Agosto

La notte scomparivo. La mia fuga era una banconota da venti piegata nel portafoglio, un mazzo pieno di chiavi, una porta accompagnata piano e richiusa con uno scatto garbato alle spalle del sonno flebile di mia madre. Era l’estate calda, quella in cui mio padre decise di presentarci il benservito facendo tremare i cardini dell’uscio così forte da far intendere all’intero palazzo che dalle nostre parti non sarebbe ricapitato poi tanto spesso.
Avevo appena svestito il gesso e il dottore si era raccomandato “di farle prendere aria, a quella gamba”, ma faceva talmente caldo che le poche persone rimaste in città non si azzardavano a mettere piede fuori casa prima di sera. Sui giornali si scriveva che nella nostra zona si aggirava un finto turista che prendeva a pugni i passanti. Li avvicinava con la scusa di un’informazione e poi li mandava al tappeto esplodendo una raffica di rabbiosi destri-sinistri. Ai primi di agosto aveva già aggredito due studenti tra corso Buenos Aires e viale Abruzzi e messo in fuga un fattorino all’altezza del parco di piazza Aspromonte.
A un certo punto, non no se per scrollare via il tempo con un brivido o per far pascolare la gamba a dovere, mi misi in testa di dargli la caccia.
Avevo persino tracciato una mappa che ripercorreva la geografia dei suoi interventi e che andavo aggiornando con puntiglio ogni volta che il finto turista marcava presenza.
Pattugliavo il quartiere secondo logiche che di volta in volta toccavano l’astrologia, l’urbanistica, il profilo delle vittime. Inutile dire che non ne venni mai a capo, e che del turista-pugile non seppi mai niente oltre quanto riferito dalle cronache.
In fondo mi bastava restare un po’ in giro, svanire nella notte ferma e pazza di una Milano che non si riconosceva più, se non nell’eterno accalco di auto ferme ai semafori di piazzale Loreto e negli showroom da marciapiede delle prostitute africane, sedute ai bordi della strada in paziente attesa del ritorno dalle ferie dei loro clienti abituali.
Era bello essere poco meno leggero di ciò che mi circondava, spostare a malapena l’aria di palude che incontravo a banchi durante il mio passeggio.
Potevo restar seduto ore a osservare i cani con i loro padroni ai giardinetti di piazzale Bacone, oppure perdermi sul posto nel reticolo di rotonde indistinguibili che si ripetevano tra Loreto e Piola come nel peggior incubo da febbre.

Certe volte mi sembrava di avvertirlo, il mio scomparire: nel silenzio della strada mi ascoltavo camminare e poi, d’improvviso, uno dopo l’altro, ecco i miei passi farsi sabbia, cancellarsi nella sabbia, restava solo quella gamba clinicamente guarita e pesante come un tronco, quella gamba a ricordarmi la carne che portavo addosso.
Rincasavo a giorno quasi avviato, con la consapevolezza nei passi che nessuna precauzione – un giro di chiave leggero, le scarpe abbandonate all’ingresso – sarebbe bastata a valicare l’eterno dormiveglia di mia madre.
Io lo sapevo, che pur non dandone segnale lei era là, sveglia e ritta come un fuso, a captare il mio ritorno come una sentinella da recinto.
Eppure il mattino successivo, mentre osservava me e il mio appetito divorare in combutta montagne di spaghetti al sugo, o mentre mi accompagnava dal dottore per una visita di controllo, non domandava mai dove fossi stato, né si premurava di ricordarmi che l’università non aspetta i convalescenti. Nei suoi occhi castano-inquieto trovavo l’ostinazione di chi fissa il sole alto per paura che questo possa tramontare alla prima distrazione.

