Geremia

Geremia ha quattordici anni e un motorino. Geremia ha quattordici anni, un motorino, ed è spacciato.

Lunedì è arrivata una lettera a casa, e mercoledì sua madre è andata a parlare coi prof.
Ci hanno messo quaranta minuti a dirlo, ma il succo è quello.
Lacune. Impegno. Maturità.
Sarebbe. Potrebbe. Crescerebbe.
È spacciato.
Geremia guida col tramonto in faccia e gli occhi chiusi a fessura. Lo sapeva. Da quando ha visto quella busta spuntare tra i volantini del Lidl, vicino al telefono, lo sapeva. Ha aspettato per giorni che sua madre si decidesse a parlargliene, e quando finalmente è entrata in camera sua, gli ha chiuso lo schermo del portatile e si è seduta sul letto, quando finalmente gli ha detto che era spacciato, ma con un sacco di parole in più, Geremia si è sentito sollevato.
Ci ripensa Geremia, mentre accelera per superare un filare di pioppi. Forse è stato il giorno più bello della sua vita. Sono spacciato, si ripete muovendo appena le labbra. Non c’è più niente che possa fare. Neanche se studiassi giorno e notte. Sono spacciato.
Geremia ha quattordici anni e un’estate che a maggio è già iniziata.

Il padre di Geremia è commercialista. Sua madre lavora come segretaria in uno studio dentistico abbastanza noto. Ne hanno parlato a lungo, della busta, del colloquio con i professori, del fatto che se lo aspettavano. Geremia è uno di quelli che parte sempre male, e poi all’ultimo recupera. Niente di diverso dagli altri anni, quindi. Non è facile, deve impegnarsi, ma i genitori di Geremia sono sicuri che ce la farà.
Dopo cena la madre di Geremia telefona a un’amica che insegna alle medie. Si segna il numero di un professore in pensione sulla pubblicità del tonno in offerta. È severo ma bravo, le assicura l’amica.

Se sei spacciato, fare ripetizioni è uno spreco. Di soldi e di tempo. La madre di Geremia però continua a insistere. Si fa promettere che andrà da questo professore, che si impegnerà. È severo ma bravo, gli dice.
Geremia mette i venti euro in tasca, e accende il motorino.
La casa del professore si trova in un ex quartiere popolare, pieno di condomini squadrati e giardinetti deserti. Geremia passa davanti al palazzo in cui abita il professore, guarda le tapparelle abbassate cercando di indovinare in quale penombra si nasconda, e tira oltre.
Geremia ha quattordici anni, un’ora di libertà, e il pieno pagato.

Supera l’autolavaggio e l’IperLando. Arriva all’aeroporto, un piccolo aeroporto per ultraleggeri, e per un tratto corre parallelo alla pista di decollo. Pensa a come dev’essere staccarsi da terra.
Quand’è che finisce un salto / e comincia il volo?
Pensa che in un’altra vita gli sarebbe piaciuto fare il pilota d’aeri.

Si ferma subito prima del cavalcavia, dove la strada comincia a salire. Lascia il motorino sul marciapiede e si toglie il casco. Rimane a guardare il traffico di macchine che tornano verso casa. Una ragazza strattona il guinzaglio del cane perché non gli pisci sulla ruota del motorino. Si guardano, non dicono nulla.
Dei paletti di ferro a U rovesciata separano il marciapiede dalla strada. Legato a uno di questi, un mazzo di rose bianche. Sembrano vere, alcune già fiorite, altre ancora bocciolo. Sui petali e sulle foglie, gocce di plastica trasparente. In un altro giorno, in un altro momento, sarebbe sembrata rugiada. Ma in quel caldo crepuscolo di metà maggio sembrano solo gocce di plastica trasparente.
Geremia sfila con cura una delle rose, attento a non rovinare la simmetria del mazzo. La mette nello zaino e riparte verso casa.

Prima di rientrare in casa, Geremia prende una delle versioni del primo quadrimestre e la mette nel quaderno ad anelli delle ripetizioni. Nel caso sua madre si metta a controllare. Durante la cena racconta che il prof continuava a dargli del lei, ma a parte questo era un tipo a posto. Severo ma bravo. Ridono tutti per la storia dell’acqua e menta. Praticamente Geremia è appena entrato, e quello la prima cosa che gli chiede è se vuole un bicchiere di acqua e menta. Lui dice di no, che l’acqua e menta tra l’altro neanche gli piace, ma il prof pensa che sta facendo complimenti, e dopo il terzo no gli porta un bicchiere pieno fino all’orlo di questa cosa torbida.
Torbida?
Giuro, sembrava fango. Io non so se era il bicchiere sporco o cosa, ma non ci vedevi attraverso.
E allora?
Niente. Ho aspettato che si alzava per andare in bagno e l’ho versata in un vaso. Ne ho tenuto giusto un po’, che non pensava che ne volevo ancora.
I genitori di Geremia tra cinque anni divorzieranno, ma per ora si ritengono, a ragione, una famiglia felice.
Come hai detto che si chiama di nome il prof?
Bella domanda. L’ho sempre chiamato prof.

