la guancia.
In quell’istante una grossa goccia di pioggia si spiaccicò sul cristallo dell’auto. Ne cadde un’altra, un’altra ancora, e un attimo dopo già diluviava attraverso la sezione di spazio illuminata dai fanali.
Superò il metro 1002. Prese un respiro e tirò su la levetta del tergicristallo.
«Veramente, le tende viola… Vabbè, non importa. Senti, invece, io non posso non spedire quella lettera, proprio no. Mi dispiace, ci vorranno solo cinque–» niente da fare.
«Non sto nella pelle. Ci pensi a quando andremo definitivamente a vivere là? È importante che scegliamo ogni cosa con cura; per altri arredi, fammi pensare… con le tende viola starebbe bene la carta da parati blu.»
A parte l’ingenuità del decidere il colore della carta da parati in base a quello delle tende; ma lei continuava per la sua strada senza neanche ascoltarlo. Come era possibile che non ci arrivasse? Eseguita una minuscola commissione, sarebbero poi andati al centro commerciale.
Metro 1255.
Ma, d’altronde, che poteva saperne, lei? Lei, che non si era mai sporcata le mani nella vita. Lei, che ogni volta che erano in un casino, dai, si sistemerà tutto. Lei, che si era laureata col massimo dei voti e che subito aveva trovato il lavoro dei suoi sogni, con i colleghi dei suoi sogni e lo stipendio dei suoi sogni. Lei che i suoi genitori le portavano una torta alla settimana e la salutavano dalla finestra dell’appartamento accanto. Lei che gli diceva facciamo un figlio, quando lui era un ragazzo di appena ventiquattro anni e ormai ne aveva già le tasche piene.
Metro 1519.
Gli facevano male le nocche. E scoppiò.
«Adesso mi stai a sentire, ok? In questo momento non me ne frega un accidente del fatto che la carta da parati sia blu, anche se l’abbinamento fa schifo!»
Laura si interruppe e la luce dei suoi smeraldi si spense tutta insieme. Lo guardava come se d’improvviso un estraneo avesse sostituito suo marito al posto guida.
«Ma che problema c’è? Potevi dirmi che non ti piaceva, bastava quello.» un lampo le impallidì le guance. Seguì il tuono.
«Ti ho appena detto che del colore non me ne importa!» metro 1660 «Quello che ora importa a me e che non ho alcuna intenzione di rinviare è andare all’ufficio postale. Ma il problema è che non ci arrivi, è più forte di te, e io non so mai come devo comportarmi in questi casi!»
Metro 1731. Finita la tirata, vide passare nello specchietto retrovisore l’uscita per il paese.
«Cavolo!» diede un pugno al volante «Mi hai fatto perdere l’uscita! Ecco cosa succede sempre con te, mi tocca dare la precedenza a tutte le tue smorfie.»
Metro 1807. Laura allora sembrò rendersi conto del fatto che l’uomo che stava guidando non era un estraneo, e assunse l’aria più indispettita che avesse mai avuto. Metro 1825.
«Ah, le mie smorfie?» alzò la voce «Manca mezz’ora alla chiusura del centro commerciale, domani è domenica e poi io lavoro, mica come te, che quella lettera la puoi inviare quando ti pare e piace. Quand’è che ci andiamo, il mese prossimo?!»
Metro 1858.
«Ma manca poco alla chiusura perché tu hai perso tre ore davanti allo specchio!»
Metro 1882.
Si fiondano in autostrada a centocinquanta all’ora. 1893. Lei guarda lui, lui guarda lei. 1900. Laura è senza cintura. 1905. Un fulmine. Ah no, forse sono fanali. Clacson. Tuono.

