Bel pallino

Si è ucciso, ti dicono.
Anzi no: si è tolto la vita, ti dicono.
Un treno merci.
Chissà perché questo dettaglio ti pare più giusto. Come se non si morisse sotto una freccia, un treno che in prima ti servono l’aperitivo. Ma un merci, fra San Nicolò e Rottofreno. Di notte.
Stava nel banco davanti al tuo. Ogni tanto si girava per fare una battuta. Le più memorabili le scrivevate in una pagina sul diario e ogni tanto, nelle ore buche pigre, le rileggevate. A riguardarle, parevano in fondo poca cosa, ma le rileggevate, per il gusto, credo, della ripetizione pura, ch’è una parte strana dell’amore.
Aveva un debole per la prof. di storia.

Non ci si è buttato. Si è sdraiato sui binari.
Quando l’ho detto a mia madre, ch’era morto Stefano, sotto un merci, lei diceva no, che dici, no, sarà stato un incidente. Come se non valesse, l’incidente. Come se non si morisse uguale.
Lo scopro stamattina, che ci si è sdraiato. E anche questo lo capisco, fa sistema, tassellino che s’appiccica. Fa ancora più paura.

Vivo a Milano da qualche mese. Quando prendo la metro c’è sempre qualcosa caduto fra i binari, in quella specie di muro bucato che fa da divisorio. Una bottiglietta d’acqua, una sciarpa tutta sporcata, un giornale volante. E quelle cose lì, cadute, ti fanno sentire, insieme allo spostamento d’aria e alle vibrazioni del treno in arrivo, che lì ci si cade.
Mi ricordo di aver letto di qualcuno caduto, tirato su in tempo. Di braccia.
Quando sono lì sul margine che guardo la bottiglietta a mezzo e penso all’orlo, poi penso alle mani e alla stoffa, un nodo di braccia che, con fatica, ti tira su.

Ci si è sdraiato, l’ha sentito arrivare. Chissà se sapeva gli orari. Chissà se dei merci ci sono, gli orari. Chissà quanto ha aspettato. Chissà cosa si pensa, mentre si aspetta.
Aveva un bimbo di tre anni e mezzo. Bello come tutti i bimbi, forse pure di più. Due occhi blu come due fanali. Sei stata scema, l’hai pensato mille volte, li vado a trovare, non ci sei mai andata.
Non avevi più il suo numero, né poi tutta questa confidenza. Se n’era andato a metà della terza, prima in un professionale, poi a lavorare. Eravate amici, ma non v’eravate tenuti stretti. Lavorava coi turni, fuori città, tu hai fatto l’università in un’altra città, tornavi solo il sabato, partivi il lunedì presto.

L’ultima volta v’eravate incontrati per caso, un giorno qualsiasi, a fare i prelievi.
Sei contenta, di vederlo. Chiacchierate. Lui ti dice qualche cazzata delle solite, repertorio ripassato a dovere. Poi ti chiede che ci fai qui. Be’, i prelievi. Sì, ma perché? E tu pensi che domanda buffa. L’anemia, il tiesseacca, la mia mamma, la tiroide. E lui dice, ah, no, niente, pensavo, magari, pure tu.
Pure io? E lì arriva la sua ragazza, che non conosci. Ha una mano sulla pancia e quell’aria soddisfatta: tu capisci e ridi e dici no, io no.
E allora ti raccontano la vacanza al mare, quella che gli amici al bar avevano detto vedete un po’ di non tornare in tre. «E invece» ride lui.
Chiedo che fanno, che faranno. Lei aiuta un amico che ha un bar. Ma qualche ora. Starà a casa, ora, poi dopo vedrà. Cercherà qualcosa di più serio, magari. Un po’ più regolare. Lui lavora, lavorerà.
La casa dei suoi di lei, fanno un muro in più, dividono il salone, un po’ un buco ma meglio di niente, insomma, mica ci lamentiamo, spiega lei. Simpatica, lei.
Poi entra a fare il prelievo, prima di me.
Lui perde l’aria gigiona, in un momento. «Bel pallino, eh?» dice. «Eh» dico io, che non so che dire.

«Mi ha detto non preoccuparti, prendo la pillola, faccio tutto io. Lo voleva, lei, è contentissima.»

Lo dice con una faccia che, lei torna, ci vuole un minuto se non svieni a fare un prelievo, lo dice con una faccia che poi entro io, poi li saluto, ci ripromettiamo di vederci, e tanti auguri, e quella faccia mi resta incastrata in gola un sacco di giorni, tanto che racconto questa storia anche a persone che non c’entrano: ha vent’anni, ho vent’anni. E la racconto che poi mi si disincaglia dalla gola, via via, nei giorni.
La racconto e poi mesi dopo vedo le foto del bimbo, uguale uguale a lui e inizio a pensare che, anche se non la decidi, la vita, mica è detto che venga male. Che poi, fai solo finta, di deciderla.
Decidi delle parti minuscole e in larga parte secondarie. Tutto quello che non controlli fa una vita. Un’illusione occidentale, quella del controllo, della pianificazione. Ne conviene anche un’amica che mi presta un libro sulla meditazione e sul respiro.
La racconto che quando mi arriva un messaggio da una compagna che non sento da anni per la corona di fiori io non so niente, sto a Milano all’ultimo piano, c’è un divano rosso fuoco che mi ha conquistata, appena ho visto la casa, e però, anche se è mattina, ho il caffè sul fuoco, me lo dimenticherò, esploderà la caffettiera con un toc, rovinerò il legno di fianco ai fornelli, la cucina piena di gas, aprirò tutte le finestre, è dicembre, mi sembra di aver sempre saputo come andasse a finire.