Capriole


24 settembre 2016

È da un po’ che parlo con i morti.
I morti, diversamente da quello che i vivi possono pensare, sono attenti e reattivi, non si manifestano per farci paura, toccandoci all’improvviso in una stanza buia o ricordandoci i torti che gli abbiamo fatto. Non ci rinfacciano la colpa del loro essere morti. I morti vogliono divertirsi, almeno con me, e io li accontento, sono diventata il loro zimbello, e la cosa non mi dispiace.
Di loro si dice che abbiano finito di soffrire. Ecco: dopo, hanno voglia di scherzi stupidi, di leggerezza.
Ce n’è una che mi aspetta sempre quando torno a casa sfinita da un lavoro che mi fa schifo.
«Povera Bruna, dimmi pure che sei stanca morta, che il lavoro che fai ti leva l’anima, che ti uccide dentro!»
È Laura, una mia compagna delle medie, avevo saputo che era finita sotto un cumulo di macerie ad Amatrice, dove era con i figli per una vacanza economica. I ragazzini salvi, lei no e adesso, non so perché, si è sistemata qui.

2 ottobre 2016

Laura ha cominciato a esibirsi nelle sue facezie in coppia con un’altra morta, una che in vita lei non avrebbe mai potuto frequentare, la signora Lavinia Toraldo Rossi del Corno, nata Porcacci, la vecchia matta dell’attico, che ha passato i suoi ultimi anni su una carrozzina, in balìa di badanti, whisky e sigarette e che ogni tanto urlando scaraventava dal terrazzo un pezzo della storia di famiglia: poteva essere un orinale del ‘700, una bottiglia di vetro art déco che la prima volta aveva contenuto rosolio e poi solo Wild Turkey, retine per capelli e giarrettiere da uomo appartenute al marito. Da quando sta con me la vedo muoversi nel suo vestito lungo di velluto viola, facendo passi di danza, capriole o addirittura la ruota.
Quelle due insieme non fanno altro che darsi di gomito, soprattutto quando mi vesto per uscire.
«Oh, Lavì, ma l’hai vista oggi a Bruna? Ma che, deve chiedere l’aumento?»
E giù a sghignazzare come matte. Io faccio finta di niente quasi per tutto il tempo. Alla fine sbotto sempre con qualcosa di cattivo, non perché me la prenda troppo, piuttosto per cercare di essere alla loro altezza.
«Stasera io esco, mangio, bevo, fumo e vado al cinema. Voi che fate?»
La meglio, però,è sempre la loro.
«Oh, bambina, io ho girato il mondo su treni e navi di lusso, mangiato ostriche a Parigi, caviale a Odessa e pane e meusa a Palermo, bevuto assenzio e champagne con Céline, sono stata nuda in un letto per giorni a divorare romanzi in una camera d’albergo a Dakar, mentre Cartier-Bresson mi fotografava. E dovrei essere invidiosa della tua pizza con le amiche?»
Fanfarona era stata anche in vita, a sedici anni aveva convinto conte Toraldo Rossi del Corno che era venuta a Roma dal Torraccio a fare la pantalonaia, e a via Capo le Case arrotondava come dama di compagnia.
«E dài Lavì, se fai così la scoraggi, poi quando torna non ce lo racconta quello che ha combinato e allora noi che facciamo?»
E ancora a ridere, le sceme, ad applaudirsi a vicenda, a tenersi la pancia come bambine davanti allo spettacolo del pagliaccio.
Il pagliaccio sono io e, prima di chiudere la porta, le saluto sempre con una riverenza.

