Orecchie – Frankenstein 2
Quando sono nato non ho pianto, ho risparmiato il fiato per respirare. In acqua tutto è ovattato, tutto si sposta senza produrre rumore in un silenzio naturale. Il silenzio delle cose solide mi ha sempre spaventato; so che c’è, non mi sono mai abituato a non sentirlo. Sono sordo dalla nascita. Nessuno intorno a me lo era, nessuno si è accorto di quello che non avevo, almeno fino a quando non ha tolto qualcosa anche a loro: il dialogo, l’obbedienza, la tranquillità. Non è stata incuria, direi piuttosto disattenzione dovuta a sopravvivenza temporale: mio padre da un mobbing che sfociò in un trasferimento all’estero, che non rifiutò come tutti si aspettavano; mia madre da una depressione post parto dalla quale, paradossalmente, guarì quando diagnosticarono la mia sordità. I primi mesi ero un bambino modello, mangiavo, dormivo; dopo quindici giorni ronfavo sei ore filate tra una poppata e l’altra. Non soffrivo di coliche, piangevo solo quando avevo fame o avevo il pannolino pieno di merda, il che succedeva spesso, dato che mia madre era troppo immersa nella sua per accorgersi della mia. Quando avevo tre mesi mio padre fu trasferito a Dublino. Inizialmente andò solo: non sapeva cosa sarebbe successo una volta sbarcato in Irlanda e, soprattutto, se avrebbe resistito. Trovò, invece, un ambiente ospitale, perfino solidale. Chissà come sapevano: fecero gruppo intorno a lui, lo supportarono al punto che dopo otto mesi passò dal libro nero alla dirigenza. A quel punto ci trasferimmo tutti. Arrivammo poco prima del mio primo compleanno, ero un bambino molto sveglio e, poiché tutti mi facevano le faccine e sorridevano, sorridevo anch’io. Attribuirono il mio ritardo nel linguaggio al fatto che c’eravamo trasferiti in un paese straniero, dissero che era normale. Attribuirono il fatto che non mi voltavo quando mi chiamavano al trauma del cambiamento, la condizione di mia madre, soprattutto quest’ultima. Ci credettero al punto da annullare gli altri segnali. Ci credette anche lei, ogni volta che mi cambiava i pannolini senza fare alcuna moina, ogni volta che mi nutriva senza caricare la pappa su aeroplanini e trenini volanti. Per anni si è incolpata di tutto, per com’ero e per chi non sarei mai stato. Attribuirono il primo incidente al fatto che ero molto distratto, avevo da poco passato i trenta mesi, lentamente mi ero tirato in piedi e avevo iniziato a camminare ma sfuggivo alla stretta di chiunque come un’anguilla elettrizzata. Sgusciai dalle braccia di mio padre mentre mi stava alzando da terra, picchiai fronte, naso e bocca sull’asfalto, centinaia di squame rosse si staccarono dalla mia pelle. Al mio terzo anno tornammo in Italia, giusto una settimana prima che iniziasse la materna. Il secondo giorno di scuola convocarono i miei. L’incontro fu paradossale: le maestre li incolparono di aver nascosto la mia sordità, i miei, a loro volta, urlavano perché mi stavano offendendo. Alla fine, mi ritirarono dalla scuola, accusarono le maestre di essere delle incompetenti e mi tennero a casa. La rabbia era troppa, iniziare a fare gli accertamenti avrebbe comportato dar ragione alle maestre e attribuirsi una condanna di colpa per incuria e disattenzione, così passarono altri mesi. La mamma mi portava al parchetto, controllava come mi muovevo, sembrava essersi improvvisamente accorta che esistevo. Io saltavo e correvo ovunque, ero un bambino nervoso. Mi distraevo spesso, ma soprattutto sembravo incurante del pericolo. Andavo incontro al pallone di faccia, cercavano di avvisarmi quando arrivava troppo forte o mirava alla testa, ma io non mi bloccavo, non mi giravo, non scappavo. Non sentivo le urla, gli avvisi, le raccomandazioni, finii di nuovo sotto una macchina, avevo lasciato la mano di mia madre prima che lei potesse sentirne il vuoto ed ero corso in mezzo alla strada per recuperare il pallone. Con lo sguardo fisso sulla palla, non vidi l’auto, né la sentii arrivare, non sentii il clacson suonare, l’urlo della donna al volante come quello delle persone che corsero verso di me come api sul miele. Non ricordo niente: quando mi svegliai in ospedale, avevo delle bende che mi fasciavano gambe e braccia, cerotti su fronte e mani. Il giorno in cui mi dimisero le ferite suturate furono lasciate scoperte, potei vedere la lunghezza dei tagli e l’entità dei punti. La pelle era rossastra, virava all’arancione e si sollevava leggermente vicino agli estremi dei tagli. «Sembrano branchie» mi aveva detto mia madre lentamente, facendo scorrere le dita a zig zag sopra le ferite. Io non capivo, non capivo quando mi chiamava Il mio pesce rosso, avevo il livello cognitivo di un neonato nel corpo di un bambino. Quando in là negli anni mia madre me lo aveva raccontato, ricordo le dissi «è incredibile, sai, perché io davvero mi ci sono sempre sentito, un pesce, un pesce dentro un acquario grande come il mondo». Guardavo gli altri muovere la bocca senza che uscisse niente, senza che io sentissi niente. Tutti i rumori arrivavano lontani, filtrati dal vetro o dal volume dell’acqua, seguivo tutto con occhi spalancati ma, dopo un po’, la pressione premeva sulle tempie, nelle orecchie, stabilendo una distanza che mi ha accompagnato in ogni istante, come se il mondo fosse stato racchiuso in un’enorme bolla di cotone, che rimaneva anche quando tutti smettevano di soffiare.
