Vagheggiava. Da dietro le tendine verde salvia, avanzo d’un copridivano, Claudia spiava Nicola che sudava e faceva di no con la testa a un piccione. «Amore mio, amore mio infinito», gli sussurrava alitando sul vetro, «presto non soffrirai più, né il caldo e né niente». Mancava poco all’ora del tramonto, appena di più alla soddisfazione della sua attesa ventennale, sebbene nell’ambito di un ménage à quatre tecnicamente non classificabile come scambio di coppia.
Lui stava lì, su una panchina sotto i portici, illuminato dal basso. In ritardo, a valutare il tempo dello spirito, lievemente in anticipo, a considerare gli orologi del tempo inerme. Dal cielo scendeva un’aria punitiva, misto lana. Da terra, da quel pavé di pietra bruno rossiccia, salivano miasmi barocco-piemontesi, quasi sulfurei, forse massoni, di sicuro malsani. In giro non c’era nessuno. Lui aspettava lei, lei avrebbe guardato solo lui
Vaneggiava. Nicola come un omino sperduto di un quadro di de Chirico e lei la sua musa, la sua musa manichina. Non era lei forse, in quanto sarta, musa manichina per meriti professionali? E lui era l’amore suo, l’amore suo infinito, l’esotico urbanizzato che l’avrebbe strappata alla sua vita tesa come una pianura e innalzata alle più boscose tra le cime.
Farneticava, felice come non mai.
Segnava le otto meno venti l’orologio del campanile. Nicola sudava su una panchina per metà in ombra e intanto si chiedeva se Claudia, che non vedeva da almeno vent’anni, si sarebbe accorta dei suoi capelli tinti, forse dissonanti rispetto alle inequivocabili rughe attorno agli occhi, al franco doppio mento e alla schietta pancia che esibiva suo malgrado. No, era impossibile. Lui si recava con regolarità nel capoluogo di regione da un parrucchiere colorista espertissimo che non solo tingeva il capello, ma ne ravvivava la struttura stessa. Non saltava un appuntamento, a casa utilizzava solo shampoo color live; il casco corvino che gli pesava sulla testa era tanto vibrante quanto insospettabile. No, no e poi no. Lui non si tingeva affatto.
C’erano ancora due problemi da risolvere prima di correre incontro all’amore: confezionare la bottiglia di prosecco messa in frigo già dal mattino e scegliere le scarpe. Per il primo, Claudia aveva preso un foglio di cellophane, il materiale plastico delle occasioni speciali, e un nastro in gros grain di un tono appena più scuro dell’etichetta. Grazie a questa operazione era certa di rispondere in modo educato alle regole della buona socialità per le quali nutriva viva attrazione e acuta incompetenza fin dall’infanzia, da quando cioè giocava tra i trattori del padre fingendo di vivere a Versailles come contessa tra le principesse. Il secondo dilemma pretendeva da lei approfondite speculazioni. Fino a che punto l’eleganza avrebbe ostacolato l’audacia e in quali circostanze l’avrebbe invece favorita? Quale messaggio avrebbe trasmesso indossando i sandali piatti di uno stilista giapponese e quale invece un paio di peep toe di Alexander McQueen? Di una cosa soltanto era certa: il desiderio ventennale verso un uomo che conosceva appena e che pertanto le era destinato dall’eternità non le concedeva la comodità delle mezze misure.
«Che male c’è nel desiderare qualcuno che si conosce appena? Semmai, è male il contrario.»