*****

Apre gli occhi. Un bagliore lontano si fa sempre più vicino e irradiando l’oscurità assorbe la nebbia. La luce del tramonto si diffonde tutta attorno al buio e il salotto lo avvolge.
Gli ci vogliono alcuni secondi per capire che era il solito sogno. Arrivano allora il freddo delle mattonelle sulle guance bollenti e il dolore dell’impatto, che dopo la caduta dal divano gli ha spezzato il fiato e la schiena. Pian piano il sottofondo rumoroso del clacson si trasforma in una linea sonora nitida, e il campanello della porta trilla. Lui aspetta ancora un poco, si passa una mano fra i capelli, mentre continuano a suonare. Ma cosa vogliono?
Alla fine, appoggiandosi al divano, si libera della coperta e si tira su; intanto che il salotto si aggiusta e il pavimento torna orizzontale, i suoi ingranaggi cigolano come quelli di un carillon rotto. Quando è del tutto eretto contempla la stanza, deserta e glaciale, la carta da parati color panna e le tende bianche. Ha la bocca impastata di uno strano sapore.
Con la lentezza di una vecchia tartaruga raggiunge la cucina, dove aveva messo a bollire il tè. L’acqua è evaporata tutta e il tegamino si cuoce da solo, così spegne il fornello. Sul fondo asciutto si è appiccicata la bustina della tisana; è più veloce prepararla se si mette a bollire l’acqua con già dentro la bustina, e anche se poi la brodaglia che ne viene fuori la si può chiamare come si vuole, ma certo non tè, lui non bada più a queste sottigliezze da un pezzo.
Se un altro trillo non lo risvegliasse, rimarrebbe lì imbambolato a cercare di comprendere il senso cosmico di quella visione. Invece strascicando i piedi si dirige verso l’ingresso.
«Che diamine.» biascica, e si stropiccia gli occhi. Ha la camicia mezza sbottonata e il bordo inferiore del maglione sale obliquo su per un fianco, tuttavia lui non si cura di sistemare niente. Quando afferra la maniglia, qualcosa lo investe. Il sapore che gli impasta la bocca in realtà è un odore. Dev’essere il tè, che si è diluito nell’aria e ora lo circonda. È buffo. Quale gusto aveva messo? Ah sì, cannella.
Chissà come mai, l’aroma della cannella gli ha sempre dato l’impressione delle cose concluse, di quando si finisce un capitolo della vita e se ne apre un altro. Come un rito. Forse perché quando era bambino sua mamma beveva tè alla cannella nelle giornate d’inverno, e allora nevicava. O forse no; adesso gli sfugge.
Apre la porta e accoglie il corridoio con le occhiaie che pendono dalle palpebre. E qualcos’altro ancora lo investe, di nuovo.

I ricordi di quello che era accaduto dopo l’incidente non gli si erano mai rivelati con chiarezza, nemmeno nel tentativo di esaminarli più tardi a mente fredda. Ogni volta che ci aveva provato, ore, giorni, mesi, memorie passate e incubi si erano accavallati confondendosi l’uno con l’altro e costruendo nella sua mente solo un’immagine di disordine e devastazione, più un sentimento che una serie di fatti consequenziali.
Si era ormai scordato delle prime facce che lo avevano visitato, quando ancora non era in grado di alzarsi dal letto dell’ospedale, e della volta in cui gli avevano comunicato che Laura non ce l’aveva fatta. Rimaneva solo un grande vuoto, dentro, e l’oscurità che lo aveva inghiottito.
Il primo episodio del quale si rammentava in modo abbastanza lucido era invece quello di quando, dopo due mesi di convalescenza, si era rivisto per la prima volta allo specchio.
Era notte e il letto era particolarmente freddo. Non dormiva, non dormiva perché lei non c’era, e la sua assenza era onnipresente. Alla noia e alla disperazione delle prime due ore passate a fissare il soffitto era subentrato d’improvviso un altro demone.
Aveva iniziato da poco la riabilitazione, e per poco non cascò quando si buttò giù dal letto. Nonostante tutto, arrancò fino al bagno; gli ci volle del tempo prima di arrivarci. Lì si accasciò di peso addosso al lavandino e riprese fiato. Rimase così, senza alzare lo sguardo, la testa sugli avambracci, per diversi minuti; le maniche della tuta erano ormai bagnate di lacrime. Aveva paura. Non poteva. La parte che di lui era sopravvissuta all’incidente – una parte davvero piccola – ancora gli sussurrava di avere pietà. Ma un gusto sadico lo spinse alla fine a fare luce. Quando accese l’interruttore, scoprì ad aspettarlo allo specchio il volto di un mostro, o di un assassino.
Il neon conferiva una sfumatura pallida a quello scempio. Era come se gli avessero grattugiato la faccia. L’orecchio destro era andato e la guancia si era gonfiata in una tumescenza viola che spingeva verso l’alto l’occhio. Tutto il volto era un formicaio: pieno di buchi e squarci, e piccoli cilindri neri e lucidi sparsi qua e là che rosicchiavano come parassiti anche quel poco di umano che c’era rimasto. I punti di sutura si arrampicavano attorno agli zigomi, salivano su fino alle sopracciglia e all’attaccatura dei capelli; e sebbene fossero di metallo sembravano muoversi su zampette viscide. Si muovevano eccome, scavavano tunnel. E ne spuntavano sempre di più. La stanza aveva cominciato a liquefarsi e a girare come un mulinello, non c’era più sopra o sotto, solo l’agitarsi di milioni di formiche, lui cercava di togliersele di dosso, si strofinava la faccia per lavarsi da quei corpicini neri, che ormai erano mutati in un’unica massa scura; e poi fu buio.
La mattina dopo, quando rinvenne, passò la giornata circondato da parenti, dottori e strizzacervelli. Dopo due mesi di flebo, gli diedero da mangiare il gelato, come si fa con i bambini; in effetti si sentiva un po’ un imbecille. E fu terribile. Se lo sarebbe ricordato per sempre: il dolore delle ferite a contatto col ghiaccio faceva stridere le formiche meccaniche come il ferro ardente quando viene immerso nell’acqua. Ma lo mangiò tutto e ne chiese dell’altro: era gelato alla cannella, e non si tornava più indietro, il ferro era forgiato.

