Giorgio non aveva intenzione di sposare Federica. Si erano fidanzati ai tempi del liceo, la loro storia era andata avanti per anni. Poi venne il giorno del matrimonio.
Giorgio arrivò per primo, anticipò invitati e prete. Passeggiava esaminandosi il completo. La giacca gli stava un po’ larga, i pantaloni erano retti da una cinta di cuoio nero e cadevano con precisione sulle scarpe nere e lucide. Terminata la revisione prese a guardarsi intorno, cercando di notare qualcos’altro che distogliesse la sua attenzione dall’evento che si avvicinava a colpi di lancette. Un verde acceso brillava sul fianco destro di un bar, riflesso dalle foglie striate di una begonia che sarebbe comunque appassita. Due gatti scapparono via da un vicolo, rincorrendosi per poi fermarsi di colpo, con i dorsi arcuati e il pelo ritto. Pensò al suo gatto, poi si ricordò di non averne mai avuto uno. Quindi se lo inventò, gli diede un nome effimero (Fuffi, Neve, Palla, Romeo), poi decise di abbandonarlo in una discarica di pesce marcio. Fuffi-Neve-Palla-Romeo non fu affatto contento della scelta del padrone e sparì dalla sua mente. Il sudore pesava sulla fronte già stressata, il caldo di fine agosto impazziva in quella mattinata di festa apparente. La strada, disseminata di sassi e ciottoli, si lasciava scavare dalle suole come sabbia rassegnata: questo dava a Giorgio una piacevole sensazione di mare. Proseguì per la via, lasciandosi sul fianco destro l’abbazia, teatro delle nozze. Il bianco sporco non spiccava, quell’antichità ordinaria quasi infastidiva Giorgio che la guardò con disprezzo. Sbuffò passandosi il dorso della mano destra sulla fronte.
Qualche anno prima lui e Federica si trovavano proprio in quel paesino, innamorati. Se ne innamorarono quasi di conseguenza. Con fare giocoso decisero che si sarebbero sposati lì, prima o poi.
Giorgio slacciò la cravatta sedendosi su una panca. Poggiò la schiena sul muro arancio di una boutique di fiori. Sarebbero appassiti anche quelli. Tirò fuori una sigaretta dal pacchetto, la accese. Sarebbe appassito anche lui, come la begonia, come i fiori, come tutti.
Giorgio non sapeva se quello che stava per accadere fosse giusto o meno. Pensava e ripensava, ma non ne veniva mai a capo. La stanza muta del suo appartamento in città sapeva bene quante ore furono contaminate da riflessioni sterili. Anche il paesino iniziava a imparare.
L’odore del fumo si mischiò nell’aria a quello intenso e dolce del pane appena cotto. Dall’altro lato della strada la fornaia, una donna grossa di fianchi e truccata di farina, uscì dal negozio per recarsi al ristorante accanto, dondolando su gambe che sembravano sul punto di spezzarsi da un momento all’altro. Un ragazzo apparecchiava i tavoli. Giorgio decise di abbandonare anche la sigaretta, come aveva fatto prima col gatto. Fece un ultimo, nervoso tiro e la gettò, spegnendola con la scarpa destra che affondò nuovamente nei sassi, seppellendo il mozzicone.
Dal ristorante di fronte alla boutique uscì uno dei due testimoni di nozze. Spalancò la porta e per poco non urtò la fornaia che lo evitò con un’agilità inaspettata, riuscendo a salvare la cesta del pane. Una rosetta rotolò via andandosi a poggiare di schiena sul legno della gamba di un tavolino. Il ragazzo che apparecchiava i tavoli la raccolse e sorridendo continuò il suo lavoro. Giorgio notò il testimone e si alzò di scatto. Gli diede le spalle per non farsi notare. Una ventata leggera portò l’odore dei gerani dalla boutique di fiori.
«Giorgio!» gridò il testimone. Giorgio fece finta di non sentire e prese a fissare la strada. Una Volvo rossa accarezzava i tornanti scendendo a valle.
«Giorgio!» insistette il testimone. La Volvo scomparve sotto una strada alberata. I pini scuri nascosero il colore rosso.
«Non la vedo più» rispose Giorgio «tu riesci a vederla?»
«Come?»
«Avvicinati».
«Di cosa stai parlando?»
«C’era un’auto laggiù, vedi, ora è sotto quella strada, i pini la nascondono» disse puntando l’indice in basso.
«No, non la vedo. Comunque, come mai sei già qui? Pensavo di essere il primo».
«Lo pensavo anche io, invece eccoci. Siamo arrivati pari».
Il testimone sorrise, poi si guardò intorno compiaciuto, inspirò forte ed esclamò:
«Gran bella giornata, non trovi?”
Giorgio annuì senza distogliere l’attenzione dalla strada. L’altro continuò:
«E poi il sole, il verde, il silenzio… Questo è un posto perfetto per sposarsi!»
«Già».
I due rimasero in silenzio per qualche secondo. Giorgio voleva solo stare da solo, in quel momento. Continuava a tenere gli occhi fissi verso i pini lontani, senza degnare il suo interlocutore di uno sguardo.
«Ti va un caffè?» chiese il testimone.