Serviva una quarta, possibilmente caruccia, necessariamente riservata. L’alternativa di cercare tra gli annunci specializzati, o peggio ancora di pagare una professionista, avrebbe compromesso quel minimo di intimità a cui tenevano più dell’atto in sé. Mirella, decisionista per zelo di ospite e non per superbia, aveva preso in mano la situazione: «Quella mia sartina, di cui sono cliente, minuta ma ben fatta, eppure tanto sola. Secondo me c’ha di quelle voglie… Umile, umile, tra l’altro. Ecco, è perfetta. Io la invito, poi da cosa vedrai che nasce cosa. Si chiama Claudia, mi sa che la conosci». E sì che Nicola la conosceva, per vicinanza anagrafica e taluni incroci all’oratorio, vuoi per un torneo di pallavolo, vuoi per incombenze di catechesi; soprattutto la ricordava perché lei aveva passato un intero pomeriggio a fissarlo mentre lui giocava a calcio con i suoi amici e all’inizio gli era sembrata molto bella sia lei sia la situazione, ma dopo un’ora quell’immobilità da madonnina di gesso l’aveva angosciato e infastidito, rendendo molto brutta sia lei sia la situazione. Così da quel giorno l’aveva evitata, quindi dimenticata.
Non poteva dirsi lo stesso di Claudia, che di Nicola si era dichiarata sposa fin dall’età puberale, da quando cioè lui era apparso, un giorno di fine estate, nel bar sulla piazza insieme al padre, nominato nuovo preside del liceo e in completo kaki come il figlio, e alla madre, a stento compresa tra i braccioli di una seggiola «Sammontana», bionda e lattea, ricoperta di sudore luminescente, una mano al petto, l’altra ad azionare un ventaglio con il ritmo a tre tempi della voluttà affaticata. Insomma, costoro avevano portato nel laborioso nord quel sud segreto fatto di orzate e di sonnellini diurni vissuti senza sensi di colpa e Claudia ne era rimasta abbagliata. Addirittura, così si diceva e lei non aveva motivo di dubitarne, chi andava a casa loro si vedeva offrire sempre un vassoio di paste fresche, anche se non era domenica. Ma a casa di Nicola, Claudia non era mai stata invitata, ricacciata dal consesso dei coetanei nell’operosità dei suoi corsi di cucito Singer, che pure non aveva rifiutato come destino. Erano piuttosto i Ferrero Rocher offerti ai rari ospiti e contati di sottecchi dalla madre, le carte oleate dei formaggi ripulite e impilate nei cassetti per futuri utilizzi, l’asfissia del «non si sa mai» e la stesa del letame in primavera, le tradizioni millenarie a cui lei aveva giurato di sottrarsi. Ed era insomma l’amore per Nicola molto bello e molto brutto, a seconda che si confrontasse con ciò che avrebbe voluto essere – la sua essenza – e ciò che, suo malgrado, era.
Bisognava riprendere le misure a Mirella, per via che si era rifatta il seno. Era avvenuto in quell’occasione l’adescamento, con movimenti concentrici via via meno ampi, a partire da un innocente «cosa fai sabato sera?», e culminanti in un dettagliato «da quando Nicola è stato lasciato dalla fidanzata ci manca una quarta per i nostri, ehm, ‘giochi’ e tu saresti perfetta, perché lui si ricorda di te e già gli piaci». Un rituale d’amore che Claudia aveva accompagnato allungando e stringendo il centimetro sotto le ascelle della sua cliente.
«Da quando Nicola è stato lasciato dalla fidanzata» era risuonato nel laboratorio come il mare di notte; il suo «Sì, volentieri», come i bottoni di madreperla in una scatola d’argento.
Alla fine, aveva scelto le peep toe – à la guerre comme à la guerre, s’era detta – e le aveva abbinate a un rigoroso chemisier smanicato di sua produzione. Il pendant non la soddisfaceva appieno, ma rimandava a quel paio di simbolismi con cui, in piena consapevolezza, aveva conformato la sua vita tutta tesa a migliorarsi per ottenere la patente di sposa degna di Nicola. E dunque, dal fatale incontro con lui, e poi dal saggio di danza in parrocchia che la vide in ultima fila, senza chignon perché aveva preso i pidocchi, con un fondotinta arancione acquistato dalla tabaccaia e pietosamente steso a coprire i primi foruncoli, Claudia aveva scelto per sé un’andatura non sua, controllata, a passetti leggeri. In certi giorni d’estate si vantava di essere riuscita con la sola forza della volontà ad arroccarsi su un 36, massimo 36,5 – chissà s’era vero – sfoggiando così, tra le caviglie, i tarsi e i metatarsi sapidi come pan bagnat delle sue simili, certi piedini asiatici di sicuro sex appeal. Si riteneva, a torto o a ragione, una Mimì Ayuhara del Buoncammino. Quanto alla smisurata autoproduzione di chemisier, l’origine era da ricercarsi in una biografia romanzata di Maria Antonietta, sottratta a una cugina savonese, dove aveva scoperto l’abitudine della sovrana a indossare nel tempo libero lunghe camicie bianche di foggia maschile, del genere di quella selezionata infine per la decollazione fatale. E così si era immaginata anche lei, pallida e composta, l’intera postura forgiata nella dignità, incedere tra la folla scorreggiona, insufflata di etica e votata ad accedere nell’aldilà munita di pattine, con la sprezzatura compassionevole di chi sa di svettare come gladiolo tra i pisciacani. Prima o poi, Nicola si sarebbe accorto che era lei la donna perfetta per lui.
