L’area fieristica di Roma

Occhi – Frankenstein 7


Nonna aveva occhi infossati come caverne, al riparo della sua orbita riposavano uomini preistorici dopo una giornata di caccia e un timido falò riusciva a proiettare ombre grandiose sulla roccia curva. Pitture rupestri di vene raccontavano storie di tribù e duelli. Quando la notte respirava tra gli alberi, gli uomini stavano con un orecchio nel vento e l’altro addormentato, le spalle protette fino al mattino dalla cavità oculare. Le iridi invece erano gelatinose e piccole, di un marrone ratto senza nessuno slancio, non succedeva mai niente lì attorno e non era rimasto vivo nessuno che potesse ricordare se fossero mai stati specchi d’acqua e, nel caso, cosa ci fosse stato nel fondo: soltanto, lei ti guardava nello spazio di una fessura tanto stretta che pensavi si sarebbe riattaccata al successivo battito di ciglia.
Era molto vecchia, in ogni stagione della tua vita è stata sempre vecchissima e nelle foto gialline dei compleanni dei tuoi cugini grandi, compleanni di quando non eri nemmeno nata, già allora era la più vecchia e altri bambini sceneggiavano avventure sulle sue palpebre.
Un giorno ti telefona ma hai i sacchetti della spesa in mano e non rispondi. La richiamerò poi, pensi. Poi rientri a casa, saluti il tuo fidanzato, vi raccontate quanto siete stanchi, fate l’amore, preparate la cena, non la richiami. Te ne ricordi due giorni dopo, mentre sei in ufficio, imposti una sveglia per quando sarai fuori, tutto riesce alla perfezione, risponde al quinto squillo. Ti premi il cellulare forte contro l’orecchio perché i motorini che ti sfrecciano accanto coprono quello che dice e quello che pensi. Dopo cinque minuti riattacchi, tu hai detto solo ciao verso la fine, nel mezzo praticamente niente, ha fatto tutto lei.
Non hai ben capito, ci ripensi tutta la sera e a letto fai una veloce ricerca su Maps, poi decidi di addormentarti.
Fai le cose importanti e le cose inutili di tutti i giorni. Te ne dimentichi per qualche settimana, finché scopri che anche tuo fratello e tuo padre hanno ricevuto la stessa telefonata. Ha sempre detestato tua madre.
Un sabato mattina vi incontrate in centro per discuterne, vi sedete ai tavolini di un bar.
Nonna vuole essere portata in un posto specifico della città, tra via Crispi e piazza Amedeo. A te ha detto sulla destra, agli altri ha detto sulla sinistra, comunque a nessuno di voi tre ha indicato il nome preciso di una strada ma soltanto quelli che sembrano i confini di un’area. Si guardano tra loro per qualche secondo, poi è il tuo turno: si voltano insieme verso di te e tu ti infili gli occhiali da sole. Non sai esattamente cosa dire, questo incontro ti sembra stranamente illecito ma non puoi dirlo: fai rumore col cucchiaino nella tazzina di caffè, la sollevi usandola come intercalare, per riempire il vuoto che stai generando. La porti alla bocca ma l’hai bevuto d’un fiato quando te l’hanno portato. Rimesti i fondi.
Perché vuole andarci? C’è qualcosa lì? chiede tuo fratello.
Cercano ancora per qualche secondo di agganciare il tuo sguardo, estorcerti un’opinione. Tuo padre ti sembra spazientito, o forse no, sollevi ancora la tazzina vuota verso la bocca e smette di guardarti. Tuo padre dice, È del tutto incoerente con l’albero genealogico.
Nell’ultimo anno e mezzo ha ricostruito la storia di ogni membro della famiglia, tronchi grossi rami foglioline, in alcuni casi scrivendo delle appendici di anche dieci pagine su figure meritevoli, ad esempio un prozio che aveva avuto sei mogli e una trisavola nativa di Ceppaloni (BN), prima donna del paese a laurearsi farmacista. Ebbene, non c’è niente tra via Crispi e Piazza Amedeo, né a sinistra né a destra, nessuno ha mai abitato lì, nemmeno per poco. È deciso, non c’è niente, conclude tuo padre. Tuo fratello pure s’è convinto, bevono in sincro l’ultimo sorso di caffè. Tocca ancora a te, ti guardano: il cameriere s’è portato via la tua tazzina da un pezzo, così annuisci e dai un colpetto con le dita al tavolino.
Quella notte non riesci a dormire e il tuo fidanzato dice, Dovresti andare a trovarla, ma ricomincia a russare sull’ultima vocale, non sei sicura fosse veramente cosciente. Comunque è domenica già da qualche ora, farà giorno presto, non hai altri programmi.
Le porti un vassoio di prussiane mignon ben incartate, con un nastro dorato in cima. Ti bacia sul collo, tra orecchio e spalla. Odora di borotalco e cassetti chiusi. Le pianti uno sguardo in mezzo alla faccia: all’ombra sicura delle sue orbite uno pterodattilo ha deposto le uova e plana via sulla pianura. Tutto procede come sempre.
Prendi fiato e questa volta parli praticamente soltanto tu. Per quindici minuti buoni le chiedi per favore di dirti cosa c’è lì tra via Crispi e piazza Amedeo sulla sinistra o sulla destra, deve dirtelo perché altrimenti non ce la porteranno mai, eri presente e papà ha tirato in mezzo l’albero genealogico e ha detto che questa richiesta non è coerente, lo sa com’è fatto papà.
Ti verrebbe quasi da dire che la nonna è stizzita, per una tensione che noti nella linea delle spalle. Ancora: ha mordicchiato un pezzetto minuscolo di prussiana ma ha rimesso il resto nel vassoio e con il polpastrello porta delle briciole di sfoglia in giro per la tovaglia. Prepara il caffè, sposta la sedia, stira con le mani una presina fatta all’uncinetto e continui a pregarla e poi continui mentre fa sciogliere lo zucchero nella tazzina a colpi secchi di cucchiaino, mentre ti bacia dall’altro lato del collo, mentre ti accompagna sul pianerottolo. In piedi sullo zerbino guardi la porta: non hai concluso niente. Lo dici ad alta voce, Non hai concluso proprio niente.

