Laurel & Hardy, ovvero la sublime arte della solitudine

La solitudine cui Stan Laurel aspirava nell’ultimo periodo della sua vita era quanto di più vicino a una perfetta forma d’arte, mi disse il suo amico Oliver Hardy qualche anno prima di morire, quando io ero alla ricerca di notizie sul mondo dei vecchi attori americani e sugli aspetti sociologici della comicità per la mia tesi di dottorato.
Stan Laurel voleva a tutti i costi riuscire a stare da solo e a essere dimenticato così come in tutti i suoi anni di carriera aveva fatto della risata la sua unica forma d’arte. Per questo ritornò in Inghilterra dove era nato, nel suo amato cottage di Ulverston nel Lancashire, per dedicarsi esclusivamente allo studio di Pascal. Stan Laurel sosteneva che non era lui che faceva ridere ma la macchina da presa che gli mettevano davanti. Lui si sentiva portato per il teatro e la tragedia e non per la risata, il cinema comico o le slapstick. Così, adesso, ritirandosi dalle scene e chiudendosi nel suo cottage senza macchina da presa e senza vedere nessuno dei suoi amici, tranne qualche volta Ollie che affettuosamente chiamava Babe, a Stan Laurel sarebbe stato molto più facile essere dimenticato da tutti. Senza macchina da presa, nessuno fa più ridere, diceva. Davanti alla macchina da presa chiunque farebbe ridere. Anche Babe, che all’inizio non ci credeva, quando fu messo davanti a una macchina da presa cominciò a far ridere. In quegli anni Buster Keaton faceva ridere tutti e anche Chaplin, che per noi era semplicemente Charlie, faceva ridere chiunque, eppure né l’uno né l’altro avevano la faccia per far ridere, Buster soprattutto, diceva Stan Laurel. Buster era quello con la faccia meno comica tra noi eppure quando gli puntavano in faccia una macchina da presa, tutti cominciavano a ridere. Nemmeno io volevo crederci, diceva Stan Laurel così come mi raccontò il signor Hardy. Poi ho verificato che era tutto vero quando anch’io mi sono messo davanti a una macchina da presa e l’hanno avviata. Non erano le facce di Charlie, di Babe o di Buster che facevano ridere, diceva Stan Laurel, ma la macchina da presa che riprendeva le loro facce. Le loro facce senza la macchina da presa non facevano ridere per niente. Ma anche la sola macchina da presa senza le loro facce davanti non faceva ridere, eppure faceva ridere non appena davanti si mettevano le facce di Buster o di Charlie o la mia insieme alla tua, Babe, diceva Stan quando parlava al suo amico Ollie.
Qualche anno prima di morire il signor Hardy mi disse che Stan pensava a una nuova e suprema forma d’arte che era la solitudine. Devo costruirmi una solitudine a prova d’arte, diceva Stan a Ollie e questi a me qualche anno prima di morire. Ma non poteva riuscirci senza allontanare da sé la risata e la macchina da presa. Perciò cominciò a riflettere che a far ridere non era soltanto la macchina da presa che riprende le facce ma anche chi c’è dietro la macchina da presa. E allora Stan pensò che dietro la macchina da presa c’è pur sempre un uomo con la sua faccia, eppure quella faccia che sta dietro la macchina da presa, pensò, non fa ridere come la faccia che le è davanti. Quindi Stan dedusse che è la posizione in cui si trova una faccia che è importante ai fini della risata. Davanti alla macchina da presa fa ridere, dietro no. Tuttavia le facce che sono davanti alla macchina da presa devono pur avere qualcosa di speciale se fanno ridere, pensò Stan, poiché soltanto le facce che le sono davanti fanno ridere e non quelle che le stanno dietro. Allora Stan pensò che la faccia che sta dietro la macchina da presa è una faccia che non si vede, è una faccia nascosta perciò non fa ridere, questa è la differenza. Se in un solo istante riuscissimo a