Contro il design


Ursula si era laureata in Architettura, prima donna della famiglia, prima del suo corso. Molti complimenti dalla commissione, lacrime di commozione della madre che tanto aveva lavorato per pagarle gli studi, e via dicendo.
Il giorno della proclamazione Ursula sorrideva, gli occhi velati dalla gioia. In mezzo alla folla di parenti e amici stava Marcello, con cui aveva iniziato a uscire da poco.
Era un bellissimo ragazzo dalla chioma fulva, i lineamenti di una statua neoclassica e un cuore abbastanza buono.
Qualche mese dopo, era cosa fatta: davanti all’altare Ursula e Marcello pronunciavano i loro voti, la madre piangeva un po’ meno, gli occhi della sposa sempre velati.
Come si aspettavano tutti, Ursula arredò la casa. Negli ultimi tempi si era avvicinata a certi movimenti radicali, che abbattevano i confini tra le discipline e rivendicavano l’irrazionalità degli oggetti. L’aria era fresca e prometteva colori, nuove forme; plastica, plastica ovunque. Raggomitolata contro il petto di Marcello, gli aveva mostrato entusiasta i mobili che avrebbe realizzato per loro due, sul catalogo di una mostra arrivato dritto dritto dal MoMA. Lui aveva annuito, le labbra leggere sotto la barba rossa.

Ursula amava molto la lampada da salotto. Uno stelo bianco partiva dal pavimento – un linoleum del ventennio precedente, un disegno a mosaico petrolio, magenta e ocra – e terminava in due palle di plastica, sezionate e ricomposte per non essere più perfettamente sferiche. Nello spazio tra una sezione e l’altra passava la luce, gelida, pulita. Alla sera Ursula si sedeva sulla poltrona in gommapiuma e tessuto rosso e sfogliava i suoi libri dalle foto brillanti. Sospirava, piena di soddisfazione.
Dopo qualche mese che si erano trasferiti nell’appartamento così ben progettato, Marcello aveva ricevuto una promozione, nell’oscuro lavoro di ufficio che svolgeva, e rimaneva fuori ben oltre l’ora di accendere la lampada. Ursula tirava fuori il suo blocco e schizzava le ombre degli oggetti che avrebbero riempito la loro casa.
Una sera che Ursula disegnava da sola, la lampada si scheggiò, non si capì mai perché, forse era stato il gatto che Marcello aveva portato a casa qualche giorno prima; saltava dovunque, quel matto. Era un angolino della palla più in basso, era schizzato via come il pezzetto di incisivo che mancava a Ursula fin da quando era piccola. Marcello aveva detto, dolce: «Ora la tua lampada ti assomiglia».
Ursula non l’aveva trovato affatto divertente.

La cucina era una vera rivoluzione. Ursula l’aveva copiata dal suo designer preferito: ogni elemento – i fornelli, il lavello – era stato separato e racchiuso dentro microambienti in vetroresina, che potevano essere composti a piacimento. Ogni giorno si poteva essere quello che si voleva, come più si voleva. Ursula agitava le mani per l’emozione mentre spiegava a Marcello la funzionalità – anzi, esattamente l’opposto, era questa la libertà! – della sistemazione. Marcello aveva approvato. Ursula aveva una testa piena di cose, che spingevano per uscire e le battevano contro il cranio, e glielo si vedeva dagli occhi strabuzzati; lui si era ripromesso di lasciarle fluire, tutte.
Marcello tornò tardi, molto tardi, la sera del compleanno di Ursula. Faccende che riguardavano il suo oscuro lavoro d’ufficio, più complesse di quelle che sapeva gestire, o almeno così le spiegò. Lei fingeva di dormire, la coperta sulle orecchie, ostinata. In cucina aveva lasciato i piatti sul tavolo in formica, freddi e pastosi. Marcello mangiò, piano, quello che era rimasto. Mesto, spazzò meticolosamente per terra, e passò un panno umido sul piano cottura. Degli schizzi d’olio erano finiti sulle pareti dei microambienti, quasi invisibili, ma se alla luce del giorno Ursula li avesse notati sarebbe impazzita. Con cura, prese un detersivo arricchito di candeggina, lo versò su una spugnetta e iniziò a sfregare energicamente. Davanti ai suoi occhi increduli la parete cominciò a opacizzarsi. Gettò a terra la spugna schiumosa. La macchia scolorita rimaneva lì, sopra il fornello, beffarda, visibile.
Questa cosa non avrebbe potuto nascondergliela, mai più.

Il letto era il cuore dell’appartamento di una giovane coppia. Dopo aver scandagliato diversi modelli, Ursula aveva scelto la soluzione più ironica: un tavolo che sotto rivelava un materasso, da rialzare poi all’altezza giusta. Di giorno rimaneva chiuso, e la ragazza vi abbozzava sopra i suoi progetti; la notte lo aprivano: era un rituale preciso che li traghettava dalla noia della vita quotidiana alla passione che li rendeva belli e forti, il sangue poteva ricominciare a scorrere furioso sotto la loro pelle, e via dicendo. La parte del sangue e della passione aveva convinto Marcello.
Dopo quasi un anno non lo aprivano più insieme.
Una domenica pomeriggio Ursula gli urlò molte cose, dalla sua poltrona sotto la lampada scheggiata, urlava forte e poi si era alzata e camminava per le stanze, scalza sul linoleum graffiato dai suoi talloni ruvidi. Era ancora furente mentre metteva la pentola sul fuoco, sotto alla macchia bianca di candeggina, e infine sbatteva i piatti sul tavolo, sbeccandoli qui e là. Marcello taceva, la testa fulva china a fissare i piedi troppo grandi, unica imperfezione nel suo fisico proporzionato.
Ursula si stancò di urlare, a un certo punto. Andò in camera da letto, e fece per aprire il tavolo. Marcello le arrivò alle spalle: «Lascia, facciamo insieme. Ti prego».
Prese a strattonare un’asse – il meccanismo con il tempo era diventato meno fluido – e Ursula strattonava dall’altra parte.
«Faccio da sola, togli quelle mani».
Tirare di qui, tirare di là, una sbarra di ferro da sotto si sfilò, e le assi crollarono miseramente sul materasso, affossandolo in maniera irreparabile.
Gli occhi di Ursula divennero due fessure. Marcello arretrò, orripilato.
La ragazza si mise a piroettare per la stanza, artigliando con le mani la tappezzeria, lacerandola; rovesciò di un sol colpo i libri dai comodini, i profumi dalla toletta.
«È questo che vuoi, è questo che vuoi!», gridava. Non gli avrebbe lasciato più niente di sé. Corse per le sale petrolio, magenta e ocra, strappando, graffiando, colpendo.
Alla sera, solo quel pazzo del gatto era rimasto, a miagolare stonato tra strisce di tessuto rosso e pezzi di plastica bianchi.

Tra le altre cose, Ursula era poi diventata una collezionista molto famosa. L’appartamento in centro a Milano che aveva diviso con Marcello era stato rimesso in piedi da altre persone, rimodellato per assomigliare alle foto che la ritraevano in braccio al marito, sulla soglia, il velo bianco che strisciava sul linoleum.
Ancora oggi si può visitare, mostrando la tessera o dando il giusto obolo di iscrizione a una vecchietta sorridente che si tormenta la collana di perle, nelle giornate aperte del FAI.