Stazione… Dolce stazione. La Paola succhiava il suo Estathé al limone dalla cannuccia. Ivan e Riki erano chini sul gratta e vinci: grattavano in due perché l’avevano comprato a metà, «così porta più fortuna», dicevano. Riki soffiava sulla polverina, Ivan invece non soffiava. La polverina volava via e i numeri venivano fuori uno alla volta.
Il rumore che fa la moneta sul gratta e vinci, pensavo, assomiglia a una preghiera.
«Liscio!» aveva detto Ivan, e subito si era acceso una sigaretta.
Il gratta e vinci era rimasto lì, spellato sul tavolino. Riki era già con la testa nel cellulare, mentre la Paola bucherellava l’Estathè con la punta della cannuccia: ormai l’aveva distrutto. Sui binari era passato un treno che trasportava i camioncini della Fiat, di tutti i colori. Fissavo un punto senza battere gli occhi, e tutti quei colori assieme facevano un mosaico, dentro la mia testa.
«Non si vince più con ‘sti robi…» aveva detto Riki col gratta e vinci in mano.
«Ci arrivi?» gli aveva detto Ivan. «È perché adesso c’è la crisi.»
«Anche quando non c’era la crisi, noi non abbiamo mai vinto un fico secco» gli aveva risposto Riki.
«Svegliati. Andavamo ancora a scuola, a quei tempi. I gratta e vinci non li compravamo.»
Ivan la sapeva lunga. Riki si era accorto che niente stava migliorando. Erano anni che cercava un modo per svoltare; in seconda superiore gli era venuta l’idea del canotto volante: un canotto gonfiato a elio con appesi cinquanta palloncini gonfiati a elio; era anche andato alla Vulcangas a farsi fare un preventivo per due bombole da sei chili. Noi avevamo provato a dirgli di lasciar stare, ma Riki è diplomato in aeronautica, non ne voleva sapere. Peccato che le bombole costassero una cifra.
«Dobbiamo comprarne un pacco intero, di gratta e vinci» avevo detto io, poco dopo. «Almeno, con la vincita minima, è come se il costo dei gratta e vinci si abbassasse…»
«Cioè?» mi aveva chiesto Ivan.
In tutti i pacchi di gratta e vinci, per legge, c’è una vincita minima. Di solito è circa la metà del prezzo dell’intero pacco. Se un pacco costa 300 euro, 150 euro di vincite sono assicurati.
«Abbiamo più possibilità, su un pacco intero, di trovarne uno buono» avevo detto.
Allora Ivan si era alzato ed era andato dalla barista a chiedere un foglio e una penna. Voleva fare i conti, mettere nero su bianco. Nel frattempo, Riki aveva aperto il sito del governo e cercava se esisteva davvero, la vincita minima.
Sul foglio, in stampatello, Ivan aveva scritto:
PREZZO DI 1 GRATTA E VINCI = 5 €
1 PACCO = 60 GRATTA E VINCI
PREZZO DI 1 PACCO = 300 €
VINCITA MINIMA = 150 €
Riki gli si era messo sulle spalle per seguire ogni passaggio.
«A ‘sto punto, compriamo tre pacchi. Un pacco a testa» aveva detto Ivan.
Voleva fare le cose per bene. Riki si era acceso un’altra sigaretta, gli serviva per capire.
«Tre, come il numero perfetto» aveva detto un minuto dopo. «Se lo facciamo, lo facciamo sul serio. È un investimento.»
La Paola si era messa una mano sugli occhi, poi aveva detto: «Fortuna che dovevate andare a fighe, stasera…»
«Lascia fare» le aveva risposto Riki. «Ci andremo. Ma da ricchi.»
Tre pacchi di gratta e vinci, 900 euro, in una parola, la quantità, ci aveva sconquassato la testa.
«Se vinciamo, mi compro un ippopotamo da giardino» aveva detto Riki.
Ivan invece voleva prendersi un condominio da affittare; filava come ragionamento. Così eravamo andati al bancomat a prelevare, e poi eravamo tornati al bar. La barista si era irritata non poco, diceva che eravamo degli stupidi, che 900 euro era il suo stipendio.
«Sta’ buonina! Se vinciamo ti regalo un ciondolo d’argento» le aveva promesso Riki.
