Sono una persona ordinata. Mi piace che le cose stiano al loro posto. Il sei sta dopo il cinque. Le scarpe stanno nella scarpiera. La vita è un susseguirsi di passi. Elementari, medie, superiori. Università, lavoro, matrimonio. Viaggi in coppia, figli, casa. Viaggi in famiglia, routine, felicità.
È il procedere delle stagioni che si riproduce nel quotidiano, la prevedibilità che riordina il caos.
È il garage in cui entro con due manovre, lo scricchiolio delle ruote sul cemento levigato, il ronzio ovattato dell’ascensore, il vociare confuso dei cartoni animati che passa attraverso porta. È il bacio di Simona, il saluto distratto di Matteo. È lo sciacquone del bagno, l’acqua del lavandino, il sapone alla lavanda.
È lo specchio opaco di condensa. È la mia immagine riflessa, che si liquefa.
Sono i miei occhi che piangono lacrime che non avevo mai conosciuto e le mie mani che cercano la ventola aspiraodori: che almeno lei sappia nascondere i miei singhiozzi. È il torace che sussulta, è il mio corpo che si piega sulle ginocchia, sono le dita che si attorcigliano dietro la testa. È il peso che si sbilancia e mi fa sedere a terra, fra il muro e la lavatrice.
Vedo la mia storia con una memoria ipovedente.
Il giorno del mio matrimonio, il coro che canta Wind of Change, l’istante esatto in cui sibilo il mio sì. Le lacrime di Simona che mi dicono «Avremo un bambino». La coperta ruvida che avvolge Matteo appena nato.
Ripercorro quegli istanti alla ricerca del filo rosso che li tiene assieme.
“È vero tutto questo?”.
C’è stato un tempo in cui le cose mi erano chiare. Capivo gli schemi che mi circondavano e sapevo muovermici dentro.
L’educazione richiede fermezza e comprensione.
L’essere umano deve essere coerente.
La coppia è un concerto di reciproco sostegno.
Mettevo ordine al mondo e mi comportavo di conseguenza. Simona era la mia aiutante e Matteo era il futuro che dovevamo plasmare.
Io ero la loro bussola.
“Ma cosa te ne fai di una bussola smagnetizzata?”, mi chiedo. “La tieni, o la schiacci più forte che puoi sotto i tacchi duri dei tuoi scarponi da montagna?”.
Impostai il navigatore in direzione Località Monte Lefre, 38059 Ivano-Fracena TN.
Era il regalo per il mio trentacinquesimo compleanno. Un week-end in montagna per il miglior marito e papà del mondo. Il biglietto era scritto coi pastelli e ogni lettera aveva un colore diverso.
Durante le due ore di viaggio cantammo, parlammo, Matteo dormì anche. Simona mi informò che una coppia di amici si stava separando e, di comune accordo, concludemmo che, se si vuole stare assieme, bisogna impegnarsi.
Quella notte facemmo l’amore. Nascosti sotto le coperte, silenziosi, con un orecchio teso ad accertarci che il respiro di Matteo fosse profondo da sonno. Le cercavo gli occhi eccitati nel buio e le tenevo la mano sulla bocca. Le sue labbra mi bagnavano le dita. E alla fine ci rivestimmo e ci addormentammo abbracciati.
La mattina dopo ci svegliammo al primo richiamo della sveglia. I miei scarponcini, parte del regalo di Simona, erano rigidi sulla caviglia, ma non le dissi nulla, non avrei mai potuto.
Durante la colazione, il gestore dell’albergo ci disegnò sulla cartina un percorso morbido, che ci avrebbe portati a una splendida vista.
«Quello strapiombo toglie il fiato», commentò.
Spiegai a Matteo i funghi, fingendomi esperto, e raccogliemmo dei fiori che gli feci consegnare a Simona. Mangiammo i panini prosciutto e formaggio sotto un abete sul ciglio del sentiero. Intravedemmo nel bosco un cervo, ma non riuscimmo a immortalarlo.
Non ci volle molto per arrivare al punto panoramico.
Presi Matteo in braccio e gli descrissi i monti che ci circondavano.