La ricordava più insipida. Certo, di seno era manchevole – ovvero, per riportare il suo pensiero: «C’ha un cazzo di tette» – e le gambine ossute lo riportavano a tempi di carestia visti in tv, mai sperimentati di persona, ma quei due tacchi sinceramente puttaneschi, che un po’ la slanciavano un po’ l’affossavano, facevano presagire certi incastri acrobatico-mignon che lui non si voleva perdere; perciò: «Ciao, ti trovo in forma».
Ma come sempre, quando la gravità della pratica disturba i volteggi dell’immaginario, specie se di natura erotica, sorgeva un problema: «Senti, non ho preso la macchina, pensavo di andare a piedi. Tu con quelle scarpe ce la fai a camminare?»
«Sì, male che va mi dai il braccio. Passiamo dal centro?»
«No, facciamo l’altra strada».
Passeggiavano a braccetto Claudia e Nicola in una via né in centro né in periferia, intitolata alla Santa che conobbe in vita terrena tanto i rapimenti dell’estasi quanto i tormenti agonici delle privazioni, sotto un sole vespertino ma ancora dominate, per andare a trovare un altro uomo e un’altra donna che nel frattempo regolavano il termostato del climatizzatore – «Di più», «No, di meno» – con l’obiettivo di rinfrescare l’ambiente e incendiare la passione.
Nicola quell’ossuto di un braccio attaccato al suo non lo sopportava più e si era fermato con la scusa di una sigaretta. Aveva chiuso gli occhi e tentato di attirare su di sé un’inesistente frescura. Claudia lo fissava, ipnotizzata dai riflessi corvini dei suoi capelli, per i quali sarebbe morta. Ma doveva risvegliarsi dal sogno, capire i desideri del suo uomo e soddisfarli. Lui avrebbe voluto sedersi su una panchina all’ombra, togliersi la camicia di lino – fatta su misura, non da Claudia –, buttarla in un cestino, lasciarsi morire e poi risuscitare, ma la camicia gli era costata non poco, e allora gli sarebbe piaciuto restare vestito e attraversare la strada, avvicinarsi al cancello di un villino con la fontana in cemento anticato, indovinare subito la chiave tra le tante di un mazzo rigoglioso, entrare in un soggiorno di laminato, accendere il climatizzatore, buttarsi sulla penisola del divano Divani&Divani, salutare un’idea di moglie che poteva anche essere Claudia – e in quel caso le avrebbe regalato per Natale una mastoplastica additiva – bere una Coca Zero, fertilizzare le rose, sorridere molto, amarsi un po’ e buttare l’immondizia nei giorni stabiliti, con la regolarità delle buone evacuazioni. Nulla di tutto questo era trapelato a Claudia, che però cominciava a preoccuparsi: «Mi sembra che tu non stia bene».
«Ho solo caldo», aveva risposto lui, non sapendo spiegarsi meglio.
