Via Zamboni, 9

Per prima cosa vennero a prendere il mobile della cucina.
Vennero; ed erano un padre e una figlia. Lui aveva i capelli a spazzola da ingegnere e un paio di occhiali dalla brutta montatura, il tipo di occhiali che si mettono per vedere bene, non per essere belli. Con quegli occhiali girava attorno al mobile bianco, toccava i fornelli, soppesava i cerchietti di ferro che stavano sopra ai quattro fuochi, girava le manopole. Aveva l’aria di uno che sapeva quello che faceva. Faceva domande sulle misure, “è sessanta per sessanta?”; chiedeva di qualche cosa che gli serviva, “avete del nastro?”; o si sincerava dello stato del suo nuovo acquisto, “naturalmente funziona tutto, sì?”. Più di un tizio che aveva comprato un cucinino usato su e-bay, sembrava un allevatore di cavalli che si sincerava della salute del suo puledro, e dava al mobile gran pacche sui fianchi, quasi aspettandosi di sentirlo nitrire. Di noi, non chiese niente. Gli interessavano solo gli oggetti.
La figlia non era più una bambina, ma non era nemmeno una donna. La figlia era metà. Le gambe, nei jeans, erano lunghe ma piene, sembravano pronte per essere gambe di donna, ma la felpa grigia diceva tutt’altro. Il problema non erano le gambe, e nemmeno la felpa. Il problema era che a guardarle insieme, contemporaneamente, facevano venire un gran mal di testa, facevano a pugni. Così, bisognava concentrarsi o sulle une o sull’altra.
La figlia aveva l’aria di una che non sapeva ancora bene che farsene del suo corpo. Così stava vicino al padre, però in disparte, forse un po’ imbarazzata per quel suo piglio da ingegnere, e per quel modo poco pietoso che aveva di toccare le cose. Chiedeva scusa con gli occhi, ma certo non osava dir niente, forse perché sapeva che lui era così, e basta.
Si portarono via la cucina, il padre e la figlia, veloci, e così rimanemmo senza fuoco. Stanchi per quel trasloco lunghissimo, tristi per il buco sul pavimento lasciato dal cucinino, facili alla suggestione, il padre divenne subito per noi una figura mitologica, un Prometeo al contrario. Non avevamo più nemmeno da farci il caffè, o la pasta. Ci restavano gli accendini, per le sigarette.

Poi vennero a prendere la lavatrice.
Questa volta venne un ragazzo, ed era solo, ma siccome era bello non aveva l’aria di uno che fosse tanto abituato a esserlo. Fu più gentile dell’ingegnere. Anche lui chiese della lavatrice, ma chiese anche di noi, di cosa facevamo, se eravamo studenti o se lavoravamo. Disse che aveva cambiato casa recentemente. Lo disse come se volesse stabilire, tra noi, una sorta di comprensione reciproca che viene dall’esperienza, come se volesse chiederci scusa, per il fatto che ci stava portando via la lavatrice. Era carino; ma delle sue scuse non ce ne facevamo niente, e la sua pietà era fastidiosa come l’assenza di pietà in quell’altro, l’ingegnere. Forse più fastidiosa ancora, perché almeno l’ingegnere non si era sforzato di essere qualcosa che non era, o di capire qualcosa che non poteva capire. Comunque, della sua pietà noi non sapevamo bene che farcene. Stava lì, ennesima tra le cose che in quei giorni ci appesantivano. Sarebbe stato più utile se ci avesse portato del fuoco.
Quando venne il ragazzo in casa c’era anche Maria, che così poteva spiegargli per bene i bottoni e i programmi. Era tutto un “premi”, “schiaccia”, “gira”, “questo programma dura di più”. Il ragazzo parlava della lavatrice ma era come se stesse parlando del sesso, tanto che dopo, una volta uscito di casa, potevamo comunque sentirne l’odore.

Infine ci portarono via i libri, perché i vestiti erano già stati traslocati in nuovi armadi.
Perché avessimo lasciato per ultimi proprio i libri non l’avevamo capito. Forse perché i libri pesano di più dei vestiti. Se nell’accumulo i libri diventano un macigno, i vestiti invece li stringi, li infili negli spazi vuoti ma liberi. Li indossi a poco a poco e li trasporti molto tempo prima che il vero trasloco inizi. Forse addirittura i vestiti ti seguono nell’idea di cambiare casa, o nella costrizione di abbandonarla, dipende dai casi. Vero è che molti vestiti abbiamo deciso di buttarli perché non ci stavano più: non ce li sentivamo addosso, ci sentivamo cambiati e nel fare i pacchi, ci guardavamo un po’ imbarazzati per il torto che stavamo per fare alla maglia azzurra, al maglione blu, al cappotto grigio e polveroso. I libri invece no: non ne abbiamo buttato nemmeno uno, li abbiamo tenuti tutti, perché se i vestiti cambiano e non riescono a starci dietro, i libri invece ci guardano cambiare, con quelle facce assorte e inamovibili, segni di un altro tempo che passa in maniera più lenta.
È giusto così, disse uno di noi. E quando gli chiedemmo che cosa, lui rispose che era giusto che tutto fosse partito con i vestiti e fosse finito con i libri. Erano gli oggetti che più ci avevano accompagnato in quegli anni, nella nostra casa. E aggiunse: l’aria va via per prima, le pietre rimangono. Noi ridemmo un po’ perché lui è sempre stato un tipo svampito e l’abbiamo sempre canzonato delle frasi che ogni tanto ci diceva, però poi, ognuno nella sua testa ci ha pensato a lungo. All’aria e alla pietra e ai vestiti e ai libri. E mentre ci pensavamo guardavamo intorno a noi e non c’era più niente, né l’aria né la pietra. Tutto quello che avevamo accumulato negli anni di Via Zamboni 9 era stato portato via. La casa rimaneva lì con i suoi muri bianchi e il suo pavimento in legno a lische, ammuffito a tratti. E nell’aggirarci in quelle stanze vuote con l’eco dei passi e dei respiri ci chiedevamo perché, perché solo alcune cose possono venire con noi e altre invece bisogna assolutamente lasciarle.
Le ragazze si installarono nel nuovo appartamento di Via Mazzini; se le portò via il furgone del trasloco facendo l’ultimo giro. Il tipo svampito, lui nessuno venne a prenderlo. Se ne andò sulle sue gambe magre, due tronchi di ulivo, come tre anni prima era venuto, in treno. Solo che, invece di andare giù, andava su. Sul biglietto c’era scritto: “Venezia, regionale veloce”. Ma prima che se ne andasse, quelle stanze che ci erano sembrate così vuote ancora non lo erano del tutto. Senza mobili, libri e vestiti, c’eravamo io e lui, e c’erano le memorie.