«Mettiti a studiare!» Inevitabile, puntuale come un orologio arriva la solita lagna, anzi più che una lagna è un ringhio da tenente trentino in licenza, di solito seguito da uno scappellotto sulla nuca se non si ubbidisce subito. La figlia sventurata scatta mentalmente sull’attenti, mentre nella pratica si trascina con malagrazia fino al tavolino della camera che condivide con la sorella, già sui libri fin da subito dopo mangiato. Digerire con Cicerone, solo lei può. Elena invece vorrebbe uscire, andare a fare due passi subito dopo la chiesa, dove ci sono i campi, facendo attenzione allo sguardo vigile del parroco e della perpetua che sembra insinuarsi fin dentro alla sua testa, e vagare tra le erbe incolte cercando qualche sasso particolarmente liscio per la sua collezione – segreta ovviamente – che finirà insieme agli altri sparato nel mare grigiastro della colonia estiva. Mancano pochi giorni alla fine della scuola, l’aria è ubriaca di fiori e pollini e fa caldo al punto che non serve più mettere la sottana, anche se il decoro prevede di non toglierla mai e Elena si prenderebbe una carica di botte se sua madre la scoprisse così, seminuda e felice. Poi c’è quel ragazzo, Lorenzo. È diverso dagli altri spilungoni accalorati con la voce incerta che popolano il doposcuola della parrocchia, ha gli occhi calmi e precisi come un braccio di fiume e Elena ha l’impressione che quello sguardo acquatico si posi su di lei un po’ troppo spesso. Quando se ne accorge, in parrocchia o a messa, sente un brivido misto di soggezione ed eccitazione che la lascia sfinita e insoddisfatta. Poi c’è stata quella volta, fuori dal ginnasio. Lui e i suoi compagni maschi uscivano dal liceo come una muta di cani – sarebbe così bello essere uno di loro e sporcarsi e urlare e saltare liberamente, essere anche lei un cagnaccio! – e Elena si tratteneva con le compagne più brave «dai per favore Paola, fammi vedere come hai tradotto la versione…», quando lui si era staccato dai compagni, facendo un cenno brusco con la testa, come a dire andate avanti, ed era venuto verso di lei. Il cuore aveva fatto un salto ma per fortuna Elena era bravissima a mascherare le emozioni – anni di pratica con la mamma tenente trentino! – e aveva continuato imperturbabile a parlare con la compagna secchiona. Lorenzo – Elena allora non sapeva il suo nome, l’avrebbe chiesto in seguito alle compagne più grandi, pagando l’informazione con una settimana di merenda ceduta – si era fermato a qualche passo di distanza da lei e le altre ragazze, che se ne erano accorte e squittivano come conigli. Aveva aspettato che i loro sguardi si incontrassero e poi aveva detto, fermo e onesto e calmo: «Ti posso accompagnare a casa?» Gli squittii si erano moltiplicati e mescolati con risolini, Elena era diventata di fuoco nonostante tutti i suoi sforzi e per il nervoso aveva ribattuto, sbattendo le palpebre: «Non mi pare il caso» e poi via, sottobraccio a una qualsiasi delle sue compagne, lasciandosi dietro una scia di risatine e due occhi azzurri che le bucavano la schiena. È finita così. Ma lui non aveva smesso di guardarla, in parrocchia o a messa, impudente e ostinato, e lei ogni volta si sentiva bollire ma non faceva niente, teneva lo sguardo fisso sul messale o sulle scarpe basse ed eleganti che sua madre la obbligava a portare e lei odiava. Non la biasimava, in fondo sua madre aveva fatto tutte e due le guerre e scarpe del genere se le sognava, però Elena le odiava lo stesso e ogni occasione era buona per strascicarle nella polvere o ammaccarle, e ovviamente poi erano botte. Le botte di sua madre erano particolarmente spiacevoli, si abbattevano come grandine, come Elena immaginava che fossero le granate, però faceva poco per risparmiarsele e soprattutto incassava senza protestare, era una questione di orgoglio. Il capobanda di quel libro, “La guerra dei bottoni”, che Elena aveva letto di nascosto rubandolo dalla scorta segreta di suo fratello, non avrebbe fiatato di fronte alle botte dei grandi, e lei non voleva essere da meno.
Oggi però non se ne parla, di uscire di nascosto, nonostante il sole che scioglie i soffioni trasformandoli in nuvole e l’aria così profumata che sembra di stare col naso dentro un mazzo di fiori di campo. Sua sorella studia imperturbabile, con la flemma che ha potrebbe anche diventare un avvocato, o perfino un giudice, anche se è donna. Non appena formula questo pensiero Elena fa una smorfia di disgusto per se stessa: anche se è una donna? Ma che razza di frase è? Potrebbe dirla la Moroni, una cosa del genere, quella suora mancata che le è toccata in sorte come insegnante di italiano, talmente pudica e repressa che nel programma salta tutti gli autori che parlano di baci, e così rimane davvero poco da studiare, perfino Carducci e Manzoni sapevano che cos’è l’amore, anche se poi ne parlavano come se avessero messo un guanto sulla penna. Tutta questa fatica per studiare e poi le studentesse femmine venivano trattate come se dovessero mettersi guanti dappertutto: sulle orecchie, sulle mani, sulla bocca. Elena non lo sopporta.