Si rammaricava Claudia di non aver messo nella borsa, oltre al prosecco, un leggerissimo e facilmente trasportabile bottiglino d’acqua, così da rinfrancare l’uomo della sua vita. Vent’anni trascorsi a cercarlo nel letto la sera e la mattina a preparargli la colazione come una geisha alla cerimonia del tè e alla prova dei fatti non avere neppure un goccio d’acqua per il suo amore! C’era di che piangere per altri vent’anni. Non restava che volgere gli occhi a un cielo di maiolica, invocare grazia e aiuto, ricordare osservando gli altocumuli puntiformi di non aver passato l’anticalcare sulle piastrelle del bagno e mormorare: «Tutta una mancanza, sono tutta una mancanza!» Il disastro era completo, forse non definitivo: «Appoggiati tu a me, Nicola. Pian pianino arriveremo».
Erano le otto della sera di una fine di luglio e i rondoni, uccelli migratori che quando s’accoppiano è per sempre, seguivano le loro traiettorie sgangherate e non per questo inefficaci. Fuori dai villini e dai condomini – massimo tre piani – i cani, i gatti, gli scivoli, le piscinette, le casupole di plastica, le cucce, la categoria ossimorica degli arredi da giardino, s’inginocchiavano tutti al miracolo del «finalmente!» aprendo bocche, pori e interstizi ai presagi d’una frescura che si avvicinava benedetta. Nicola respirava. Inspirava con il naso e coi polmoni l’aria e i rumori delle case, delle case di ambo i lati, una fanfara di piatti e di posate, di telegiornali e di voci ignote e chiare nei loro intenti: non un rimprovero, non un’accusa, non un silenzio rancoroso, solo speranza. Nicola voleva piangere e tornare a casa, riposarsi, immergersi nei suoi comfort, ma non capiva se ci sarebbe riuscito da solo o se avrebbe dovuto chiedere a Claudia di accompagnarlo. Che debolezza, che paralisi decisionale. Sentiva solo che il paradiso era un passo, ma che per fare quel passo avrebbe dovuto fare meno caldo.
Davanti a lui, dietro a un cancello, un golden retriever maschio e chiaramente alfa, spruzzava feromoni vuoi su una siepe, vuoi su un nasturzio, mentre il suo padrone bagnava il prato con vigile mollezza, attento a sciacquare l’urina non appena si posava, affinché non nuocesse al manto erboso o, peggio, non contaminasse i piedini scalzi della progenie che gli gironzolava attorno. Nicola, ancora aggrappato a Claudia, si lasciava trasportare – pian pianino – riflettendo sull’evidente condizione beta del maschio irrigante – vale a dire: «che due coglioni bagnare il prato» – senza, però disprezzare la disinvoltura con cui sgrullava il tubo smeraldino, e anzi invidiando la rilassatezza con cui abitava il mondo, il giardino di sua proprietà, la piccola comunità su cui agiva come patriarca, segni evidenti che, a differenza di lui, «quello per scopare non deve uscire con ‘sto caldo». Insomma la domanda complessa sottintesa ai suoi pensieri semplici così si configurava: voleva essere lui quell’Adamo irrigante, scimmia evoluta e fanciullesca, a cui bastava esistere, riprodursi e nutrirsi per essere felice? Non lo sapeva, con un caldo del genere non gli riusciva di capirsi.
A Claudia quel braccio sudato appoggiato al suo non dispiaceva. Certo era molliccio e pesante, ma nel suo abbandono ambrato e peloso racchiudeva come uno scrigno l’arabo delle Puglie che era in lui e di cui lei sarebbe stata, in sequenza: odalisca circassa, fidanzata da compagnia, moglie devota.
«Vedi Nicola, amarmi non ti costerebbe alcuna fatica – anzi.»
Quanto il sex appeal d’un paio di scarpe puttanesche può favorire l’audacia e quanto può invece ostacolarla? Lo si chieda al pruno che costeggia il marciapiede e alle sue radici sporgenti.
A cadere per prima era stata la bottiglia, poi lei. Claudia sapeva che aggrappandosi a Nicola le cose sarebbero andate diversamente, ma il caldo, il peso di un dubbio che ormai c’era e forse da sempre, le scarpe che insomma erano scomode e anche un po’ brutte, le avevano richiesto un impegno maggiore a restare in piedi che a cambiare di status e a ritrovarsi per terra. Nicola aveva seguito la parabola della bottiglia dalla borsa di Claudia all’asfalto, l’immediata formazione di una poltiglia di vetro, cellophane e ghiaia e infine il crollo quasi perpendicolare di lei, dapprima sulle ginocchia poi a carponi. Tutto sommato, era stato un bel guardare.