Per tre sere consecutive, dopo il lavoro, vai tra via Crispi e piazza Amedeo sia a sinistra che a destra. C’è un pezzo di strada, delle scale, alcuni portoni di legno chiusi, certe fioriere di cemento, normali lampioni, altra strada, li guardi uno a uno per capire, li suddividi in centimetri. L’inclinazione del sole rivela l’interno degli appartamenti, rimani ferma al centro del marciapiede a fissare le listarelle di tutte le veneziane di un palazzo di cinque piani. Torni a casa quando è buio.

Poi questa storia deve finire e allo scopo tuo padre organizza un pranzo domenicale di guerra.
Quando arrivi, nonna e mamma sono in cucina a ignorarsi. Dai un bacio a entrambe, il tuo fidanzato ti imita. Chiedete se potete rendervi utili e mentre porti la brocca d’acqua in tavola, papà ti chiama dal terrazzo. Segui la voce controluce. Il tuo fidanzato ti stringe un poco la spalla prima di lasciare la presa.
Quando arriva il momento vi stringete attorno alla nonna. Papà inizia, Allora mamma cosa c’è lì? Ci stai spaventando ma vogliamo aiutarti, aiutaci ad aiutarti. È evidente che la nonna non creda alle sue orecchie, però non cedete, Forza nonna basta dirlo e ti ci portiamo, continua tuo fratello e la nonna guarda te, non sei sicura se perché l’hai in qualche modo avvisata, la domenica delle prussiane, di quello che sarebbe accaduto, o se perché non ti vede diversa dagli altri, o se perché vuole una mano, non sai niente e non sai fare niente. Non c’è niente lì, niente, perché dovresti voler andare dove non c’è niente? Solo palazzi come ce ne sono ovunque! tuo padre si è alzato a prendere l’albero genealogico e gli approfondimenti come volesse dimostrare una tesi. E mentre tutti in qualche modo si spostano per fargli spazio, e mentre mamma prende il suo telefono e va in cucina, e mentre il tuo fidanzato fa passi incerti sul posto nell’angolo più lontano della stanza, tu approfitti della distrazione generale per avvicinarti a lei e sussurrarle, Che ti costa? Lo sai che è l’unico modo, e le accarezzi un poco il dorso della mano pensando sia una buona idea o semplicemente perché ti va, ma lei la ritira e se la mette sotto l’altra in grembo, ti guarda un’ultima volta poi si gira dall’altra parte e non dice più niente.
Non dice più niente davanti all’albero genealogico, agli schermi aperti su Maps, alle ricostruzioni, alle richieste di conferma, alle richieste di smentita, alle insinuazioni circa il suo stato di salute, ai ricordi confusi.
Tua madre torna con una tazza di camomilla. La nonna non se l’aspettava, sorride in segno di ringraziamento. Poi dice, Avete ragione voi.
Tuo padre e tuo fratello smettono di gridarle addosso. Si guardano e hai l’impressione che si stringerebbero la mano per congratularsi di come hanno condotto la delicata trattativa per la ragionevolezza.
Nonna continua a bere la sua camomilla, tu stai per un po’ con la mano dove stava la sua. Nella profondità della roccia, negli anfratti bui, tra le pareti sicure e fredde non vedi più nessuno, solo pelle rugosa e sottile come carta velina che al minimo movimento ti sembra di sentirne il rumore da qui.