L’incidente fu il secchio d’acqua gelata sul viso addormentato dei miei. Iniziarono gli esami. La diagnosi fu immediata.
«Vostro figlio ha un’ipoacusia neurosensoriale bilaterale profonda», disse il primario passando dagli occhi di mio padre a quelli di mia madre senza trovare entrambi. «Fortunatamente per il suo tipo di sordità, oggi, esistono delle soluzioni che solo alcuni anni fa erano impensabili, ma non illudetevi, arriviamo tardi».
«Ma quindi non guarirà?», chiese mia madre con una calma che non le apparteneva.
«La sordità non è un handicap reversibile, signora», sembrava un po’ spazientito «il bambino è rimasto troppo tempo senza sentire, potrebbero esserci dei problemi, questo intervento solitamente è fatto entro il primo anno di vita».
«Che tipo di problemi?», lo interruppe mio padre.
«Ritardo cognitivo, difficoltà di linguaggio, depressione, aggressività, iperattività, solo per dirne alcune. Vostro figlio è rimasto isolato e, in età evolutiva, questo può comportare complicazioni gravi».
«Ma con le protesi recupererà?».
«Non possiamo dirlo con certezza. Ma non sono protesi, si chiama impianto cocleare. Immaginate un orecchio bionico composto di due parti: un processore esterno che raccoglie i suoni e li trasmette al cervello attraverso una coclea artificiale che sta dentro. A vostro figlio ne serviranno due, uno per ciascun orecchio».
«Quindi, dovrà essere operato?», mia madre aveva spinto la sedia indietro alzandosi di colpo in piedi.
«Sì, è un intervento molto delicato, ma è l’unica strada percorribile se non volete che vostro figlio da grande si ritrovi a vendere accendini nei bar».
Per anni la mamma mi raccontò come andò: le domande, i dubbi, le mancate risposte. Seguirono giorni di tormento, poi si decisero per l’intervento. Avrei avuto due chiocciole esterne che aderivano alla testa grazie a una placca sottocutanea. «Sarai il mio pesce lumaca», disse mia madre. Tecnicamente andò tutto bene, dopo un mese l’impianto fu attivato. Conservo ancora il filmino di quel giorno, erano tutti emozionati. Credettero piangessi perché sentivo la voce di mia madre per la prima volta. Non volevo deluderli e anche adesso, a distanza di anni non gliel’ho mai detto. Quello che sentii fu orrendo, non era un suono, non era una voce, era un rumore insopportabile. Fu quella l’unica ragione per cui piansi: la paura di non poter tornare al silenzio di prima. La riabilitazione durò anni. Mia madre mi aiutava come poteva, ma era leggera nel metodo, dei risultati non le importava. Aveva anni di anaffettività da recuperare e, adesso che aveva scoperto che anch’io difettavo in qualcosa, pareggiare le sembrò più semplice.
Alle ore di logopedia e riabilitazione cognitiva si affiancarono quelle per le mappe. Su consiglio del neuropsichiatra i mappaggi vennero programmati con la metà delle frequenze abituali. Bisognava procedere lentamente, inserire le gamme sonore gradualmente.
Mi misero un vibratore sternale, serviva, dissero, per vedere se recuperavo la provenienza del suono. Non servì. Non ho mai capito da dove arrivano i rumori. Ancora oggi, se qualcuno mi chiama, vado nell’ultimo posto, dove l’ho visto, non dove realmente si trova; per strada non so riconoscere il lato dal quale arrivano le macchine. Se sono in uno spazio molto affollato poi, i suoni mi arrivano tutti insieme, non distinguo le voci vicine da quelle lontane, negli ambienti chiusi i suoni rimbalzano su ogni superficie cambiandone intensità e direzione. È un miracolo se non sono diventato pazzo. Le scuole sono state difficili, ho avuto l’insegnante di sostegno fino alle superiori ma ricordo ancora le ore in mensa e quelle dell’intervallo come un incubo senza fine. I compagni mi urlavano frasi da lontano, mi rubavano le batterie dallo zaino, mi avvicinavano calamite alle chiocciole per staccarmele dalla testa. Nonostante l’impianto tendevo ad isolarmi, approfittavo di ogni secondo libero per disegnare pesci con un guscio di lumaca sulla schiena, una chiocciola. Ero io, era la mia firma, il mio timbro di riconoscimento. Fuori da scuola andava meglio, avevo i miei amici, uno in particolare vicino di casa con il quale passavo i pomeriggi dopo la scuola che mi adorava. «Tu non ti rendi conto, sai» mi diceva «della fortuna che hai. Con tutta la gente idiota che spara cazzate in giro, puoi decidere di non sentirla». Ridevamo.