Geremia si spinge fino ai limiti della provincia, oltre i colli. Rimane in centro, superando le macchine in coda al semaforo. Si perde nei quartieri residenziali della prima periferia. Gira in tondo lungo la tangenziale come la biglia di una roulette.
Geremia non ha una meta, ma sa benissimo cosa sta cercando.
Per giorni interi capita che non trovi nulla, e poi in un pomeriggio ne trova tre, a distanza di pochi metri. Aspetta che la strada sia libera, sfila un fiore da ogni mazzo e lo mette nello zaino.

I fiori finti sono come i funghi. Ci sono posti in cui si trovano facilmente, e altri in cui è difficile. Spesso nascono a gruppi. E si moltiplicano dopo le giornate di pioggia. Geremia per esempio ha capito che i fiori finti crescono più facilmente sul guard-rail di una curva alla fine di un rettilineo. Viceversa è raro trovarne vicino all’uscita di una scuola elementare. I lunghi viali alberati sono posti in cui se ne possono trovare diversi, attaccati con del nastro da pacchi alla corteccia di un platano, o appoggiati alle radici di più alberi. Per Geremia non fa differenza, sono tutti preziosi allo stesso modo. Prende un fiore per mazzo, e riparte.

Le ripetizioni dal prof non sono così male. C’è un gatto grasso e fulvo che si chiama Ovidio e che si accoccola sempre sulle sue gambe durante le lezioni. La madre di Geremia è sollevata, la preoccupava quel professore severo, temeva che non sapesse prenderlo per il verso giusto.

Ha diverse rose, Geremia: gialle, bianche, rosse, perfino una blu. E girasoli, calle, gerbere. Ha fiori sgargianti, o consumati dal sole. Anche qualche fiore secco, che tiene tra le pagine del vocabolario perché non si rovini. I più rari da trovare, comunque, sono i fiori freschi.
Quando li trova rimane a fissarli, immobile, fino a quando è sicuro di riuscire a trattenere le lacrime.
I fiori freschi sono ricordi freschi, si dice.
Si guarda intorno, come se chi li ha lasciati fosse ancora nei paraggi, ma tutto quella che trova sono delle schegge di vetro sparse tra l’erba.
Mentre riparte col motorino, si promette che passerà a sostituire i fiori, quando si saranno seccati.

Un pomeriggio Geremia si apposta davanti alla casa del prof. Vuole vederlo. Se ha gli occhiali, i baffi, come cammina. Ha una tuta di pile bordò e una vestaglia a scacchi, o camicia, gilet e occhiali di corno?
Si siede su una panchina dall’altra parte della strada, e aspetta guardando il cellulare.
Una signora col passeggino. Un uomo sulla cinquantina in giacca e cravatta. Un muratore con un caschetto giallo. Una coppia di anziani con una borsa della spesa, probabilmente vuota. Una ragazza che sta litigando al telefono. Un vecchio con bastone e passo incerto.
Geremia gli si avvicina, gli parla, torna a sedersi.
Di nuovo il muratore, senza caschetto. I vecchi con la borsa della spesa, probabilmente piena.
Geremia attraversa la strada. Legge i nomi di tutti i campanelli. Lo fa sorridere la famiglia Frigo-Calore. Si decide a suonare il campanello del prof. Ha un piano perfetto: si presenterà con un nome finto (Fabio Glera), dirà che vuole informazioni per delle ripetizioni, guarderà in faccia il prof quando lui gli aprirà la porta, racconterà delle sue difficoltà con Tacito per prendere tempo e riuscire a studiare l’ingresso, il salotto, forse la cucina, e se ne andrà.
Chi è?, gli chiede una voce di donna.

La provinciale che passa vicino a casa di Geremia è abbastanza monotona. Vecchie case sulla sinistra, sulla destra un canale, e poi campi. L’unica cosa degna di nota sono quei segni neri sull’asfalto. Due unghiate nere che invadono l’altra corsia, e scompaiono a mezzo metro dal fosso.
La strada è deserta, il cielo è terso, e in lontananza si sentono le tortore tubare. In mezzo a tanta pace quelle tracce di pneumatici risaltano come una cicatrice. Geremia accelera, le ricalca con il motorino, inchioda, sente la ruota posteriore slittare. Rimane immobile sul ciglio della strada, col cuore a mille e il fiato corto.

Una mattina, invece di andare a scuola, Geremia prende la statale che va fino al mare. La strada sembra lunga infinita, col suo cinquantino. Le macchine gli sfrecciano accanto, e i tir lo fanno sbandare. Geremia però non ha paura. Sa già che morirà in un incidente stradale, e questo gli dà sicurezza.
È difficile dire perché Geremia sia convinto che morirà in un incidente. Forse perché è il tipo di morte che gli è più familiare. Sono già tre le persone che conosce, morte in un incidente. Il padre di Gaia, una sua compagna di classe. E poi Giacomo e Jacopo (Jack&Jack, della III C). Ai funerali c’era così tanta gente che erano finiti i posti a sedere. Uno dei prof aveva letto una poesia, e qualcuno aveva detto qualcosa sul fatto che erano speciali. Le ragazze piangevano, e i ragazzi facevano i duri fissando un punto in alto, sopra il crocifisso. Se proprio bisognava morire, era comunque un modo figo.
Sì, c’era anche suo nonno che era morto l’inverno scorso. Ma suo nonno era vecchio, aveva un tubo per mangiare e uno per pisciare, e da anni non riconosceva più nessuno. Quella non era una morte che capita a un essere umano. Era un qualcos’altro, che capita a un qualcos’altro.

