Filomena non sapeva leggere l’orologio. Capiva che bisognava andare a dormire quando le campane suonavano le otto e in tv iniziava la sigla del telegiornale. Allora sua madre le preparava un biberon di camomilla, le infilava il pigiama e la accompagnava nella sua cameretta viola. Avevano dipinto le pareti per il giorno del suo compleanno, il quarto. Filomena aveva scelto il colore dal ferramenta e le era sembrato incredibile poter prendere da sola una decisione così importante. Aveva premuto il dito contro un quadratino color lilla in mezzo a tanti altri. Suo padre le aveva chiesto, sei sicura? E quando lei aveva fatto di sì col capo lui le aveva risposto che aveva buon gusto. Anche Filomena aveva avuto il suo pennello – doveva stare attenta a non macchiare i battiscopa, ma poteva sporcarsi i vestiti e camminare scalza sul pavimento coperto di giornali – con quello aveva scarabocchiato un po’ di linee storte poi si era dipinta i piedi.
Il tg raccontava storie brutte. Filomena lo sapeva perché le era capitato di guardarlo quando sua zia veniva a farle da baby sitter. La guerra era polverosa, c’erano gli uomini stretti sulle barche che sembravano formiche e i bambini scomparsi all’improvviso che nessuno sapeva ritrovare. Ne era sparito uno proprio vicino al suo paese, avevano appeso una foto anche all’ingresso dell’asilo dove i genitori lasciavano le scarpe. Era biondo e aveva le guance allegre, Filomena ci avrebbe giocato insieme senza timidezza. Sua zia le aveva regalato una palla di spugna da usare in salotto quando fuori faceva troppo freddo, la lanciava verso il soffitto per vedere se riusciva a raggiungerlo e capire se era cresciuta. Sua madre invece le faceva poggiare la schiena contro lo stipite del portoncino in ingresso, con una matita tirava un segno deciso sopra la testa e poi misurava la distanza che lo separava dal pavimento. Annotava tutto su un taccuino marrone, ne aveva tanti e non bisognava toccarli, era una regola.
Non si accarezzano i cani che non si conoscono. Le mani sporche vanno sempre lavate. Bisogna dire per favore quando si domanda qualcosa a qualcuno. Non si urla quando il papà è al telefono. Chi si infila le dita nel naso è un maleducato. Quando la mamma scrive le sue storie non bisogna disturbarla senza motivo. Tutti i disubbidienti filano in castigo sulla seggiolina verde.
Era poggiata contro la parete, sotto il bocchettone dell’aria condizionata. Una sedia piccola che Filomena e i suoi genitori avevano vinto alla tombola di Natale e sistemato in entrata per lasciare le borse degli ospiti o i berretti della bambina. Nessuno ci si era mai seduto, era troppo bassa per il tavolo in soggiorno e troppo alta per il banco di plastica rosa su cui Filomena si metteva a impastare il pongo.
Era stato durante un pomeriggio di fine luglio che il giornale aveva chiesto un pezzo extra a sua madre, uno sul bambino rapito, perché era estate e bisognava riempire le pagine di cronaca: piaceva alla gente, soprattutto quando era in spiaggia. La madre di Filomena, invece, odiava il caldo, gli imprevisti e occuparsi di cose che le mettevano paura. Doveva raccontare quello che già sapevano tutti soltanto usando parole diverse. Il vuoto che aveva risucchiato il bambino, la sua famiglia e tutto il paese ingoiava anche le ipotesi, le scartoffie delle indagini, e quel vociferare senza soluzioni che serviva a quelli che erano rimasti a sentirsi meno soli. Era stato un uomo? Forse. C’erano sospettati? Neanche uno. Qualcuno giurava di aver visto un furgoncino bianco allontanarsi dalla villetta in cui viveva il bambino proprio il giorno in cui suo padre era rientrato senza trovarlo, ma non c’era niente che lo potesse provare.
La madre di Filomena batteva al computer brandelli di frase che ticchettavano nella stanza facendo a gara con la lancetta dei secondi. Poi li rileggeva, li cancellava.
Filomena all’inizio la guardava solo di striscio, se ne rimaneva tranquilla a giocare sul pavimento a visitare una bambola a cui aveva strappato le ciglia. Ogni tanto cantava delle filastrocche sottovoce, poi si era trascinata fino al divano e aveva buttato a terra tutti i cuscini. Sua madre non ci badava. Sbuffava, si slegava i capelli, li attorcigliava. Filomena aveva sparpagliato le scarpe, aveva tolto i lacci e li aveva nascosti dietro il termosifone. Poi era andata da sua madre, usciamo? Le aveva chiesto. Non adesso, le aveva risposto. Allora Filomena era voluta salirle in braccio, le aveva carezzato il viso dandole un bacio in mezzo al petto. Poi all’improvviso aveva premuto il tasto blu che brillava sopra la tastiera e il computer si era spento.
