Chi le cura le bouganville?

Ecco le due cose che più mi piacciono al mondo: come fa l’amore e come chiude gli occhi ai morti.
È un peccato che quest’ultima faccenda l’abbia scoperta solo adesso. Anni insieme e il meglio doveva ancora arrivare.
«Credevo fosse un gesto consumato nel significato da serie tv poliziesche mandate in onda a rotazione» vorrei dirgli. Ma non mi esce, figuriamoci. Una sottile riflessione sulla produzione seriale contemporanea in un momento così. Posso solo stare ferma in un angolo a guardare la Madonna.
Muore così Ciro Aiello, agente immobiliare. Sotto un’edicola sacra contenente una Madonna in terracotta soffocata da corone di fiorelloni di plastica. Questo ragazzo sembra un bambolotto, rigido e snodato allo stesso tempo, seduto con la schiena diritta e le suole delle scarpe rivolte verso di noi.
«Magari apprezzava certe finezze caravaggesche» vorrei dire, ma non mi esce, figuriamoci, umorismo nerissimo, ma come mi è saltato in mente, mi viene da vomitare.
Per fortuna lui mi distrae facendo questa cosa sexissima del chiudergli gli occhi come un virile eroe della Scientifica di Los Angeles animato da insospettabile pietas. Dopo avergli donato la pace tenta di dirmi qualcosa ma non gli do la giusta attenzione: c’è qualcosa di inusuale nella faccia di quella Madonna, più in estasi stile Santa Teresa che sofferente come le Madonne sue colleghe. Non sono sicura.
«Non riesco a sentirti, amore, mi dispiace» vorrei dirgli, ma non mi esce, figuriamoci. Una tragedia nella tragedia: ho dimenticato gli occhiali da sole, e ho male agli occhi, e non aspetto altro che il momento in cui finalmente tramonterà e potrò tirare un sospiro di sollievo.
Non riesco proprio a sentirti, amore.
Sta guardando su e giù. Siamo in mezzo a quella che, più che una strada, è un concetto.
La via Pedamentina unisce due punti di Napoli che credevo non-collegabili. Quando lo scopri ti coglie una sensazione simile a quella di quando scopri che con la Appia mezza Italia era a portata di mano. Sei piccola e piena di meraviglia e di voglia di spostamenti prima solo ipotetici.
Il tetto di Napoli e il suo pavimento sono collegati da 414 gradoni di pietra scavati nella collina, profondi scalini da cinque passi ognuno prima di arrivare al successivo. Un uomo, nel ‘500, pensò che fosse una buona idea. Avrà pensato di passare alla storia, forse è stato così. Però, spettabile antenato, hai dato la morte a Ciro Aiello e magari potevi arrivarci con il solo uso dell’intelletto: unire due luoghi lontani è un’idea bellissima, costruirci le case non tanto.
«Le scale non sono mai la prima scelta e, di fatto, non esistono se non è strettamente necessario o se l’ascensore è rotto o se la funicolare è guasta o in caso di incendio. Sulle scale non ci si insedia» vorrei dire, ma non mi esce, figuriamoci.
La città dall’alto è un olio su tela di discreta fattura, non trasmette poi molto così svuotata di vita. Una curva per il golfo, un’altra per il Vesuvio, molte più piccole e vicine per il mare, è questione di geometria. La vita è lontana, molto lontana, decine di rampe più sopra o più sotto. La via Pedamentina è una tromba di scale a cielo aperto e noi siamo nel mezzo, e moriamo e sudiamo.
I mocassini di Ciro Aiello sono soltanto made in Bangladesh, come chiunque si trovasse a passare potrebbe evincere dall’incisione sulle suole. Ma non passa nessuno, le signore non stendono i panni ad asciugare e non portano in casa le buste della spesa o le confezioni da sei di acqua frizzante. La vita è molto molto lontana, nonostante le case intorno a noi.
Qualche finestra è aperta. Lui corre sudato verso un portone, mette le mani a coppa attorno alla bocca, vuole farsi sentire da qualcuno e io non lo sto aiutando.
Rimaniamo da soli io e te, Ciro Aiello.
Ciro Aiello, estimatore caravaggesco. Il chiaroscuro non ti rende omaggio, nel luglio napoletano. Non fai un centimetro d’ombra. Sei tutto in bella vista e affatto misterioso, ogni curva del viso in evidenza e quasi annullata da questo biancore diffuso. Pure tu grumo di geometria senza molto da dire. Stai sudando, Ciro Aiello. Avrai non più di 30 anni e sei morto per una provvigione su un affitto di 550 euro. Non eri un tipo atletico. I dirigenti Tecnocasa lo sapevano? Perché allora affidarti le case sulle salite? Temo non lo sapremo mai.
Sulla Pedamentina riposa il malato di cuore, tant’è.
Sole e quaranta gradi e centopercento di umidità e case che sembrano disabitate come i set dei film western: solo le facciate e dietro scatoloni abbandonati e oggetti di scena.
Chi le cura le bouganville?
Qui è pieno di bouganville su ogni lato, fucsia come un’eruzione cutanea. La Pedamentina ci era sembrata bella per questo. La settimana scorsa, dopo soltanto una rampa e mezzo in discesa, ci siamo fermati sotto una finestra che sputava bouganville: veniva fuori buona musica. Ci era bastato per decidere.
«Credo che con questo caldo stia andando già in decomposizione» vorrei dire e, oddio, l’ho detto, m’è uscito, ma non c’è nessuno ad ascoltare. Che peccato. Lui sta suonando citofoni a caso, non rispondono cristosanto, e io potrei aver detto le mie ultime parole a Ciro Aiello e alla Madonna e non al ragazzo con cui voglio passare i giorni e le notti.
Quando torna gli indico l’agente immobiliare. Dice che sembra stia già andando in decomposizione.
Ti amo per questo, grazie.
Ma non possiamo spostarlo da nessuna parte, non c’è riparo e sembra irrispettoso trascinarlo via da quella che è in tutto e per tutto una tomba con già la Madonna e i fiori e le luci eterne predisposte. Lui gli si accovaccia a fianco e lo guarda, come per chiedergli consiglio.
È in questo momento di calma che vedo un gatto. Si avvicina lento, lungo uno dei parapetti di pietra.
Da quei parapetti un occhio allenato può riconoscere tutte le strade della città.
C’è questo gatto di un bianco perfettamente ritagliato nel blu del cielo. Sembra affamato e sudato. Temo che nemmeno la Madonna potrà salvare Ciro Aiello.
Capisco ora, soltanto ora, cos’ha di strano la Madonna. Non è triste, non è in estasi.
È sudata, pure lei.
Mi esce qualcosa dalla bocca, un gemito forse, proprio quando il gatto è su Aiello con un balzo.