vederla, se per un solo momento passasse davanti alla macchina da presa, allora potrebbe far ridere anche quella faccia che solitamente sta dietro la macchina da presa, pensava Stan. Quindi vedere una faccia attraverso la macchina da presa fa ridere mentre non fa ridere affatto se la si osserva direttamente, ossia senza la mediazione della macchina da presa, pensò Stan. È la mediazione della macchina da presa che genera la risata, disse a un tratto Stan a Ollie e questi a me qualche anno prima di morire. La risata è mediata dalla macchina da presa che deforma le espressioni delle facce rendendole ridicole, ecco perché devo allontanarmi da tutte le macchine da presa, che per me significa spegnerle tutte, bloccare il loro meccanismo di ripresa, diceva Stan a Ollie. Quando saranno tutte spente, finirà anche la risata e le facce degli attori non faranno più ridere. Le facce degli attori ritorneranno a essere la cartografia delle loro emozioni e non più la maschera del ridicolo e della risata perché non saranno davanti a una macchina da presa, diceva Stan. Gli attori finalmente ridiventeranno uomini e ricominceranno a vivere, poiché quella che sullo schermo sembra la loro vita, in realtà è soltanto movimento, il movimento che dà loro il cinema.
Stan non voleva finire come Harold Lloyd che su un set, durante una ripresa, perse due dita della mano destra o come Buster che davanti alla macchina da presa non faceva più ridere, specialmente quando interpretò il film di Beckett, mi disse il signor Hardy che mi parlava di Stan. Tra tutti quanti noi, Samuel Beckett scelse Buster per interpretare il suo film che intitolò Film. Ora, mi disse il signor Hardy che aveva ascoltato le parole di Stan, faceva già abbastanza ridere la trovata di intitolare Film un film con Buster che poi a nessuno venne più voglia di ridere quando vide la faccia di Buster nel film. E infatti nessuno rise quando vide Buster nel film di Beckett che si intitolava Film. Ma del resto bisogna dire anche che nessuno vide la faccia di Buster nel film di Beckett perché Buster vi è ripreso sempre di spalle, tranne alla fine quando è già troppo tardi, disse Stan. Beckett sapeva che se avesse puntato la macchina da presa sulla faccia di Buster sin dall’inizio la gente avrebbe riso sin dall’inizio e non avrebbe capito niente del suo film pur guardandolo sino alla fine. E poi Beckett, disse una volta Stan al signor Hardy e lui a me, non girò il film che intitolò Film per ridere, giacché Beckett rideva poco o comunque non alla mia maniera o alla tua, diceva Stan a Ollie. Ma avrebbe riso anche lui, Beckett, guardando la faccia di Buster nel suo film se gli avesse puntato la macchina da presa sulla faccia sin dall’inizio e non alla fine del film come poi fece. Beckett creava sempre personaggi comici, diceva Stan. Qualunque cosa scrivesse c’era dentro più di un personaggio comico, ma non per ridere, perché Beckett sebbene sapesse far ridere, non amava ridere. I personaggi comici Beckett ce li metteva sempre in quello che scriveva perché l’esistenza loro e la nostra apparisse ancora più tragica di quello che è, e non certo per ridere. Che Beckett non amasse ridere me ne accorsi quando gli chiesi se poteva scrivere un film anche per me, confessò Stan a Ollie, ma senza che mi riprendesse di spalle come aveva fatto con Buster. Gli dissi che sotto la bombetta avevo delle belle orecchie e che, se avesse voluto, avrebbe potuto riprendere quelle. Ma lui, Beckett, come sospettavo, non rise, disse Stan. Mi guardò con i suoi occhi azzurri e glaciali, aggrottò la sua ampia fronte rugosa e non mosse nemmeno un labbro. Ma questo accadeva quando ancora Stan non detestava così strenuamente le macchine da presa, mi disse il signor Hardy.
