Ma non ha niente di meglio da fare Monsieur Brisgrand, che viene ogni giorno a darmi il tormento? Arriva solitamente nell’ora di punta, nei momenti più concitati, ma non puoi mai dirlo. Magari ti si presenta alla cassa nel tempo morto, invece, quando passo lo straccetto sulle superfici unte del bancone, o sugli erogatori incrostati di bevande. La spuma frizzante quando si secca diventa una crosta di zucchero. Guardi com’è sgualcita la sua camiciola da impiegato, mi dice quando arriva, spesso. E io allora faccio finta di nulla, un po’, e gli chiedo voulez-vous quoi?, gli chiedo cosa vuole da mangiare, ma intendo anche altro, non solo quello, dentro di me. Io ho questa abitudine di pormi e porre le domande, di gettare luce, ricercare il conto che non torna, la crisi. Deformazione professionale da ricercatore, ancor prima che impiegato polivalente qui in friggitoria, dottorando turni permettendo. Non ha niente di meglio da fare, Monsieur?
Però è vero che la camiciola rosa è sempre unta e sgualcita. Indossiamo, noi impiegati polivalenti della Hanan Fried Stuff, un pantalone nero largo che ci copre un po’ le scarpe nere con il soprascarpa nero di gomma infilato sopra, poi una camiciola rosa che sul cuore ci ha il logo bianco del fast-food, ovvero le lettere bombate HFS e sotto un sorriso stilizzato che sembra uno schizzo. È il sorriso di Hanan. Poi sulla testa un berretto rosa, anche quello, con il grosso sorriso di Hanan stampato sul davanti, una sua foto sorridente stampata. Hanan è la proprietaria titolare del suo ristorante di cose fritte, nei pressi del casello autostradale ai margini di questo paesone oltralpe, una ragazzona francese dalla pelle ambrata e le guance gonfie, un sorriso bianchissimo in una bocca enorme e rossa, umidissima, piena di denti tondi e bianchi. Come si apre la bocca di Hanan! Che sorriso che hai, Hanan, che quando torno a casa, di notte lungo il tragitto, lo vedo in ogni bagliore di finestra o nel riverbero delle pozze, lo vedo anche nell’alone della luna, di sguiscio. E me lo porto a casa con me. Hanan mi guarda, durante le ore di lavoro. Sento il suo sguardo sulla nuca, e poi si sposta, lo sento sulle mani fino a che non me le prende, le mani, e me le stringe forte fino a farmele diventare bianche e mi sussurra con la sua bocca grande cosa cazzo fai, tu fais le bourdel, mi sussurra, e poi sento il suo sguardo anche sui fianchi e sui glutei, che scende. L’impiegato va accompagnato nei movimenti, nei primi mesi di servizio, e io senza il suo sguardo, senza il suo profumo di vaniglia, mi sentirei perduto a fare i miei movimenti da impiegato polivalente, a comporre i miei vassoi, a servire i miei clienti, come per esempio Monsieur Brisgrand. Senza il tuo sguardo sarei perduto, Hanan. E infatti, quando torno a casa e mi metto al lavoro sulla mia ricerca di dottorato, solitamente tra le 7.30 e le 9.40 del mattino o magari dopo le 22.45, mi ritrovo in un territorio inesplorato, senza guida, e sento il panico a dover organizzare tutti quei fogli, quelle fonti, senza i tuoi occhi scuri, Hanan, senza la tua bocca, la tua mano che mi stringe. È la pace dei miei nervi, delle mie meningi, lavorare per te. Così Hanan mi guarda, ci guida, Hanan, con i suoi occhi pesanti e umidi, oppure dalla saletta di comando, mediante i suoi molti altri occhi, bionici e appesi al soffitto, nascosti oppure nei frigoriferi, o nel fondo delle friggitrici a pozzetto, magari. E gli impiegati anziani, anche, sono i suoi occhi talvolta, volendo, che si passano con lo sguardo le spifferate, i giudizi sacrosanti sull’operato dei giovani polivalenti. Io sono un giovane polivalente, giovanissimo in termini di servizio, e so di non potermi perdere mai, protetto da questi sguardi materni, avvolto dal profumo di Hanan, mentre prendo le ordinazioni alla cassa.