Quando trova un mazzo di fiori lungo la strada, Geremia cerca di immaginarsi cosa sia successo.
A volte è molto semplice. La strada che curva, il guard-rail piegato.
Altre volte è difficilissimo. Una strada dritta, larga, senza alberi, né incroci. Come ci è finito lì, quel mazzo di fiori finti? Come si fa a morire in una strada dritta, larga, senza alberi, né incroci?
Geremia guarda la strada, e prova a sovrapporre. Una pioggia torrenziale.
Un cane che attraversa la strada.
Un malore.
Un colpo di sonno.
Una telefonata.
Una canzone di merda alla radio.
Un pallone volato oltre la siepe.
Due spritz, tre bicchieri di rosso e un Montenegro.
Una lastra di ghiaccio.
Un messaggio per avvertire del ritardo.
Una ruota bucata.
Una macchia d’olio.
Nebbia.

Oltre a Ovidio ora esiste anche Ester, la moglie del prof. Se i genitori di Geremia potessero vederla, se potessero vedere come se la immagina, si renderebbero conto che si tratta semplicemente di una versione sposata della zia Betta, con gli stessi capelli raccolti in una crocchia mentre inforna gli stessi tortini di pasta sfoglia e mele.
Ormai Geremia va a ripetizioni dal prof tre pomeriggi a settimana. I risultati però non sembrano incoraggianti: a parte un 7 ½ in interrogazione, le ultime versioni hanno portato solo altri 4 e 5. Durante la cena il padre di Geremia esprime dubbi sulla preparazione di questo professore, e anche sulla sua severità. Per paura che i suoi arrivino alla conclusione che è inutile continuare con le ripetizioni, Geremia sbandiera un bel 6 – nell’ultimo compito in classe. Bravo, gli concede suo padre con il sorriso tirato di quando l’Inter prende un gol.
Del resto, è da un po’ che non c’è più niente di vero in questi resoconti scolastici con sottofondo di telegiornale. Non sono vere le noiose lezioni di storia, i compiti a sorpresa di matematica, le partite a pallamano durante le ore di educazione fisica. Non esistono le sessioni di studio a casa di Giulio, non esiste più nemmeno Giulio. I compiti segnati sul diario sono oracoli da un mondo immaginario, quello che i suoi genitori voglio continuare a sentirsi raccontare. Ma nel mondo di Geremia i prof, i compagni, la scuola, la scuola con i suoi cancelli scrostati / le bici ammassate in cortile / le scritte sui muri che per anni raccontano / storie di giorni, non esistono più. La strada stessa che la collega a casa è interrotta.
È inizio giugno e Geremia ormai non va più a scuola da due settimane.

Geremia strappa da un paletto catarifrangente il bocciolo di una rara orchidea e lo infila nello zaino.
Geremia ha quattordici anni, e non è mai stato così felice. Lo sa, lo sa benissimo che non si sentirebbe così, se non fosse spacciato. Anzi, l’unico pensiero che riesce a turbare tanta serenità, è che non sarà spacciato per sempre. Una delle prossime sere la preside telefonerà a casa e chiederà ai suoi genitori se sanno che Geremia non va più a scuola da settimane. Scopriranno che dal prof non ci è mai andato, che si è intascato i soldi delle ripetizioni. E se anche la preside non telefonasse mai, se anche i suoi genitori non scoprissero mai niente, comunque.
Comunque a settembre comincerà un altro anno. Di nuovo compiti, versioni, interrogazioni. Potrebbe cambiare scuola, trovarne una più facile, e lo stesso non cambierebbe.
Non è lo studio, quello da cui Geremia sta scappando. Non sono neanche la responsabilità, le attese che si sente addosso quando i suoi gli chiedono Che hai fatto oggi durante Che tempo che fa.
Di fatto Geremia non sta nemmeno scappando.

La madre di Geremia aspetta che si chiuda in bagno, aspetta di sentire l’acqua della doccia scrosciare, e apre lo zaino. La preoccupa quello zaino dal quale non si separa da settimane.
Quando Geremia entra in camera la trova immobile, con lo zaino in mano e un bouquet di fiori finti, un mazzo di girasoli / tulipani / ortensie / di plastica, che sporge oltre la cerniera.

Geremia, per come lo conosce sua madre, ha smesso di esistere nel momento in cui lei ha aperto lo zaino. All’improvviso è più adulto, più infantile, più forte, più fragile. È un figlio nuovo con cui ricominciare da zero.
Si sforza di riconoscerlo e gli chiede: Perché?