Poi furono le mie labbra a muoversi.
«Mettetevi vicino al parapetto, vi faccio una fotografia.»
Estrassi dal marsupio la macchina fotografica compatta.
Simona prese fra le braccia Matteo e si appoggiò alla ringhiera di metallo.
Il sole era alto nel cielo primo pomeridiano. Alcuni uccelli che non saprei riconoscere volteggiavano poco lontani. Un gruppo di turisti parlava in tedesco e banchettava su una tovaglia a quadri stesa a terra.
«Pronti?»
Loro erano pronti. La macchina aveva messo a fuoco. Il mondo era in posa.
“Adesso corro lì e li spingo giù”.
Sette parole. L’immagine dei loro corpi che capitombolano lungo la scarpata e i miei occhi che osservano attoniti e soddisfatti.
“Adesso corro lì e li spingo giù”.
Mentre tenevo il braccio sinistro alto sopra la testa per fare l’uccellino che Matteo avrebbe dovuto guardare. Mentre sentivo il respiro che si spezzava e non trovavo il dolore che avrei dovuto provare.
“Non l’ho pensato veramente”.
Mentre la scena della loro caduta si riproponeva a rotazione continua.
«L’hai fatta?»
Fu la voce di Simona a riportarmi al mondo.
Click.
«Ne faccio un’altra.»
Click.
“Che stupido pensiero insignificante”, sorrisi fra me e me.
Fu così che riuscii a vivere il resto del week-end, a selezionare e stampare le fotografie, a riordinarle nell’album Trentino2017.
Ma il pensiero non ci mise molto a ritornare.
Ero sotto la doccia. Simona, seduta sul water, mi raccontava di un amico che aveva perso il lavoro. Era così dispiaciuta.
«Lo trovo proprio ingiusto. Era appassionato del suo lavoro. Perché mai licenziarlo? Alla nostra età, uno inizia ad avere bisogno di punti stabili».
La sua voce era una litania senza fiato. I rumori di Matteo, dal salotto, erano tamburi di una processione per l’inferno.
“Adesso corro lì e li spingo giù”.
E poi: “Cosa volete da me? Lasciatemi stare!”.
E poi: “Vi prego, non ve ne andate”.
«Sono certo saprà reagire», dissi.
«Come?».
«Non ci sono solo rose e fiori nella vita.»
Poi fu tutto in discesa. Il pensiero e i suoi corollari si sarebbero presto dilatati in ogni angolo delle mie giornate.
In auto fermo al semaforo, al lavoro, durante le cene, durante i pranzi, al supermercato, all’autolavaggio, dal pediatra, dal barbiere.
“Che uomo può pensare una cosa simile?”.
“Lo farei veramente?”.
“Sono così debole da farmi spaventare da un pensiero?”.
“Chi sono diventato?”.
Oppure mi aggrappavo a quelle massime che mi erano sempre state tanto care.
“Il tempo mi farà dimenticare”, mi dicevo.
Ma il tempo non cancella. Il tempo raschia, arrugginisce ed erode: come l’umidità indebolisce i gangli di una diga di ferro, finché tutta l’acqua è libera di inondare la vallata inerme.
E dio sa se ci provai a tenerla in piedi quella diga.
“Io amo la mia famiglia”.
Provai con i fiori per Simona: rose, gigli, lillà, orchidee, tulipani arancioni, tulipani viola, tulipani striati, tulipani grigi, tulipani neri. Poi fu il turno delle giornate al parco con Matteo, quando lo osservavo giocare nella sabbionaia, e ogni risata era un grido che mi rimbombava nel petto. Poi i viaggi, le serate fuori, le passeggiate domenicali.
Ogni tentativo era una constatazione di impotenza.
Le immagini dei loro corpi si riproponevano indifferenti, assieme al mio desiderio che fosse tutto finto e tutto vero.
Cos’era quel senso di libertà che mi invadeva le ossa?
“Io. Amo. La. Mia. Famiglia”.
Fissai pure un appuntamento con una psicologa. Al telefono le anticipai che volevo parlare di alcune cose che non mi quadravano più.
«Certo», mi rispose lei. «Quando ci vediamo?».