Mi era sembrata una buona idea andare a vivere insieme. Mi sembra ancora. Quando me l’aveva chiesto avevo pensato ai piatti.
«E i piatti? Dobbiamo comprare i piatti? Le pentole, le posate, i bicchieri. Ogni giorno dovremo fare la spesa e registrare dei contratti a nostro nome, ad esempio quello del gas. E pagarci la bolletta. Dovremo pensare persino a cose come il dentifricio e la carta igienica. Potrebbero finire i cotton fioc, un mattino. E non esserci latte per la colazione. Non ho mai pensato alle tende. Si può fare l’errore di sceglierle del colore sbagliato e comprarle di buona qualità, non da Ikea, e trovarsele così ogni giorno per anni davanti agli occhi, un pugno alla decenza e al senso estetico, e non avere il coraggio di disfarsene. Scope e scope elettriche e strumenti per aggredire la polvere e medici della mutua e file all’ASL, postini che non trovano il tuo cognome sulla cassetta delle lettere» questo avrei voluto dire, ma non mi uscì, figuriamoci, ero felice e ci baciammo.
Non credo che i postini arrivino sulla Pedamentina.
Salendo, alla terza o quarta rampa, Ciro Aiello, affannatissimo, ci ha mostrato un cartello scritto a mano, appeso lungo un muro

RACCOGLI I BISOGNI DEL TUO
CANE NESSUNO SPAZZINO LI RACCOGLIERÀ PER TE

Gli spazzini non salgono sulla Pedamentina. Tecnocasa gli ha insegnato a farla sembrare una cosa raffinata.
«Quassù è un mondo a parte, molto riservato e silenzioso» ha detto.
«Quassù è a parte, sul mondo non ci giurerei» gli ho detto io.
«Potreste avere qualche problema con la rete telefonica, infatti» mi ha risposto.
Infatti non possiamo chiamarti un’ambulanza, Ciruzzo.
Stiamo per un po’ fermi, io e lui, con le mani sulla fronte e il sole in faccia, come durante una gita in barca.
«Dovrei andare a cercare aiuto» fa lui.
Gli risponde un allarme lontano. Qualcuno forse ruba la macchina di qualcun altro. Mi sembra un’interazione sociale bellissima.
«Non voglio restare sola col fu Ciro Aiello» vorrei dire, ma figuriamoci, esce fuori un suono molliccio come un lombrico.
«Non possiamo lasciarlo qui» fa lui sfiorandogli la nappina del mocassino.
«Non è colpa nostra, non l’abbiamo ucciso noi. È stata la salita, no? Unita a un difetto congenito al cuore o al polmone» dico piangendo, lo dico davvero.
E ci abbracciamo e gli piango sulla maglietta singhiozzando e sbavando un po’. Mi nascondo tra le pieghe del tessuto cercando di non guardare i segni rossi che il gatto ha lasciato sulla faccia morta di Ciro Aiello. Pure lui se ne è procurati un paio sulle braccia, per proteggerlo.
«Se andiamo via tutti e due il gatto tornerà.»
«Mpfh» gli rispondo.
«E poi quando tornerò con i soccorsi sarà evidente che non abbiamo niente da nascondere e ci siamo presi cura di lui fino all’ultimo. Il nostro nome sarà sul calendario dell’agenzia immobiliare, tra gli appuntamenti. Vorranno sapere come sono andati i fatti, sia che ci trovino sul posto che no.»
«Mpfh.»
«Brava. Allora io scendo, ci metterò un po’. Appena c’è di nuovo campo chiamo la polizia.»
Si allontana. Ha la maglietta zuppa di sudore.
«Mi dispiace» dice.
«Volevo soltanto vivere insieme» dice.
Rimaniamo da soli, io le bouganville e Ciro Aiello.
Il gatto non si fa più vedere.

[Questo racconto è stato pubblicato originariamente nel numero 56 di inutile. opuscolo letterario, gennaio 2014.]