Alla vigilia di Ferragosto il finto-turista aveva mandato al tappeto altre due persone, un’impresa che gli era valsa la gratitudine di tutti i giornali locali.
Quella sera iniziò a piovere all’improvviso, giganteschi goccioloni che crollarono dal cielo da un momento all’altro, lasciandomi nel bel mezzo di viale Monza a drenar l’umido.
Provai a ripararmi sotto un cornicione, ma la pioggia tagliava il cielo in diagonale e pareva arrivare dappertutto, perciò decisi di rimettermi in cammino: se proprio dovevo bagnarmi, tanto valeva stare al passo con il temporale.
Avanzavo a testa bassa e con le spalle strette, persuaso chissà da cosa che quella fosse la trovata migliore per scansare i malanni.
Credo proprio che fu a causa del mio sguardo trattenuto a terra che notai quel bar, uno scantinato con le finestre seminterrate buone appena a illuminare i bisogni dei cani sul marciapiede.
Di fianco alle scale che infilavano l’entrata, tre uomini fumavano proteggendo i tizzoni dall’acqua con il palmo della mano.
Se mi fossi preoccupato della pioggia, anziché razzolare per l’aia della tempesta, certamente non avrei riconosciuto uno degli individui raccolti in consiglio.
Più magro, la barba sciatta dei due giorni, l’occhio acquoso da bevuta, ma di dubbi non ve n’erano: era il marito. Lo avevo incrociato soltanto una volta, in ospedale, eppure, nonostante l’aspetto trasandato, appresi allora che la natura del nostro debito era inestinguibile e impermeabile al tempo.
Mi rifugiai sotto la pensilina di un autobus e attesi. Quando l’uomo si fu congedato dagli altri due mi offrii nuovamente ai bagni del temporale per andargli dietro.
Perché poi? L’unica cosa giusta da fare sarebbe stata mettere più metri possibili tra me e lui, e invece eccomi a scortarlo fino a un palazzo di viale Romagna e a scrutare la luce, presumibilmente della cucina, che si accendeva per l’ultimo bicchiere d’acqua. Il marito si spostò nella stanza a fianco. Sulle tende si spalmò il tepore pastello di un abat jour. Immaginai la moglie già addormentata. Una piccola premura per non guastarle il sonno. Lei l’avevo conosciuta grazie a una dichiarazione rilasciata a una televisione locale. Aveva gli occhi infossati e la faccia sciupata di una fumatrice professionista. Forse il marito lesse ancora qualche pagina del libro che teneva sul comodino, o controllò la mail sull’IPad. Non mi costò fatica attendere che il sonno sopraggiungesse. Poi, quando finalmente il marito scese a patti con l’insonnia e spense la luce, mi scossi tutto insieme e presi coscienza di quanto il caldo mi stesse corrompendo la ragione. Affrettai il passo.
A quell’ora la 92 aveva già ripreso i suoi girotondi di barboni tra viale Isonzo e Bovisa. Rincorsi l’autobus fino alla fermata e ci montai sopra per un pugno di strade. L’odore stantio appiattato sui sedili restituì un minuzzolo di sensatezza al mio vagabondaggio: ero tornato uno studente universitario, di nuovo in ritardo per un esame, in lotta per un posto a sedere nella calca degli autobus invernali, di nuovo nella Milano che non aspetta, che ha da fare, non più in quella riproduzione sbiadita e asfissiante, non più squallida pedina del rendering scapestrato nel quale mi trovavo a sguazzare da settimane. Così risultò tutto sommato semplice convincermi di star vivendo uno strano sogno dal quale mi sarei presto svegliato. Lo fu a tal punto, semplice, che quando sprofondai nel letto, il marito, la moglie, le tende, il gesso, le strade vuote, mi parvero quasi un esotico antipasto di quel poco di sonno che la nottata mi aveva ancora lasciato in caldo.

Di fronte a quel palazzo tornai anche le due sere successive. Non si trattò di una decisione sofferta, rimuginata, tutt’altro. Con la testa vuota infilai la porta di casa e con la medesima leggerezza mi trovai ad attendere che qualcuno spegnesse la luce della camera da letto.
Non avevo ulteriori progetti in proposito. Per il momento, era sufficiente lasciarsi condurre da una sgusciante sbadataggine e scorgere di tanto in tanto un’ombra che si muoveva nella stanza, una luce che si accendeva in bagno, un bagliore che zampillava dal frigorifero quando il marito si alzava per un furtivo spuntino notturno.
Vegliare sul marito e sulla moglie mi dava una sensazione di immaterialità e di lontananza, come se nell’incidente ci avessi rimesso l’osso, sì, ma del collo, non del femore.
Notando uno scarto nel mio comportamento mia madre si preoccupò. Mi chiese dove me ne andassi in giro tutta la notte. Con la bocca piena risposi: “In giro”.
Aggiunse che non era affatto contenta di sapermi per strada a notte fonda, specialmente con il finto-turista a menar le mani.
Quando avevo intenzione di riprendere a studiare?, chiese. Dissi che non mi sentivo ancora pronto, la testa era girata in altre direzioni e non c’era verso di raddrizzarla.
Parve arrendersi, perché non aggiunse altro e si alzò per ritirare i piatti. Ma sapevo bene che quello sguardo che mi lanciò più volte tra l’insalata e il caffè continuava a domandare al posto suo: “Quando allora? Quando?”.