Poi smette di chiedere qualsiasi cosa. Non sai se hai sbagliato o se non potevi fare altrimenti, non sai niente. Papà scrive la seconda data che sta sotto ai nomi di tutti i morti. È triste ma ti sembra anche soddisfatto come lo sono i maniaci dell’ordine: ogni cosa al suo posto.
Mesi dopo ti tocca dirgli di cancellare il nome del tuo fidanzato, che era stato scritto a matita come i fidanzati meritano, non importa che convivano, solo il matrimonio ti premia con l’inchiostro indelebile e ti eri molto risentita di questo, ma come dargli torto visto il finale.
Fai le cose importanti e inutili di tutti i giorni, solo più lentamente perché le ore sono sempre le stesse ma gli impegni dimezzati. Non torni a casa dai tuoi, sarebbe impensabile, però rimani in un guscio vuoto. Pure questo sembrava impensabile e sta succedendo.
Una notte stai al di qua del vetro, accucciata sul davanzale profondo del salotto e pensi all’area fieristica di Roma. Il tuo fidanzato scritto a matita ti ci aveva accompagnata qualche anno fa per tentare la prima selezione a un concorso pubblico. In piedi in mezzo al parcheggio ti eri dovuta poggiare qualche istante al cofano dell’auto: c’erano persone e cemento fino all’orizzonte, le piante infestanti spaccavano l’asfalto e si avvinghiavano ai pali dell’illuminazione e ai gabbiotti della sicurezza mezzo sfasciati. Al momento di entrare avevi lasciato la borsa e il telefono a lui, per evitare le code, e vi eravate dati appuntamento in un determinato punto. Ti eri inoltrata in un tunnel di plastica annerita dal sole.
Avevi pensato, Non lo ritrovo più.
Molte ore dopo, mentre guadagnavi l’uscita, t’aveva preso il panico perché c’erano migliaia di persone ai cancelli, i clacson più in là, i parcheggiatori che urlavano, era impossibile riconoscere una faccia specifica, una camicia familiare, un colore singolo nel tubicino del caleidoscopio. Chissà se eri poi davvero uscita lì dove eri entrata, avevi perso l’orientamento, avevi detto disperata ad alta voce, Non lo ritrovo più. E sull’ultima sillaba la sua mano era comparsa dal nulla, per stringerti un polso e condurti via. Gli avevi detto incredula, Mi hai trovato, e lui ti aveva detto, Certo ti trovo sempre.
Sul davanzale buio, col mento nelle ginocchia, ti viene in mente l’area fieristica di Roma, a quanto è bella con tutto quel cemento, è il posto più felice della Terra, vorresti tornarci proprio adesso per rivederti il polso con la sua mano attorno e poi, come fosse lo stesso pensiero, chi lo sa cosa ci vedeva nonna in quei centimetri di strada, in quei portoni.