Alle otto e un quarto di una sera di luglio il cielo era sempre una maiolica, solo più opaca. Due volontarie accompagnavano a prendere il fresco lungo Via Santa Teresa, dopo la cena servita come da orario estivo alle sette, le più in forma tra le Buone Figlie della Divina Provvidenza. Si trattava d’un gruppuscolo di ritardate incanutite, orfane o abbandonate, che insieme ad alcune suore di buon cuore trascorrevano gli ultimi, lunghissimi, giorni della loro vita in comunità, odorose di talco. E in più, a volte, le facevano uscire!
Avevano seguito in corteo silenzioso la passeggiata di Claudia e Nicola e si accingevano ora a superarli:
«È caduta!», aveva detto una prima Figlia, segaligna.
«È caduta!», aveva ripetuto un’altra, grigia di baffi e di capelli.
«È caduta!», era stato l’eco di una terza, con labbro pendulo e bagnato.
«Shht!», sibilava in loop la volontaria in testa, il collo una tenda svolazzante.
«Andare avanti, andare avanti!», incitava quella in coda, i polpacci arabescati di vene varicose.
Claudia, felice di essere viva, restava carponi. Nicola provava a tirarla su, ma lei niente. «Oh ma stai bene?», le aveva chiesto infastidito. «Sì, sì. Figurati», l’aveva rassicurato lei, senza però alzarsi. «Senti, qua si fa tardi. Non puoi stare così, col culo per aria. La gente ti vede». Era vero, qualcuno già si affacciava dai cancelli, ma in quali condizioni si sarebbe mostrata? «Adesso mi tiro su. Scusa».
Di nuovo in piedi, Claudia contemplava le ginocchia e il vestito. Non era sorpresa di trovarli strappati e sanguinanti, e anzi era lieta che combaciassero perfettamente con l’idea di punizione che sapeva di meritarsi, per bilanciare le sue mancanze e ristabilire l’equilibrio del cosmo. Se l’amore di Nicola era un premio, e lo era, poteva dirgli addio. Svelato l’handicap, dichiarato lo stato di minorità, non le restava che scappare a casa. E così aveva fatto, scalza e zoppicante, all’inizio pian pianino, infine a passo svelto, quasi saltellando, perché se è vero, e lo è, che per un malato la cura inizia con la diagnosi, la constatazione che per lei l’unica possibilità di fondere vita reale e vita immaginaria era di non avere una vita immaginaria si configurava come un sollievo. Che stesse tranquilla, era al sicuro! Nessuno l’avrebbe condotta al patibolo: lei non era Maria Antonietta. Insensato per lei il martirio come prova di devozione: in paradiso solo munita di pattine – e per favore niente piaghe. Sfacciati i suoi tentativi di eleganza: eleganti erano le sue clienti e lei la loro sarta. Che abbandonasse pure ogni pratica di mortificazione: nulla sarebbe valso a innalzarla. Lasciasse perdere il suo amore per Nicola: solo a un allevatore pazzo sarebbe venuto in mente di accoppiare un pavone e una gallina ovaiola.
«Andare avanti! Andare avanti!» ripeteva la volontaria alle Buone Figlie, ma loro niente, continuavano la passeggiata con la testa all’indietro, divertitissime.
Alle otto e mezza di una sera di luglio il cielo si apriva e lasciava entrare la frescura; le ombre lunghe disponevano cose e persone a mo’ di avanzi in una terrina, pronti per essere serviti. Nicola pigiava il bottone di una plafoniera inossidabile, un occhio ceruleo si illuminava e una voce gli chiedeva chi era. Lui rispondeva che era lui e solo lui, perché quella scema se n’era andata e insomma toccava pagare. «Ma uffa», diceva l’occhio, «No, guarda, fidati di me», rassicurava lui, «meglio così».