Finite le superiori non volli andare all’università, ne avevo avuto abbastanza. Iniziai a lavorare da subito. Le aziende avevano degli sgravi fiscali ad assumermi ed io ne approfittai. Diventai un operaio metalmeccanico specializzato, un camionista, un operatore aeroportuale, diventai tutto quello che gli altri non volevano per paura di scoprirsi, negli anni, sordi. Continuavo a disegnare pesci lumaca stilizzati su fogli volanti, sui tovaglioli della sala mensa in fabbrica, sul retro dei biglietti dell’autostrada.
Per il mio quinto compleanno mi avevano regalato un volante con la ventosa. Faticavo ad addormentarmi da quando avevo l’impianto, «lo deve tenere sempre, non è che quando andiamo a dormire appoggiamo le orecchie sul comodino», aveva detto il primario ai miei a sottolineare che il nervo uditivo andava sollecitato in continuazione. Le notti in cui mi sembrava di dormire con la testa appoggiata su un amplificatore prendevo il mio volante e andavo in bagno. Addossata alla parete di fondo c’era una vasca per entrare nella quale bisognava salire tre scalini, poco sopra, un’enorme finestra si affacciava sulla curva della tangenziale. Senza accendere la luce mi sedevo sul bordo della vasca e attaccavo il volante sulle piastrelle del muro sotto la finestra dopo aver spalancato il vetro. Al buio, vedevo le luci delle auto arrivare in curva, sentivo il fascio di luce illuminarmi il viso, quando il vento tirava dalla parte giusta, il rombo dei motori arrivava più forte e, alla guida di un tir, c’ero per davvero. Fu una delle mie salvezze, promisi a me stesso che alla fine, con il culo sopra un camion, ci sarei stato ad ogni costo. Feci l’autotrasportatore per più di cinque anni poi mi stancai. Mi mancava qualcosa. A pensarci bene mi mancava da sempre.
Iniziai a lavorare come operaio in un’azienda metalmeccanica. Dopo poco mi affiancarono ad un operario specializzato. Dicevano che al tornio ero bravo, la filettatura era la mia specialità. Quando il rumore diventava pesante da sopportare, toglievo l’impianto, diventavo ancora più preciso e veloce, come se gli occhi e le mani compensassero i vuoti di rumore.
«Le ore in fabbrica ti lasciano addosso una patina opaca, un umore spento», mi diceva mia madre ogni domenica quando andavo a pranzo da loro. «Dovresti lavarlo via». Di tutte le sue qualità quella di pescare il verbo giusto, è quella che ho sempre ammirato. Tornato a casa avevo fatto una doccia, mi ero fermato più del solito a guardarmi allo specchio. Avevo osservato i capelli, grigi nonostante avessi appena passato i trent’anni, gli occhi secchi, avevo visto la pelle increspata vicino alle vecchie cicatrici, ne avevo ammirato le diverse gradazioni di colore. Avevo visto una persona che non riconoscevo nell’uomo che pensavo di essere. L’indomani mi ero iscritto in piscina, corsia libera.
Quando ero piccolo mia madre aveva pagato un istruttore dedicato per farmi fare delle lezioni individuali di nuoto. Era impensabile che facessi un corso base con altri bambini senza sentire le istruzioni del maestro, i processori esterni non sono impermeabili e in acqua devono essere tolti. Si erano accordati per un pacchetto di dieci lezioni propedeutiche al corso base collettivo, ne bastarono tre. L’istruttore era incredulo, «non mi era mai successo», disse, «di avere un bambino che seguisse così bene le mie indicazioni. Suo figlio è un pesce».
Tutte le sere, appena esco dalla fabbrica vado in piscina. Mi spoglio, piego i vestiti con cura dentro l’armadietto, indosso il costume, l’accappatoio, le ciabatte. Quando sono pronto preparo i kit acqua per l’impianto cocleare. Li ho comprati online direttamente dal produttore in Australia, mi sono costati un rene. Infilo i processori dentro una guaina, sostituisco i cavi e le chiocciole con quelli impermeabili che aderiscono alla guaina sigillandola. Indosso gli impianti, metto la cuffia di cotone e mi dirigo verso la vasca olimpionica. Salgo sul trampolino, fletto le gambe e allungo le braccia in alto fino a quando sento i tricipiti aderire alle chiocciole, poi, spingo sui piedi e mi tuffo. L’impatto con l’acqua è indescrivibile, sentirla, non solo con la pelle, è qualcosa che mi è sempre mancato e a cui, credo, non mi abituerò mai. Se dovessi descrivere la felicità direi che è questo: il suono dell’acqua che mi entra nel cervello e riempie vuoti, colma ogni mancanza e mi culla. E non c’è nessun altro posto dove vorrei essere e non c’è nessun altro suono che vorrei sentire. Il mondo riprende consistenza e io non sono più solo il contorno di me stesso. Quando esco dalla piscina, prendo il blocco dove ho disegnato i pesci lumaca e li riempio di colori.