Sua madre era saltata in piedi, cos’hai fatto? aveva urlato. E Filomena invece di starsene buona aveva cominciato a piangere, voglio un gelato, andiamo a comprare un gelato, adesso! Gli occhi le si erano stretti e il volto si era contratto in una smorfia di stizza simile a quello di sua nonna, quando saltava la sua telenovela preferita per un servizio su nuovo attentato.
Capricciosa, sei una bambina capricciosa.
Invece di colpirla come avrebbe voluto la madre di Filomena l’aveva trascinata per un braccio, portandola davanti alla seggiolina verde.
Adesso ti siedi qui e guai se ti muovi. Lo vedi quello? Le aveva detto indicando il bocchettone dell’aria condizionata. Se ti alzi o fai ancora la frignona quello ti risucchia e di porta dentro il muro. Hai capito? Guardami negli occhi, non sto scherzando. Adesso fai la brava fino a quando la mamma non ha finito. Poi usciamo.
Filomena, indecisa, aveva cercato dentro il viso di sua madre una traccia che la smentisse, invece lei se ne era tornata a lavorare lasciandola in castigo per la prima volta.
Era stata così brava che sua madre aveva voluto comprarle un premio. Una pistola sparabolle che avevano usato nel parco, tutti i bambini le si erano parati intorno, cercavano di romperle con un battito di mani, Filomena rideva, ne sparava una catena, le bolle salivano lievi colorando il vento. Sua madre la guardava da una panchina, vederla allegra le aveva fatto passare i sensi di colpa, si era detta che in fondo aveva fatto bene, stare seduti su una seggiolina non era mica la fine del mondo e lei aveva potuto mettere insieme un articolo decente in quattro e quattr’otto.
Filomena prima di andare a dormire si chiedeva quanti bambini ci fossero dentro i muri della sua stanza. Se li immaginava vagare nelle pareti viola, si chiedeva cosa sentissero, forse stavano stretti, o magari avevano preso la consistenza dei fantasmi ed era per questo che l’aria condizionata certe volte era tanto fredda.
La seggiolina verde rimaneva vuota la maggior parte del tempo. Filomena ci stava distante e quando suo padre la faceva sedere sopra per allacciarle le scarpe lei ci rimaneva malvolentieri anche se era solo per poco tempo. Capitava che sua madre la minacciasse quando non apriva la bocca per mangiare le carote, o se invece di stendersi per il pisolino urlava a squarciagola scappando su e giù per il corridoio. Ma non c’era mai stato bisogno di punirla davvero perché Filomena era una bambina buona.
Era stato un pomeriggio in cui le foglie avevano cominciato a tremare che la signora del primo piano aveva bussato alla porta, c’era qualcosa di strano, non la smetteva di colpire. La madre di Filomena aveva aperto con aria spaurita. Mi aiuti, aveva pregato la vecchia, non riesco più a svegliare mio marito. Filomena aveva visto il volto di sua madre farsi tanto scuro che non aveva osato lamentarsi quando le aveva ordinato di non muoversi, che stesse sulla seggiolina verde, doveva stare ferma fino a quando non fosse tornata, lei non poteva venire, avrebbe fatto presto. Il bocchettone dell’aria condizionata ormai era spento, ma la bambina l’aveva guardato sospettosa. Sua madre era uscita di corsa, lasciando la porta socchiusa e le chiavi sulla toppa.
Filomena aveva dondolato le gambe, ascoltava i rumori del condominio cercando la voce di sua madre, ma c’era trambusto e non ci riusciva. Si era infilata il pollice in bocca, con l’altra mano aveva cominciato a sfregare l’orlo della gonna, lo passava avanti e indietro e a poco a poco aveva dimenticato le fauci del mostro, prendendo sonno.
L’aveva riscossa la sirena dell’ambulanza, non l’aveva mai sentita così vicina e allora era corsa in terrazzo, dalle sbarre aveva guardato gli infermieri scendere, aprire i portelloni ed estrarre una barella. Poi era arrivato un furgoncino bianco, aveva parcheggiato lì vicino. Era sceso un uomo con gli occhiali scuri, che aveva attraversato il vialetto, seguendo la strada che i soccorritori avevano aperto e lasciato libera per il loro ritorno.
La seggiolina verde era vuota. La madre di Filomena aveva cercato sua figlia dappertutto – nelle stanze, per le vie, dietro i cancelli -ma di lei non era rimasto neanche l’odore. Aveva chiamato suo marito, erano arrivati la polizia, i carabinieri e alla fine i suoi colleghi a intervistarla. Ci hanno rubato un’altra creatura, diceva la gente e la foto di Filomena era stata appesa vicino a quella del bambino biondo.
Così erano passati giorni lunghi e dopo l’autunno era arrivato l’inverno. Capitava, quando era sola, che la madre di Filomena accendesse l’aria condizionata, ti prego esci, bisbigliava, non ti metteremo più in castigo. Ma dal condizionatore veniva soltanto un sospiro triste, così la stanza si riempiva di gelo.