«No, grazie. Vado a farmi un giro, ci vediamo dentro» concluse Giorgio che, per nulla interessato alla risposta, si diresse immediatamente altrove. L’altro rimase lì, stordito, senza capire cosa avesse detto di male.
L’abbazia aveva un giardino esterno particolarmente curato. L’erba era stata tagliata da poco, un odore amaro e fresco accompagnava quel posto benedetto dall’ombra. Al centro, una statua di qualche santo mai dimenticato dai fedeli. Giorgio non sapeva il suo nome, si limitò a guardare il viso assorto e fermo del beato. Si sedette sul bordo di una grande fontana accostata al muro dell’abbazia. Da due bocche di leoni in marmo uscivano rigagnoli d’acqua. Si sciacquò il volto e riallacciò la cravatta.
Federica era rimasta affascinata da quei luoghi, colpita dai colori accesi, incantata dalla quiete. Venne attratta come nell’opera omerica da un canto, che era quello degli insetti d’estate. Lei, vissuta sempre in città, lì aveva colto una novità di pace.
Giorgio l’amava. Giorgio non l’amava. Guardò sul prato ma tutte le margherite erano state già falciate via dal tagliaerba. Anche l’ultima delle infantili possibilità s’era spenta. Si trattenne per un’ora intera, immobile, limitandosi a fissare ciò che restava delle margherite.
Non capiva il senso del matrimonio, non coglieva la necessità di formalizzare un’unione già solida. Non voleva sposarsi. Però, semmai avesse dovuto farlo, sarebbe stato solo con lei. Amava Federica, oppure no? Senza margherite risultò impossibile capire. Comunque non concepiva l’idea di un sodalizio così stretto e ingombrante. Si sentì soffocare, slacciò di nuovo la cravatta. Il suo nodo ormai era consumato, abituato a ripensamenti continui. Dalle bocche di leone continuava a uscire l’acqua che, costante, cadeva nella fontana in un continuo, lieve scroscio.
Nel frattempo arrivarono gli invitati. Giorgio prese coraggio, sistemò il nodo e si avviò verso il cortile interno dell’abbazia. Erano tutti fuori dalla chiesa, sorvegliati dall’alto da due mostruose creature che fiere tenevano il petto all’infuori, ferme sopra il rosone. Sassi e ciottoli, sconfitti e a terra, non opponevano resistenza ai talloni chiamati a raccolta dalle partecipazioni di nozze.
«Giorgio, come stai?» chiese l’altro testimone poggiandogli una mano sulla spalla.
«Bene, e tu? Ho saputo che hai perso il lavoro, mi dispiace».
«Oh sì, ma non m’importa. Mi aveva stancato, pensavo già di cambiare».
«Benissimo allora, meglio così. Sei l’unica persona al mondo soddisfatta di un licenziamento».
Il secondo testimone si lasciò andare in una risata forzata, poi continuò: «Il grande giorno alla fine è arrivato…»
«Già. Tutti i grandi giorni arrivano, prima o poi. Entro, ci vediamo tra poco».
I gradini in marmo davano il benvenuto agli invitati, il tappeto rosso era costeggiato da fiori bianchi, sparsi in maniera accuratamente casuale. Giorgio avanzò, prendendo il suo posto. Ancora una volta fu solo, primo tra tutti, protagonista di una puntualità inutile.
Giorgio l’amava. Giorgio non l’amava. Ormai non c’era più tempo per pensare, per decidere, per tornare indietro. Si concentrò su un vetro colorato: un veliero si dirigeva ad ovest, mentre un sole fanatico provava a spingersi oltre le nuvole, picchiando i suoi raggi sul mare. Giorgio, banalmente, naufragò.
Fu colpito improvvisamente dal ricordo del vestito da sposa che lui e Federica scelsero insieme, cinque anni prima, in un monolocale immerso nel traffico. Il vestito era di un bianco acceso, lasciava scoperte le spalle. Trovarono l’abito sul retro di un quotidiano. Lo notarono dopo che Giorgio chiuse l’ultima pagina della sezione Sport, mentre il caffè faticava ad uscire e la moca respirava con affanno. Due cucchiaini di zucchero, le tazzine si riempirono di dolcezza e calore. Federica gli scompigliò i capelli, poi fecero l’amore. Era un gran bel vestito.
Il suono dell’organo richiamò Giorgio al presente. Federica stava entrando, stretta alla giacca del padre. Giorgio si voltò. Notò con sorpresa che il vestito non era quello immaginato, scelto, sperato. Abbandonò i dettagli dell’abito, urtò il volto di lei con un’occhiata veloce. Vide il suo solito sguardo poggiarsi sugli invitati che, meravigliati, mormoravano di stupore. Poi, finalmente, fu il suo turno. Le linee dipinte dai visi s’incrociarono. I loro occhi si tolsero le vesti e nudi si riconobbero. In quel momento Giorgio capì d’amarla veramente. Forse troppo, forse troppo poco. Sicuramente troppo tardi.
Lei gli passò accanto e proseguì, raggiungendo sull’altare quello che da lì a poco sarebbe diventato suo marito.
Quella stessa mattina una Volvo rossa andò fuori strada e si schiantò contro un albero.
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in racconto