Non mi presentai. Raggiunsi lo studio e rimasi seduto nell’auto parcheggiata.
“Vorrai scherzare!”, mi dicevano i pensieri. “Sai cosa succede se dici qualcosa ad alta voce?”
Rimasi seduto al posto di guida per tutta l’ora del colloquio. Vidi il sangue uscire dalle ferite di Matteo. Sentii le grida di Simona.
“Adesso corro lì e li spingo giù”.
Ogni ripetizione era uguale. Ogni ripetizione era più vivida e precisa.
Ingranai la prima e tornai a casa.
Bestia strana l’insonnia. Ti cambia i connotati dei ragionamenti. La luce rabbuia e l’oscurità è un faro accusatorio dritto in faccia.
Sguscio fuori dal letto. Prendo le chiavi dell’auto e l’album di fotografie. Chiamo al lavoro per dire che sto poco bene e cerco nella cronologia del navigatore la direzione.
I movimenti sono limpidi, sono le aspettative a confondersi. Cosa voglio ottenere?
Arrivo a destinazione ed estraggo la fotografia dall’album. La piego in quattro parti precise e la infilo in tasca. La piega verticale divide le teste di Matteo e Simona, quella orizzontale seziona i loro corpi.
Corro lungo il sentiero, con i polmoni che esplodono un sapore ferroso.
Arrivo al belvedere e scavalco il parapetto.
Il vento freddo mi pizzica le guance ben rasate.
Lascio che il mio iPhone suoni una chiamata di lavoro, cada dalla tasca e si frantumi sui sassi.
Resto in piedi sul terreno sdruccioloso, con la fotografia in mano e il braccio allungato davanti ai miei occhi.
La fisso e lei mi fissa.
«Sei un mostro», dice il sorriso di Simona.
«Perché, papà?», dice il sorriso di Matteo.
Alle lacrime non faccio caso. Non faccio caso alle voci che mi chiamano, mi dicono di stare attento, di non fare pazzie.
“Adesso corro lì e li spingo giù”.
Guardo in basso e sono ancora i corpi di Matteo e Simona che rotolano nella scarpata, sempre uguali in ogni ripetizione. Guardo in basso e sono i miei sentimenti di liberazione e dolore che rotolano nella scarpata, sempre più incontenibili.
«No!»
Il grido roco si espande nella vallata e mi ritorna come eco.
«No!»
Sento la paura delle persone dietro di me, ne percepisco lo spaesamento, il timore di stare per assistere a qualcosa che potrebbe cambiarli per sempre.
Abbandono la fotografia e la osservo volteggiare, finché diventa troppo piccola per la mia vista miope. Stringo la barra di metallo con la mano sinistra e mi sporgo. Le vertigini mi fanno sudare i polpastrelli.
“Adesso corro lì e li spingo giù”.
Le voci delle persone si fanno più intense.
Ora sono le immagini casalinghe che volteggiano dietro le mie palpebre chiuse: il salotto e la cucina, la camicia da notte di Simona, il pigiama degli Incredibili di Matteo, la tv accesa su Boing, il caffè che trasborda dalla moka e si espande sui fornelli.
Il pianto si tramuta in singhiozzi, i singhiozzi in rantoli. Torno in posizione eretta, con la schiena dritta contro il parapetto. Sbilanciarmi sarebbe semplicissimo, come ricordare.
Mi piego sulle gambe molli. Le persone che si avvicinano hanno smesso di esistere. Prendo dalla tasca un fazzoletto di carta usato e mi ci asciugo gli occhi. Inspiro. Fisso il paesaggio. Le mie terminazioni nervose immaginano i dolori puntuali della caduta.
Il primo giro della suoneria mi fa muovere la testa. Il telefono è ancora lì, incastrato fra le rocce. Lascio la ringhiera. Il secondo giro di Wind of Change mi fa avvicinare la mano. Al terzo guardo lo schermo: il nome è quasi illeggibile, confuso nella ragnatela scura dei cristalli sparpagliati. Avvicino il pollice e pigio sullo schermo ruvido. Sbatto le palpebre e porto l’apparecchio alla testa: «Pronto.»