In ogni caso Stan si stava interrogando sulla questione della risata. Se voleva raggiungere l’autentica e sublime forma d’arte che per lui adesso era rappresentata dalla solitudine, diceva il signor Hardy riportando esattamente le parole del suo amico Stan, doveva prima eliminare quell’ingombrante nemica che tuttavia era stata la sua principale arte. La risata gli impediva di raggiungere il nuovo stadio di quell’arte cui lui adesso ambiva e che era la perfetta e completa solitudine. Posso anche tenermela la risata, pensava Stan di tanto in tanto, ma ridere nella più completa solitudine è da pazzi. Soltanto i pazzi ridono nella più completa solitudine, sebbene i pazzi non siano mai completamente soli, rifletteva Stan a volte con Ollie, altre quando era da solo. Ho fatto divertire il mondo intero, diceva Stan al signor Hardy e questi a me, io sono stato la ragione e la causa efficiente della loro distrazione. Ho fatto della risata e della distrazione la mia sola arte ma adesso voglio sperimentarne altre. Voglio raggiungere le arditezze di quell’arte sublime che è la perfetta solitudine, un’arte senza distrazioni. E così si era ritirato dalle scene non perché fosse vecchio e stanco ma perché si era messo a studiare intensamente Pascal così come Montaigne si era ritirato dalla vita pubblica per darsi completamente alle lettere e Rossini dalla musica dei grandi teatri per assecondare la sua passione per la cucina, mi raccontava il signor Hardy del suo amico Stan Laurel. Lo studio di Pascal lo impegnava giorno e notte, diceva il signor Hardy, per questo si era rinchiuso nel suo cottage di Ulverston nel Lancashire a studiare il filosofo della clausura. Pascal, disse Stan a Ollie, mi aiuta a trovare le ragioni della mia scelta. Le cause, invece, le conosco già. E come gli ripeteva continuamente, erano la sovraesposizione alla macchina da presa. O meglio la sovraesposizione della sua faccia davanti alla macchina da presa. Ma finalmente la lettura di Pascal gli avrebbe insegnato il metodo della distanza da ogni cosa e quello del totale abbandono alla solitudine, diceva Stan a Ollie. Il cinema mette tutto in movimento, disse una volta Stan al signor Hardy e questi a me. Noi siamo stati in movimento per anni e ci siamo convinti che il movimento fosse l’unica possibilità per stare fermi ed evitare la noia. Niente è insopportabile all’uomo quanto di essere in un completo riposo, senza passioni, senza faccende, senza divertimento, senza un’occupazione, lo dice Pascal, Babe, e noi non lo sapevamo, disse Stan a Ollie. Noi non conoscevamo Pascal e ignoravamo queste cose e facevamo il cinema senza saperlo, divertendo, con le nostre risate, il mondo intero. Noi ci muovevamo davanti a una macchina da presa e muovevamo il mondo intero perché il mondo intero voleva divertirsi e noi lo abbiamo divertito, il mondo intero, Babe, senza mai stare fermi, senza mai riposo, disse Stan a Ollie. Noi eravamo sempre in movimento e quando non lo eravamo, in movimento ci metteva il cinema, l’infernale meccanismo della macchina da presa. Questo disse una volta Stan al suo amico Ollie e lui a me qualche anno prima di morire.