La gentile clientela può ordinare secondo diverse modalità e il bravo impiegato polivalente dell’Hanan Fried Stuff deve essere capace di interagire con essi, creare connessioni operative e riservarsi l’opzione di intervenire e sterzare magari all’ultimo momento, non so se si capisce il discorso, per venire incontro alle esigenze del cliente dalla fame proteiforme. Non so se si capisce il discorso. La fame del cliente è sempre proteiforme e volubile, cambia all’ultimo come un vento, molto dipende dai diversi aromi di fritto che si alternano, esistono almeno trentasette odori differenti di fritto e se l’impiegato polivalente impara a sentire che odore c’è nell’aria magari sa prevedere la mutabilità del cliente. C’è poi chi si spinge oltre, chi testa la tenuta del sistema, come Monsieur Brisgrand.
Ovverosia l’ordine può essere effettuato al bancone mediante il rapporto frontale tra cliente e impiegato. Qui la bravura dell’impiegato sta nel seguire i flussi ragionativi del cliente, che si mette in ascolto del suo proprio appetito. Attenzione! Il cliente può cambiare idea anche due volte, in alcuni casi può cambiarla anche tre, facciamo attenzione. E lui ha sempre ragione, lui ovverosia lo stomaco di lui che è la base operativa del suo appetito. Me lo ripete Hanan, da dietro, spingendo il suo petto sodo sulla mia schiena, tenendomi forte dai fianchi: hanno ragione loro, toujours. Ma non è nello stomaco che si gioca la partita, è piuttosto nel punto in cui si incontrano succhi gastrici e scariche nervose che producono la fantasia del cervello, l’appetito è molto una questione di fantasia del cervello e chi lo nega non ha capito fino in fondo questo mestiere. I rischi di errore sono limitati, comunque, perché, finché il cliente non paga, il conto è aperto e si possono apportare tutte le modifiche che si vogliono. Tenere le orecchie tese e ben aperte.
La seconda ipotesi si verifica quando il cliente ordina e paga presso i computer appositi situati all’ingresso del ristorante. Il cliente è solo con se stesso, con i suoi desideri, e lascia scorrere aperto e disponibile le proprie dita sullo schermo pieno di impronta, si lascia suggerire, si ascolta, si infila una mano in tasca, o magari la passa tra i capelli, poi tocca nuovamente lo schermo, si gratta la schiena, passa un’unghia tra i denti, magari. Facciamo attenzione ai desideri, gli antichi lo sapevano meglio di noi e dicevano che gli dei, quando vogliono farci dispetto, ce li esaudiscono, questi desideri nostri. Così per renderci conto. L’ordine viene trasmesso automaticamente alle cucine.
La terza opzione, quando il cliente ordina da sé allo schermo all’ingresso, ma – ma – sceglie di pagare al bancone, da un impiegato. L’ordine viene trasmesso immediatamente alle cucine, in forma di preordine diciamo, ma poi il cliente può modificarlo interfacciandosi – si dice così – con l’impiegato polivalente, per esempio con me.
Poi ce ne sono altre, forse. Ma è questione di sfumature. È un mestiere pieno di grigi.
Spiego dettagliatamente questi passaggi perché questo è il mio lavoro. Intendo: seguire i passaggi. Gli ordini arrivano tutti alle cucine e sono proiettati su uno schermo. Ogni digitazione è trasmessa, la mia e la vostra. Questi schermi touch sono come marmi indelebili. Tutto resta, tutto ciò che tocchiamo. Questi ordini giungono allo schermo in ordine di invio, si intende, ma può succedere che il cliente del tipo tre, per esempio, chieda all’impiegato polivalente una modifica della propria ordinazione, modificando la lista. Gli impiegati in cucina e quelli alla composizione dei vassoi, dunque, non potranno mai fidarsi della prima lettura dell’elenco. Questo aspetto della professione ha qualcosa da insegnarci proprio in generale per la vita, ovvero: mai fidarsi della prima lettura, i testi cambiano continuamente. Dipendono dagli appetiti delle persone paganti, questo vale in generale proprio per la vita, è una metafora, diciamo. Queste sono cose che dico in quanto studioso. Capita poi che un cliente richieda la sostituzione di un prodotto dallo stesso prezzo, tipo capisce di preferire l’aranciata alla coca-cola, o spesso gradisce di più magari il tè freddo, invece. In questi casi l’impiegato di cassa magari non modifica l’ordine al computer ma per comodità strilla il cambio al collega addetto alle bibite, alle sue spalle. E allora se ha fatto una bibita sbagliata, l’impiegato la getta a terra senza troppo pensiero, e quella schizza spargendosi sul pavimento, poi defluisce in grandi dotti di scarico che ci strisciano sotto ai piedi, defluisce via non so dove insieme a scontrini, mozzichi di patatine fritte, molliche, polvere, i sudori, i nostri umori. Per ciò che concerne la divisione delle mansioni, nei giorni di grande affluenza un impiegato sta sempre alle bevande, per esempio ci sto io che la lingua la conosco poco. Inizialmente io stavo sempre alla cassa, ma se il cliente cambiava idea all’ultimo io chiedevo sempre: come, mi scusi?
