La dichiarazione

Frankenstein – Stomaco #2


Era una mattina vecchia e buia, aveva indossato la tuta arancione ed era uscito col suo camioncino. Doveva fare il solito giro prima che la gente si svegliasse. Non sarebbe piovuto, non quel giorno. Quelli come lui se la sarebbero sbrigata presto, bisognava raccogliere i sacchi e svuotare i cassonetti. Lo faceva da quando era stato dimesso dal laboratorio, nessuna pausa, avanti e indietro per le strade e poi giù fino alla discarica. Di giovedì toccava al vetro e al cartone. C’erano due bidoni vicino ai gradini della chiesa, un’astronave di cemento dove nessuno andava a pregare. Si era avvicinato svelto, era stato allora che aveva visto Pamela. Se ne stava seduta senza far niente. Hai una sigaretta? Lui gliel’aveva data. Aveva bei capelli, gli era parso, un po’ troppo sporchi, forse, ma ricci e scuri come se ne vedevano di rado. Quelli come te possono scopare? Gli aveva chiesto. E lui era arrossito, perché non lo sapeva proprio. Aveva sollevato un bidone facendo finta di niente. Perché non la smetti di lavorare e andiamo a fare colazione, gli aveva detto e lui le aveva obbedito.
Al bar avevano ordinato due cornetti alla marmellata, un caffè e un bicchiere di acqua minerale. Pamela sorrideva e gli raccontava che avrebbe voluto sempre parlare a uno come lui – in fondo non gli sembrava mica diverso da un uomo vero – e che bisognava trovargli un nome adesso che erano amici. Per spazzare la strada gli era sempre bastato chiamarsi col numero della sua targa, invece secondo lei aveva un viso da Filippo. Pamela parlava in continuazione e Filippo, che del mondo conosceva soltanto l’immondizia, era rimasto ad ascoltarla volentieri.
Perché non mangi? Aveva chiesto lei ad un certo punto. E Filippo le aveva risposto che gli pareva di avere qualcosa dentro lo stomaco, si sentiva sazio anche se non aveva mangiato niente.

Ogni mattina Filippo usciva prima degli altri per finire il suo giro e poi cambiarsi la divisa, ne teneva una pulita sotto il sedile, la indossava prima di vedere Pamela. Lei lo aspettava sui gradini sempre alla stessa ora, qualche volta Filippo la guardava giocare con un mazzo di chiavi, qualche altra sbadigliare. Ciao, diceva Pamela, ho sonno, tu no? E lui scrollava la testa, perché il sonno non poteva sentirlo, andava a letto, si spegneva e poi basta. Pamela invece quando era stanca aveva gli occhi cerchiati di viola. Lui allora si faceva più vicino in modo che lei potesse dormigli addosso. Gli posava la testa sulla spalla e bisbigliava, che vita del cazzo. Qualche volta Pamela gli prendeva la mano, e allora Filippo sentiva che nello stomaco davvero c’era qualcosa di vivo, che ribolliva e cresceva come gli stagni in primavera.

Quando era tornato alla discarica si era precipitato nel suo stanzino. Aveva staccato il manuale di istruzioni che gli avevano cucito sulla schiena. Era andato a pagina 37, addome, stomaco. C’era scritto che il cibo poteva essere digerito in tre ore e quarantacinque minuti, che bisognava evitare di ingerire grandi quantità di noccioline carciofi e castagne, perché avrebbero provocato occlusioni dolorose. Che in caso di indigestione doveva bere 30 ml di detersivo per piatti e poi rimanere a digiuno per due giorni. Che in caso di carestia lo stomaco si sarebbe ristretto e sarebbero bastate due noci a dargli energie per una settimana. Che serviva una temperatura di 37,4 gradi per far dischiudere i bozzoli di papilio amoris, e che bisognava fare attenzione perché il corpo sarebbe diventato più vulnerabile. Filippo si era tastato le guance, aveva allacciato meglio le scarpe ed era uscito a cercare un termometro.