Vivo sola, i morti non contano. Vivevo sola anche quando c’era mia madre e abitavamo insieme.
Anni di porte chiuse, pasti consumati davanti al televisore, lei, che già prima di ammalarsi seriamente, si era da tempo chiusa in una prigione di dolore e ne aveva consegnate le chiavi al custode rancore, pregandolo di non essere persa di vista nemmeno un momento. Mio padre ci aveva lasciate per un’altra famiglia quando ero bambina e io sono cresciuta guardando mia madre non occuparsi di me, non ce la faceva, schiacciata dal ricordo di una vita immaginata, annientata da una rabbia senza voce, che pure dentro le gridava che aveva sbagliato tutto e la inchiodava a giorni immobili passati a fissare sullo schermo del televisore amori travolgenti, scappatelle innocenti, pancini misteriosi, liti furibonde, delitti efferati, ferocie inaudite, fenomeni inspiegabili, ma senza appassionarsi.
Non usciva mai, neanche per le sigarette che fumava in continuazione, mandava me a fare la spesa. Non c’era bisogno della lista, erano sempre le stesse cose. Tutto, doveva sempre essere la stessa cosa, perché ciò che io e mia madre non potevamo permetterci, quello che avrebbe mandato in rovina la giornata, non era un acquisto diverso, ma le parole in più che ci saremmo dovute scambiare per concordarlo. Consumavamo merendine in quantità esagerate, l’una di nascosto dall’altra: lei mentre io ero a scuola, seduta al tavolo di cucina con le sigarette, la televisione e il solitario, io il pomeriggio, chiusa in camera a disegnare e a consegnare a un diario sogni di fughe mica troppo lontane: mi bastava fuori dal quartiere, mi bastava fuori da casa mia.
Sono rimasta, invece, sono cresciuta e sono rimasta a guardarla e a guardarmi mangiare merendine tutte uguali, incartate singolarmente in atmosfera protetta, sistemate nel cartone e tumulate in un altro involucro. Non erano buone, ma non c’erano sorprese.
Atmosfera. Protetta.

25 ottobre 2016

Oggi, dopo qualche giorno che se ne stavano buone a ridacchiare mentre si truccavano a vicenda, e un po’ mi sentivo messa da parte, hanno ricominciato.
«Ma insomma, tesò, qualche amica dell’ufficio cellài no? Lavinia, vieni, guarda le foto del telefono»
La morta giovane mi tormenta con la storia del fidanzato.
A questo punto, in genere, la Toraldo Rossi del Corno fa due capriole sul pavimento, raggiunge il divano, appollaiandosi in bilico sulla spalliera e non dice niente.
«Siete carucce, ma perché uscite sempre tra donne? I colleghi ‘nce stanno?»
So dove andremo a finire e mi preparo. Ora tocca alla Vecchia.
«Bambina mia, lo sai, vero, che alla tua età dovresti cominciare a cogliere opportunità? Non vorrai mica finire come la tua maman, che passava le giornate con le carte a fare la chiromante per nessuno»
«Mia madre ce l’aveva un marito, siamo state abbandonate. Non ti permettere di ridere di lei e non chiamarmi bambina mia, non sono la tua bambina, e poi adesso basta! Basta parlare coi morti! Voi non ci siete! Non ci siete! Non ci siete!»
La vecchia, in equilibrio sullo schienale logoro, si guarda le unghie di una mano, attorcigliando il filo delle perle su due dita dell’altra.
«Come vuoi, Bruna. Ridere e chiamarti “bambina mia”, questo vorrebbe lei, ora»
Laura, la morta giovane, posa il mio cellulare, si fa seria e mi guarda dentro.
«Tesò, perché io tesò te ce posso chiama’, noi qui ci stiamo e ci rimaniamo, perché noi non decidiamo più niente. Qui decidi tutto tu»

29 ottobre 2016

Mi sono ricordata che la notte d’agosto in cui Laura consegnava terrorizzata gli ultimi pensieri ai figli e moriva sotto il solaio venuto giù, io, a cento chilometri, svegliata dal leggero tremare del letto, riflettevo che forse era arrivato il momento di cambiare qualcosa; di scuotermi di dosso la polvere invisibile e pesantissima che negli anni avevo lasciato si accumulasse su qualsiasi feritoia avesse accennato ad aprirsi tra me e il mondo e che aveva formato concrezioni a protezione di un dolore al quale non sapevo dare un nome, sentendomi tuttavia costretta ad accudirlo come una ragione di vita qualsiasi.
È stato, questo, un guizzo del pensiero al quale, però, non sono mai riuscita a dare un seguito, una sostanza.

Poi sono arrivate loro.

8 novembre 2016

L’altra settimana, di mattina presto, c’è stata un’altra scossa. Era domenica, e l’ho passata tutta a riempire borse e scatoloni mentre la Vecchia insegnava a Laura il tango. Ho messo un annuncio: “affittasi trilocale ammobiliato”. Avrei dovuto scrivere “abitato”.
Oggi me ne sono andata e, dando un ultimo sguardo, sono sicura di avere visto mia madre in cucina ridere a crepapelle, insieme a quelle due che le dipingevano le unghie.