Un giorno Monsieur Brisgrand dice ad Hanan, profumatissima, che io non capisco mai niente, mi scusi. Prima chiede a me, senta, posso parlare con la titolare? Non in italiano, ovviamente. E io: come, mi scusi? Con la titolare, perché io sono pressato, sa. Come, mi scusi? Allora monsieur Brisgrand perde la sua pazienza da persona gradevole, scavalca il bancone e chiede urlando di parlare con la titolare, cioè con Hanan. Hanan pronta arriva sulla scena, sapendo di essere cercata, di essere desiderata, avendo osservato la scena, con i suoi mezzi, fino al punto di rottura. Io lo so che arriverà, Hanan, mentre il monsieur mi urla contro. Lo so sempre, che Hanan sta per arrivare. Hanan sta per arrivare, sempre, è una cosa che si sente, e che libera il cuore. Con la sua bocca enorme accoglie il cliente nel suo lamentarsi. Non capisce mai niente, quello, mi scusi, lui dice. E allora lei mi si avvicina, mi preme contro il bancone unto, da dietro, e mi sussurra all’orecchio con i suoi denti molli: non capisci mai niente. Così da quel giorno è frequente che io stia alle bibite, ognuno ha la sua postazione in una catena così efficiente. Io leggo la lista delle bevande sullo schermo e le preparo con velocità; un orecchio teso verso i banconi da cui mi giungono i cambiamenti strillati dai colleghi. Quando mi giungono i cambiamenti strillati dai colleghi io strillo a mia volta, come, scusate?, perché non capisco magari la quale bevanda al posto di quale, o la taglia del bicchierone, magari. I colleghi mi strillano che non capisco niente, allora, e anche monsieur Brisgrand che è sempre lì pronto, si capisce, mi strilla lo stesso; Hanan mi si avvicina con un sorrisone così e quel profumo stupendo, mi abbraccia da dietro con tutto il suo seno enorme e morbido e mi sussurra tu non capisci mai, mi sa, mi dice ancora. Julie è collega molto precisa, assolutamente diligente; di norma sta all’assemblaggio panini, è sordomuta ma sa leggere molto bene. Sorridentissima anche lei, certi sorrisoni giganti che dicono quello che le rimane in gola, io penso. Notando la mia difficoltà si avvicina e mi fa segno di andarmene con la mano, con il palmo sinistro aperto sopra la mano destra che ci batte di taglio. Julie si mette a preparare bibite velocissima e i colleghi al bancone le comunicano le modifiche mediante dei gesti codificati del corpo: per esempio strabuzzare gli occhi, fare il due con la mano destra e battere i tacchi, in sequenza, vuol dire sostituire la penultima coca-cola con una Sprite media. Incredibile l’efficacia di questo metodo. Allora io chiedo ai colleghi perché non usino questo sistema innovativo anche con me, che non capisco molto bene la lingua. Mica sei sordomuto, tu, che ci senti benissimo, mi rispondono. Eh, ma io sento suoni che non capisco, non bene, almeno, rispondo. E quelli dicono che però io ci sento bene e parlo anche meglio. Pigro che non sei altro, mi dicono in francese, è davvero meschino fare certi paragoni. Che differenza fa non sentire o non capire? Ma questo concetto non lo so spiegare in quella lingua non mia, così corro nella saletta dei dipendenti a piangere un po’, e loro mi fissano fermi.