Togliere quei soldi dal portafoglio non era stato doloroso. I gratta e vinci erano lucidi… Per aprire il suo pacco, Ivan ci aveva dato di morso, non vedeva l’ora. Poi eravamo tornati seduti, ognuno al suo posto, pronti per grattare. Volevamo vincere. La Paola fumava una sigaretta e teneva il fumo nelle guance. Come un pesce palla. Perché era stufa.
Vicino ai bidoni, un piccolo mulinello di polvere girava col vento della sera. Un poliziotto era passato di lì, e i vecchi del bar si erano zittiti. Riki aveva aperto il suo pacco e i biglietti gli erano caduti, srotolandosi per terra. Poi li aveva raccolti e se li era attorcigliati al collo.
«Ci facciamo una foto?» aveva detto.
«No. Passiamo per coglioni» avevo detto io.
«La teniamo per noi, senza metterla su Facebook» aveva risposto lui, serio.
La Paola ce l’aveva scattata con l’iPhone, la foto. Era venuta bene. Eravamo convinti. Avevamo un desiderio, e questo contava più dei soldi. Niente poteva funzionare. Stavamo per spararci ai duecento all’ora in un vicolo cieco. Volevamo sentire quanto male fa.
C’erano volute in tutto tre ore per grattarli. Avevamo grattato fino alle due di notte. All’inizio, quando trovavamo un numero, partiva l’urlo:
«Numero!»
Nel gridare, Riki faceva spettacolo, a modo suo: sembrava il vecchio della tombola alla festa dell’Unità.
«Eccolo, me lo sento!»
Poi ci sgonfiavamo come palloncini bucati, e atterravamo in una scoreggia. Solo piccoli premi, vincite da cinque, dieci, venti euro. Nessun miracolo. Nessun anno zero, e nessuna resurrezione.
Facevamo delle pause per fumare e stilavamo le statistiche generali. Le sigarette diminuivano insieme ai gratta e vinci. Alla fine, i biglietti grattati passavano alla Paola, che controllava come un notaio se casomai ci fosse sfuggito il milione. Speravamo che fosse lei a sovvertire quella lenta sconfitta.
Niente. Tre pacchi di gratta e vinci, dopo tre ore, erano finiti. Sembrava una fine lontana, e invece c’eravamo già arrivati. Sommando le piccole vincite eravamo tornati a comprarne altri; era la fase del reinvestimento della vincita minima.
«Il sogno continua» diceva Riki.
La barista non aveva detto nulla, stavolta.
«Se ci scambiamo di posto? Magari cambia qualcosa» aveva proposto Ivan.
Io mi ero messo al suo posto, e avevo pensato che se uno si siede dove prima c’era seduto un altro, poi finisce per sentirsi, in qualche modo, quell’altro. Grattavo come grattava lui, ma questo non portava risultati in termini di ricavi. I gratta e vinci stavano finendo di nuovo. Ne restavano otto.
Poi tre.
Poi uno.
«È andata…» aveva detto Riki, mentre ne grattava uno già grattato.
«Pensa che la gente normale non l’avrebbe mai fatta una cosa del genere» aveva detto Ivan.
Il bar stava per chiudere. La barista spolverava la finestra; c’era un alone sul vetro, in alto. Un punto del cielo era schiarito dalla luna, e la notte era una notte come tutte le altre. A Ivan gli erano venute le labbra viola, a forza di darci coi denti. Riki si raspava i capelli dietro all’orecchio come fanno i gatti.
«Numero!», aveva detto la Paola, facendo canestro nel bidone con gli ultimi gratta e vinci, appallottolati.
C’eravamo alzati e ognuno era tornato a casa. Dei soldi, dei desideri, dei gratta e vinci, non era rimasta neanche la polverina. Solo una fotografia: noi tre abbracciati, coi rotoli di biglietti attorcigliati al collo.
Ivan l’ha messa come immagine del profilo su Facebook. «Col cazzo che non dobbiamo farla vedere. Che ci provino, se hanno le palle.»
Riki l’ha appesa con una graffetta all’Arbre Magique. Quella foto ha sostituito il santino; dice che lo aiuta quando ha un dubbio, cosa che il santino non faceva neanche per sbaglio. Qualsiasi dubbio o problema, quella fotografia risolve ogni cosa. Perché, dice, gli fa tornare in mente chi è lui. E di chi si può fidare.