Un giorno un gruppo di giornalisti andò a scovarlo fino nel suo cottage di Ulverston, ma Stan non volle riceverli. E allora quelli cercarono di parlare con lui attraverso la porta chiusa, tentarono di calarsi in casa scendendo giù dal tetto, lo assediarono per giorni. Poi pensarono di fargli un’intervista passandogli le domande su un foglio di carta che infilarono sotto la porta. Ma Stan il foglio con le risposte non lo restituì mai. Chiamò in aiuto prima la polizia poi me perché lo liberassimo da quei molestatori, mi raccontò il signor Hardy qualche anno prima di morire, ma io ero in America e dissi che non avrei potuto fare nulla per lui, gli dissi pure che avrebbe dovuto cavarsela da solo. Non so come abbia fatto a farli desistere ma seppi che ci riuscì. Stan era un uomo pieno di risorse, lo era sempre stato, mi disse il signor Hardy di Stan, soprattutto prima di cominciare a studiare la filosofia e Pascal. Io, pur con tristezza, assecondai la sua scelta e lo lasciai partire per Ulverston nel Lancashire in Inghilterra dove era nato, mi disse il signor Hardy. È da allora che ho cominciato a perdere peso e a dimagrire. La mia pancia, il mio grasso erano complementari alla sua magrezza e funzionali alla nostra arte della risata, ma adesso non c’è più ragione che io continui a essere grasso, continuò il signor Hardy. A me manca Stan e manca la macchina da presa, ma così come sono ridotto, anche se mi dessero una macchina da presa non saprei cosa farmene. Non credo che riuscirei più a far ridere. Con me da solo davanti a una macchina da presa non funziona come funzionava con Stan. Una delle ultime volte che gli ho telefonato non ha nemmeno risposto al telefono, mi confessò il signor Hardy qualche anno prima di morire, e ora credo che ce l’abbia con me. Neanche sua moglie che è rimasta qui in America mi rivolge più la parola. Immagino perché ho perso troppi chili o perché ho tentato di fare ancora qualche film dopo che lui si è ritirato in solitudine nel suo cottage di Ulverston nel Lancashire a studiare Pascal. Noi sapevamo di essere una coppia come non ce ne sono mai state nel mondo del cinema, diceva il signor Hardy a me. A volte Stan mi diceva: «Babe, siamo una coppia, non è vero?» e io gli rispondevo: «Perché me lo chiedi?» e lui mi diceva: «Perché il cinema agisce come un diabolico dispositivo che tende alla separazione. Frammenta e moltiplica tutto quello che la macchina da presa cattura con il suo obiettivo». Io a volte non lo capivo, lo confesso, mi confessò il signor Hardy con le lacrime agli occhi, e quando mi parlava così era una di quelle volte. A volte, quando Stan mi parlava così, mi faceva paura, ma all’epoca non ero ancora malato come adesso e riuscivo a cavarmela bene con le sue strane domande, mi disse il signor Hardy parlando di Stan Laurel.
Dopo che lui è partito per l’Inghilterra io ho perso quaranta chili in soli sei mesi, mi raccontò il signor Hardy. Ho smesso di mangiare il giorno stesso che lui ha poggiato le suole delle sue scarpe sulla nave che lo ha portato via. Adesso sono un digiunatore, il più triste digiunatore della terra. Ho pieghe di carne rammollita in ogni parte del mio corpo, più che un uomo sembro un lenzuolo gualcito. Ma se lui ritornasse, oggi stesso mi rimetterei a magiare per riprendere il mio grasso. Una delle poche volte che sono riuscito a parlargli al telefono gli ho detto quanto sono dimagrito. Per un attimo è stato in silenzio, poi mi ha detto che mi capiva e mi ammirava. Anche digiunare è una nobile forma d’arte, mi disse, e noi, Babe, siamo nati per viverla tutta, fino in fondo e intensamente l’arte, mi disse al telefono dall’altra parte dell’Oceano. C’è un digiunatore pure tra i racconti di Kafka, disse il signor Hardy parlando di Stan Laurel che aveva sentito al telefono, che fa del suo digiuno una forma d’arte. È un uomo apprezzato e ammirato dal pubblico. «Ma fai attenzione, Babe, i gusti del pubblico cambiano rapidamente» mi disse Stan prima di chiudere la conversazione. Intanto il mio corpo continua a trasformarsi e a diventare sempre più magro, mi disse il signor Hardy. Presto morirò senza rivedere il mio amico Stan. E la colpa è del suo Pascal. Io Pascal lo detesto, mi disse il signor Hardy con le lacrime agli occhi qualche anno prima di morire. Cosa avrà trovato nelle pagine di quel filosofo malaticcio e piagnucolone, non lo capirò mai. Se almeno fosse rimasto qua, in America, sarei stato più tranquillo, lo avrei sentito più vicino. E invece no, ha voluto ritirarsi a Ulverston nel Lancashire dove è nato, disse il signor Hardy. È per il clima, sostanzialmente per quello, disse Stan a Ollie e lui a me. Come farei a studiare Pascal nell’afa americana della metropoli? La bruma mattutina e l’umidità di qui mi predispongono meglio allo studio della filosofia, disse Stan a Ollie. E poi qui, anche se non lo vedo mai, c’è il mare e l’idea del mare attiva in me il processo di avvicinamento alla solitaria perfezione che sto cercando di conquistare, disse ancora Stan a Ollie e questi a me.