La saletta a quell’ora è vuota e io ci piango un po’ in santa pace, tra me e me. Mi metto sulla panca in un angolo, contro il muro, appoggiato di peso contro l’intonaco giallino e lascio la testa sul tavolo freddo, e ci sono le briciole di sale. Qualcuno tira lo sciacquone, al bagno. Chiamo Pietro per sfogarmi, la sua voce mi accoglie e mi rilassa, mi porta via da quel posto in cui non capisco nulla e le parole mi si fermano in gola, le intenzioni restano tutte sullo stomaco a pesare. La sua voce fa tutto l’opposto, che magia, mi solleva tutto il peso dallo stomaco e le parole dalla gola fino all’aria aperta, mi solleva tutto. Ho tutto sollevato ed eretto finalmente. Così iniziamo a fare sesso al telefono, cosa mai fatta. Il sesso al telefono è una cosa strana, non lo si capisce finché non si prova, perché non è sesso vero, non ci si tocca nemmeno un po’. Cioè ciascuno si tocca per sé e dice all’altro come lo toccherebbe, invece: io ti toccherei lì, io ti toccherei là. Ma in realtà ci si tocca da soli, però una mano è una mano e non fa differenza, ciò che conta è se c’è qualcuno o meno che ci vuole toccare: per questo il sesso al telefono è diverso dalla masturbazione. Il sesso al telefono è il sesso migliore che c’è, perché non ha limiti. In quello tradizionale si possono fare solo alcune cose, toccarsi e penetrarsi in vario modo, ma il campo di scelta è limitato. Invece al telefono posso per esempio leccare lo stomaco di Pietro o massaggiare da dentro la sua prostata e lui può soffiarmi sul cervello un frescolino stimolante. Queste sono alcune ipotesi, frontiere del sesso che la gente comune non ha ancora esplorato ma che nel sesso al telefono sono possibilissime. Nessuno di noi sa dove si nasconda il proprio orgasmo, dicono. Così ce lo cerchiamo il nostro orgasmo, noi, Pietro non so dove e io lì nella saletta, con le mani unte di olio di semi e il soffio del condizionatore, dietro, e le pareti gialline con gli occhi bionici. Mi guardi, Hanan? Ti piace, Hanan? Nessuno viene a disturbarmi, per un po’. Julie entra in saletta mentre io strizzo il polmone di Pietro per procurargli quell’apnea che dà scariche di piacere al cervello. Mi fa dei grandi gesti esagerati che non comprendo, poi insomma io sto facendo del sesso e mi sento un po’ in imbarazzo a conversare con lei. Però perché mai smettere di fare sesso? Il sesso al telefono è una cosa tutta verbale, dunque lei non può beccarmi nella mia intimità, anche se sono davanti a lei, per via dell’udito. Basta che accavallo le gambe e l’erezione non la vede nemmeno. Un po’ per uno, ma chere Julie. Vorresti sapere cosa sto facendo, ah? Ma non puoi. Lei cerca di dirmi qualcosa, prima sorride con un sorriso smisurato, poi mima il pianto e cerca di abbracciarmi. Cosa vuoi Julie? Te ne approfitti? Levati che io ora sto facendo del sesso e tu non puoi beccarmi, né tu sorda né i tuoi connazionali udenti, nessun altro, perché lo faccio nella lingua mia. Faccio sesso dove e quando mi pare, nella lingua mia, al telefono. Julie alza le spalle e se ne va. Quando finisco il mio sesso per bene, saluto Pietro e il mio turno è anche finito. Esco dalla saletta e Hanan mi chiede perché sono scappato a piangere, non capisco che bisogna lavorare? Ti è piaciuto, Hanan?, le chiedo, ma dentro di me.
Anche il turno di Julie è finito. Saluta tutti con grandi bracciate ed esce dall’Hanan Fried Stuff. All’esterno l’attende il suo compagno. Porta gli occhiali scuri e un bastone bianco, è cieco come una talpa, poveretto. Si trovano immediatamente, forse mediante l’olfatto, e si baciano con passione per salutarsi, con le labbra e le lingue, e si stringono forte i corpi.
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in racconto