Dell’incidente ho trattenuto pochi dettagli, forse non del tutto reali. Il ragazzino era sbucato all’improvviso. Se si fosse trattato di un film, avrebbe tenuto sotto braccio una busta colma di viveri frangibili: uova, grappoli d’uva, un simbolo universalmente riconosciuto della giovinezza spezzata da una terribile fatalità al rallentatore. Non andò così. Ricordo bene il suo sguardo immobilizzato dai fari. Mi riportò alla mente il giorno in cui presi la patente, quattro anni prima, quando andai a trovare un amico nel bergamasco. La strada era buia e piena di tornanti, a un certo punto mi ritrovai di fronte a sei occhi luminosi imbambolati sulla linea di mezzeria. L’unico modo per non investire un coniglio è quello di spegnere i fari e attendere che il suo scarso istinto di sopravvivenza cessi di inchiodarlo pericolosamente alla sua fine.
Quella visione – non l’incidente, ma decine di conigli attorno alla mia auto nell’oscurità di una strada di campagna – mi dette il tormento per settimane, nel mio letto d’ospedale. Segno che qualcosa, nella mia testa, cominciava a non circolare più a dovere. Le autorità avevano sentenziato che non avevo colpe, mentre sui giornali il marito e la moglie non perdevano occasione per ricordare che non avevo neanche chiesto scusa in via ufficiale. Ma era possibile scusarsi? Come se avessi appena pestato un piede a un signora in metropolitana, o se fossi stato colto in flagrante a rubare al supermercato? Scusa. Mi dispiace. Non era mia intenzione. Sarebbe bastato per ripartire, tirare una linea e uscire dalle profondità di agosto?

Una notte andai a far visita al marito e alla moglie e trovai le finestre sbarrate, le luci spente in tutte le stanze. Appuntai la vista, in cerca di un segnale, una traccia di presenza umana cui aggrapparmi a corpo morto. Al secondo piano del civico 32 di viale Romagna regnava il buio definitivo di chi aveva stabilito che agosto cominciava da quel momento, una domenica 27 senza arte né parte. Trascorsi l’intera nottata a passeggiare nervosamente sotto l’appartamento. All’arrivo del mattino mi rassegnai. Camminavo svogliatamente verso casa sapendo, dentro di me, che non sarei più tornato, e che se anche fossi capitato da quelle parti, di certo non avrei più alzato lo sguardo lassù, al secondo piano.
Avvertivo una fitta al petto, come se qualcuno me lo avesse tambureggiato a pugni, il cuore, ma con colpi gentili, come a dire “Qui, hai male qui”.
Non avevo voglia di rincasare subito, m’infilai nel primo bar con la serranda mezza sollevata, un posto sconsolato in viale Sansovino gestito da cinesi.
Ordinai un caffè e mi accomodai al tavolino per leggere il “Corriere” del giorno precedente. Non potevo crederci: il finto-turista era stato arrestato a seguito dell’ennesima aggressione in corso Lodi. Si trattava di un deejay spagnolo di 23 anni, e a quanto riferiva l’articolo non si celava alcuna logica dietro le sue imboscate, soltanto una non meglio precisata adesione al gioco conosciuto come knockout game, la nuova moda esportata dagli Stati Uniti. Lessi il quotidiano da cima a fondo, con ingiustificato puntiglio, non feci prigioniere neanche le previsioni meteo. Se me lo avessero concesso, sarei rimasto in quel bar per tutta la vita, avrei atteso pazientemente di sparire col mobilio al prossimo cambio di gestione.
Invece mi alzai, e quando uscii in strada la scena che mi si parò di fronte mi stordì: sciami di auto risalivano la corrente di viale Abruzzi sollecitando con il clacson la testa della fila, uomini e donne scaricavano borse dai bagagliai delle macchine guardandosi in giro con aria stralunata, gruppetti di lavoratori si radunavano rassegnati attorno alle fermate dei tram. E così l’estate era davvero finita? Strizzai gli occhi contro il sole e mi incamminai in direzione di casa, verso l’unica persona dalla quale non potevo sparire. Agosto volgeva al termine. Anche per me.