Un giorno ho pensato di imbarcarmi e di andare da lui, mi disse il signor Hardy. Avrei affittato una casa a Ulverston nel Lancashire di fronte alla sua e me ne sarei stato là discretamente, senza che lui si accorgesse nemmeno della mia presenza, disse il signor Hardy a me. Mi sarei accontentato di guardarlo dalla finestra, di spalle, mentre leggeva il suo Pascal o mentre portava dentro le bottiglie di latte lasciate sull’uscio della porta, continuò il signor Hardy con le lacrime agli occhi. Ma il mio medico me l’ha sconsigliato. Sono troppo magro e senza forze per affrontare un viaggio così lungo. Potrebbe essere pericoloso nelle mie condizioni, mi ha detto il medico, disse il signor Hardy mentre si asciugava le lacrime. Però se fossi stato in salute tanto da arrivare fino là, sarei almeno riuscito a vedere Stan dalla finestra. Non si sarebbe neppure accorto di me, magro come sono non mi avrebbe riconosciuto. Però lentamente, con il passare dei giorni, vincendo la sua riservatezza, sono sicuro che sarei stato capace di avvicinarlo e di convincerlo a pranzare insieme. “Stan,” gli avrei detto, “che ne dici di fare fuori un paio di bistecche di manzo al sangue di quelle che piacevano a noi?”, mi disse il signor Hardy ridendo un po’ dietro le lacrime. E poi avremmo bevuto insieme un bicchiere del nostro whisky preferito e fumato un sigaro parlando dei vecchi tempi, di Charlie, di Buster e di noi e forse avremmo riso almeno un’ultima volta, se lui avesse voluto. Ma adesso sono un lenzuolo gualcito, ho pieghe di carne su tutto il corpo e lui, Stan, è da solo in Inghilterra a studiare filosofia nel suo cottage di Ulverston nel Lancashire. E invidio chi gli abita di fronte, dall’altra parte della strada. Lo invidio perché può guardare i suoi capelli rossi dalla finestra, di spalle mentre legge uno dei suoi maledetti filosofi, mi disse il signor Hardy asciugandosi le lacrime qualche tempo prima di morire. L’ultima volta che gli ho telefonato stava leggendo Schopenhauer, un altro filosofo che detestava la compagnia delle persone, un arcigno solitario. Io gli chiesi: «E Pascal?». E lui mi rispose: «Ho smesso di leggerlo. Aveva cominciato a farmi ridere». Quella è stata l’ultima volta che l’ho sentito, disse il signor Hardy parlandomi del suo amico Stan Laurel con le lacrime agli occhi.
In quanto a me, dopo quella conversazione e l’accumulo di informazioni di cui mi aveva fatto dono, non rividi più il signor Hardy. Le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate e qualche mese dopo il nostro lungo incontro morì che era diventato magro come un cartone. Io cambiai argomento della mia tesi di dottorato decidendo di orientare lo studio sulla valenza del cibo e del digiuno nelle società contemporanee.
Insieme ai suoi più stretti familiari e a pochissime altre persone che non conoscevo, ai funerali del signor Oliver Hardy c’eravamo soltanto io e Buster Keaton.