Ormai le farfalle gli riempivano lo stomaco e tutta la pancia. Quando pensava a Pamela svolazzavano allegre in giro per il corpo e siccome gli piaceva sentirsele dentro pensava a Pamela tutte le volte che poteva. Aveva comprato uno shampoo, si era rattoppato le divise, aveva appeso uno specchietto sopra il comodino. Non gli era mai importato di avere il viso identico a quello dei suoi colleghi, adesso invece non lo sopportava. Così con la penna si era disegnato una cicatrice vicino all’occhio destro e un neo sotto lo zigomo sinistro. Come sei affascinante! Gli aveva detto Pamela allargando le braccia e quando l’aveva stretto le farfalle erano impazzite e Filippo aveva avuto paura di morire.

I giorni erano diventati bellissimi. Ogni tanto passeggiavano verso l’inceneritore tenendosi a braccetto. Pamela camminava lenta e pregava Filippo di andar più piano, perché non gli stava dietro coi tacchi così alti, erano una sofferenza, poi con le gonne, figurarsi. Lui l’aspettava. Quando passava qualche auto capitava che salutasse le gambe di Pamela con due colpi di clacson, allora le farfalle dentro Filippo dallo stomaco volavano fino alle mani e rendevano le dita rabbiose, lui stringeva i pugni e se li metteva in tasca.

Il 30 settembre Pamela avrebbe compiuto ventiquattro anni. Filippo se l’era scritto sul calendario e aveva anche preparato un regalo: una lucertola d’argento che aveva trovato per sbaglio, aprendo un vecchio portagioie che qualcuno aveva buttato nel secco.
Ormai le farfalle erano talmente tante da farlo stare male. Finito il lavoro, invece di spegnersi rimaneva a guardare quello che succedeva fuori dalla finestra, sperava di vedere due innamorati per imparare da loro come comportarsi. Camminava per i corridoi avanti e indietro. Ogni tanto saltava la recinzione e correva fino al centro commerciale. Il dottore aveva voluto visitarlo, si era sparsa la voce tra le creature della discarica che si poteva anche essere diversi. I suoi capi gli avevano concesso un giorno di riposo. Filippo li aveva ringraziati, ma l’avrebbe speso a fine mese, perché voleva fare una sorpresa a Pamela portandola al mare. Lui il mare non l’aveva mai visto, gli avevano raccontato che era una distesa di acqua viva, che cambiava colore con l’umore del cielo.

L’estate era stata soffiata via da un vento freddo, che aveva fatto tremare i rami prima del solito. Filippo era arrivato ai gradini della chiesa in anticipo, senza divisa, con una camicia e un paio di jeans che aveva trovato nei sacchi da mandare alle missioni. Aveva impacchettato la lucertola con la stagnola e rubato un mazzo di garofani al cimitero. Aspettava Pamela respirando a fatica, le farfalle gli tappavano lo stomaco e salivano fino in gola. Intanto la notte diventava sempre più lieve, così le ombre si facevano sincere. Erano comparsi un gatto vicino a una betoniera e due biciclette legate al cancello di un palazzo scrostato. Era stato allora che aveva intravisto l’auto dietro il pino, dove non arrivava la luce dei lampioni. C’erano Pamela e un uomo brutto, che le premeva le mani sul corpo e la stropicciava ingordo. Lei muoveva i capelli sussultando. Li aveva guardati sbalordito come i bambini coi documentari dei leoni. Quando Pamela si era infilata la maglietta e l’uomo aveva tirato fuori il portafogli, Filippo aveva sentito un’onda salirgli dentro l’esofago. Pamela era scesa dall’auto, si era sistemata la gonna e si era accesa una sigaretta. Filippo le era andato incontro, aveva il trucco sciolto che la faceva sembrare ancora più stanca, ma com’era bella tutta sgualcita. È il mio lavoro, gli aveva detto sputando il fumo. Lui non ci aveva mica badato perché, era sicuro, presto sarebbe esploso. Gli aveva teso il mazzo di fiori con le ultime forze, lei aveva strappato la testa di un garofano e se l’era sistemata dietro l’orecchio, sei così buono, tu. Filippo tremava. Si era preparato un discorso leggendo le cartacce dei Baci Perugina e adesso non riusciva più a ricordarselo. Aveva preso fiato, si era grattato il gomito: era pronto a morire.
E invece quando aveva aperto la bocca una nuvola di farfalle era uscita al posto delle parole. Ce n’erano di rosa, bianche e azzurre. Erano fiorite intorno a Pamela ed erano salite verso il cielo. Pamela rideva e rideva anche Filippo. Si erano tenuti le mani guardando com’era bello tutto quell’amore gentile che volava dentro il mattino.