«Elena! Vieni qui un attimo.» La voce di sua madre, che non ammette repliche, interrompe la sua rivolta interna. Elena si dirige in cucina, pronta a sorbirsi la ramanzina del giorno. Cosa potrebbe avere fatto? Il libro proibito? Ha scoperto che si è fatta passare la versione? O forse… «Vai da don Roberto a portargli la questua» le dice la madre spiccia, porgendo un cestino con dei soldi «Domenica dopo messa non ho fatto in tempo a portargliela.»
La madre di Elena è molto devota e raccoglie sempre la questua, perché sa che il don la usa per aiutare le famiglie in difficoltà, quelle che non si sono più riprese dopo la guerra. Ha fatto la maestra tutta la sua vita e quando c’era lui non partecipava alle adunate di sabato, ma prendeva la bicicletta e andava a dare lezioni private in campagna, facendosi pagare in verdure dell’orto e vino. Mai speso più soldi di quelli che guadagnava e mai mancata una volta sola a messa. E il fratello di Elena, che era nato nel ’45, si chiamava Libero.
La madre le passa bruscamente il cestino ed Elena è già sulla porta, più che felice di avere una scusa per uscire, finalmente! «E non ti fermare in giro!» le gracchia dietro la madre, e la sua voce la insegue giù per le scale come un altoparlante, uno di quelli di guerra. Elena in un lampo è fuori, nell’aria di giugno calda di promesse, dell’estate che è già lì dietro l’angolo a farle l’occhiolino. Dal don ci metterà solo qualche minuto, così poi sarà libera di correre nei campi, scalza e felice come un cane d’estate.
La chiesa è vicina, ci si arriva a piedi e Elena non si trattiene più del necessario, in un attimo ha consegnato la questua al parroco, tallonata dalla vecchia perpetua che la scruta da dietro gli occhiali mormorando chissà che. Elena tira un sospirone di sollievo e sta per dirigersi di gran carriera verso i campi dietro la chiesa, quando: «Ciao», una voce blu la blocca sul posto. Niente camicia da scuola, Lorenzo porta maglia e pantaloncini corti, sembra Fausto Coppi nelle foto che riempiono i giornali, ha le stesse orecchie volanti ma non è in bianco e nero, il suo sguardo è verniciato di azzurro. «Sei di fretta anche oggi?», che sfrontato. Elena si sente infiammare di nuovo, al punto che abbassa lo sguardo, ma con la coda dell’occhio intravede la perpetua mormorare qualcosa a don Roberto sulla soglia della parrocchia. «Sì» sbotta poi, e parte a passo di marcia, sentendosi puntellata da non uno ma tre sguardi. Quel ragazzo non sa stare al posto suo, pensa Elena ribollendo mentre corre verso i campi. Non le serve guardarsi alle spalle per sapere, con celeste certezza, che Lorenzo è dietro di lei. Anche a scuola è famoso per fare sempre di testa sua, una volta ha quasi litigato col professore di filosofia sul concetto di anima immortale e un’altra per poco non ha fatto a botte con quelli del collettivo studentesco perché avevano infilato dei volantini pieni di insulti sotto ai tergicristalli della macchina del professore di religione, Lorenzo li ha tolti, loro gli hanno dato del fascista e lui ha ribattuto che sua nonna monarchica era più coraggiosa di loro. Audace e impertinente ma sempre calmo e posato, a differenza di Elena che prende fuoco di continuo, se lui è un fiume pieno e placido lei assomiglia a un mare in tempesta. Chissà cosa succede a mescolare due liquidi diversi, pensa Elena, e nell’istante stesso in cui lo pensa avvampa e rallenta l’andatura al punto che lui la raggiunge e le si affianca. «Allora, cosa vieni a fare qui?» Ormai sono arrivati nei campi gonfi d’erba e squillanti di cinciallegre, tutto è così fresco e nuovo che sembra che il mondo sia stato appena creato, adesso, ora. «Raccolgo i sassi» risponde Elena con un filo di voce, guardando per terra, poi però alza di poco lo sguardo e lo vede sorriderle e le sembra di conoscerlo da sempre, solleva la testa e lo guarda negli occhi. «Per la mia collezione. Scelgo solo i sassi più piatti, quelli che rimbalzano bene anche nel mare, così poi li porto in colonia e quando le suore non guardano andiamo a fare la gare a chi lancia più lontano, una volta ho fatto sei rimbalzi e ho vinto la gara ma le altre non volevano darmela vinta e hanno chiamato suor Pia e hanno dato a me la colpa di tutto e lei mi ha buttato via tutti i sassi e poi me le ha anche date e tanto era inutile che lo dicevo a mia madre perché poi quando tornavo lei mi dava il resto, però a quelle che hanno fatto la spia gliel’ho fatta pagare, non credere», e ridono tutti e due.
Quando Elena torna a casa la finestra sopra al cancello è illuminata. Sua madre è di ronda, la perpetua ha cantato. Mentre Lorenzo si china verso il suo viso Elena sorride. Dopo saranno botte.
Correva l’anno 1960 e mia mamma dava il suo primo bacio.