Apre dunque la porta. Fuori c’è una donna, tiene in mano una busta e subito allunga il braccio nel gesto di porgergli la lettera. Tuttavia lì per lì lui non la prende né apre bocca; continua invece a fissarla.
«È arrivata questo pomeriggio.» la voce della donna si inserisce nel silenzio e spacca l’aria gelida del corridoio. Lei mette su un sorriso raggiante.
«Visto? Hanno risposto.» dice dopo. Solo allora lui afferra la lettera e la gira dalla parte del mittente. Si irrigidisce un secondo nell’immobilità di quell’istante; poi si gratta la barba e ricambia il sorriso: sono passati trent’anni.
«Grazie.»
«Niente.»

Una volta richiusa la porta attraversa il salotto ed entra di nuovo in cucina. La bustina del tè giace ancora sul fondo. Apre uno dei cassetti sotto al ripiano di granito nero e consegna la busta, chiusa, alla polvere.
Quando alza la testa dal cassetto, i suoi occhi si fermano sul bordo inferiore della cappa d’aspirazione, dove è appoggiata la foto di Laura al mare. Getta d’istinto uno sguardo verso la finestra per scappare dal ricordo che lo sta inseguendo. Fuori, l’arancio del tramonto che attraversa in lame i rami degli alberi fa sembrare gennaio un po’ meno freddo. Allora ci ritorna, alla foto. La prende, si butta nell’ingresso, tira giù dall’attaccapanni la sciarpa e il cappotto, e con il ricordo in tasca attraversa la strada sotto casa sua, incurante dei brividi e sicuro di quale sarà la meta.
Spinge il finto batacchio sull’entrata del bar e si getta al bancone come trent’anni prima aveva fatto sul lavandino dell’ospedale.
«Buongiorno.» si rende conto solo adesso si avere il fiatone. Il barman sta asciugando una tazza con uno strofinaccio e anche se non sembra muovere un muscolo né dare segni di risveglio, dev’essersi accorto del suo arrivo.
«Salve. Scusi, solo un secondo.»
Mentre aspetta, un altro uomo raggiunge il bancone. Quando questo si volta, per un attimo lui ha la sensazione di conoscerlo; non riesce però a indentificarlo con nessuno di preciso.
«Che piacere rivederla! Come sta? Che ci fa da queste parti?» la stretta di quelle manone da macellaio è fortissima. Lineamento per lineamento la faccia del vecchio si va ricostruendo; intanto lui sente di aver tenuto fino a quell’istante l’espressione inebetita di chi vuol dare a vedere di conoscere uno sconosciuto.
«Dottore, quanto tempo! Come sta lei, piuttosto?» esita un attimo «Ma cosa ha fatto? Nulla di grave, spero.»
La pelle sulle guance del vecchio è puntellata di formichine di ferro, tutte aggrappate, avvinghiate alle rughe. Il primario gli batte una manata enorme sulla spalla e ride, e i punti di sutura si arricciano ai bordi delle labbra.
«Fa niente, le cose capitano. Posso offrirle un caffè?»
Nella sua mente lo scopo della spedizione al bar d’improvviso resuscita e riacquista la consistenza concreta di una necessità.
«Grazie mille, ma prenderei un gelato.» e senza curarsi dell’incredulità dipintasi sulle sopracciglia del primario «Alla cannella.» aggiunge.