Come felice

E da un giorno all’altro le comari gli parlano alle spalle, in quel vicolo di Barivecchia. Ci senti un fresco d’alba e il mare vicino, quando le più mattiniere ci escono, con le solite pianelle, le vesti a fiori.
«Coma’, buongiorno» dice una, e stende un lenzuolo, sul balcone.
«Buongiorno, buongiorno» dice un’altra. «Eh… Questa vita…» E sparge una manciata di orecchiette sul canovaccio.
«Io c’ho da lavare tutt’il soggiorno!»
E tra uno stornello e l’altro: «E quello strano? Oggi non s’è visto?»

«Se non torna da dove è venuto…»
«Mè, che San Nicola ama i forestieri…»
«Eh… Quelli d’oggi, non pure d’ieri!»
Le prime volte che lo vedono, quello strano, qualcuna crede che sia un turista, e quella lo saluta con un sorriso, e quell’altra: «Prego!» E gli mostra i cavatelli freschi freschi. «Sono buoni, che tutti qua vengono a comprarli!»
E per un pezzo lui se ne viene lemme lemme, giù per quel vicolo selciato e incassato tra palazzine, fuori del tempo. Tutte le mattine, con dei fogli bianchi sottobraccio, robe vecchie, un largo cappello che gli ammezza la faccia e un sorrisetto.
Una comare gli sorride e dice: «Che eleganza!» E riprende a spianare la pasta.
«Che bel sorriso!» dice quell’altra e inizia a spazzare.
Poi si accorgono che lui la guarda. Lui sta sempre a guardarla, lei, e così iniziano a squadrarlo, e dopo un po’, come lo vede, qualcuna si segna.
«Shhh… Mo se ne viene.»
«Lo vedi… Che ride a fare?»
«Ridi, ridi…»
«Chi l’ha vestito, a quello?»
«Eh… Mo si siede là, e chi lo toglie più?»
E lui continua a sedersi, sul grandino di un portone. Ci resta tutta la mattina, finché il piccinino torna dall’asilo, il vecchio dalla pesca, e dagli usci spira l’odore delle braciole al sugo, delle cime di rapa. Poggia i fogli sulle cosce, tira fuori un pastello e guarda un balcone, un po’ distante, sulla sua destra. Spoglio, con una ringhiera che è una sfilza di attizzatoi arrugginiti, quel balcone, di diverso dagli altri, non ha che la Bellafatta.
La Bellafatta è una ragazza molto bella, fidanzata con un ragazzo che in quel quartiere, dove vive, qualcuno chiama “bravo uaglione”, e qualcun altro, a bassa voce, malandrino. Il quale malandrino e bravo ragazzo, il giorno dopo il fidanzamento, finisce dentro per una soffiata: complice in una rapina a mano armata. Ma non sono che maldicenze! E subito il padre di lui s’affanna a mettere in mezzo fior fiore di avvocati, e via a far causa al mondo intero. Suo figlio in carcere come un malandrino? Quel bravo uaglione? Ma per favore, è di sicuro un equivoco vergognoso. E le nozze da poco promesse?
«Quando sono?» chiede un’amica alla Bellafatta.
«A Febbraio!»
«Sì, lo so, ma il gio—»
«Ah, il dodici. No, Mado’, che sto dicendo… Il sed—»
«Non te lo ricordi!» dice l’amica, e tutt’e due a ridere. E la Bellafatta, rossa rossa in faccia: «Ih, Gesù, no! Mado’… Domani devo andare con mia madre a vedere il vestito.»
«Che bello… Speriamo che tuo marito esce subito…»
«Eh, sì…» dice lei e abbassa gli occhi.
E così sceglie il suo vestitino e aspetta il fidanzato, in casa. La pulisce ogni giorno, soprattutto di mattina, quando il padre ha già cominciato a lavare i piatti in un ristorante, e la madre spolvera qualche gran casa. Ogni tanto guarda un programma televisivo scemo o ascolta una canzone napoletana. Non esce che per andare con la madre al parrucchiere o a farsi le unghie e se le guarda mentre spazza o le mostra a un’amica. È da un paio di anni che a scuola non mette piede.
«La scuola? E a che serve?» dice il padre, e la madre echeggia: «Che te ne devi fare?»
Già. Soprattutto ora che s’è quasi maritata con un ragazzo che ama e che la ama. Se c’è l’amore, c’è tutto. No?
«Quand’è bell’» le canta la mamma ogni tanto, in faccia, con un gran sorriso, «‘u primm’ammore…» E le afferra le mani e se le stringe sul petto, e lei arrossisce. «Mado’, che scema…» dice lei alzando gli occhi al cielo, un sorriso trattenuto, e la mamma le stringe la testa sul petto, ridendo, e le dà un bacio in fronte.
A dire il vero, lei non sa cosa sia, di preciso, l’amore, ma crede di amarlo ed è convinta che lui la ami, perché lui lo dice sempre, a lei, che è l’amore suo, mentre lo fanno. E poi lui le è molto fedele e molto, molto rispettoso, anche se una volta le ha dato un ceffone che le ha rotto un labbro. Gli è sfuggito, poveretto. Capita, dài. Avevano litigato, perché qualche amica le aveva detto che l’avevano visto abbracciato a un’altra, e lei, su tutte le furie, gliel’aveva gridato, e lui aveva perso la pazienza. Ma capita, suvvia, e dopo un po’ lui le aveva inviato un messaggino: “tamo to amato e amero fina la fine skusa”. E poi lui ha un sacco di soldi. Non sono mica importanti, i soldi. È vero. Certo. Fatto sta che ne ha un sacco. Lei non sa bene come li guadagni e, quelle due, tre volte che glielo ha chiesto, lui le ha risposto al solito, cioè brusco e controvoglia, che è un casino, difficile da spiegare. E poi si conoscono da una vita! Cioè, non proprio da una vita, ma quasi. Diciamo da un paio di anni, perché vivono nello stesso quartierino a un paio di isolati di distanza. E dal primo bacio non si sono più spiccicati l’uno dall’altro. O, meglio, all’inizio si vedevano un paio di giorni alla settimana, cioè quando lui non era impegnato col suo lavoro né aveva una partita di calcetto, e poi, dopo il primo anno, sì e no una volta alla settimana. E poi il padre di lei fa il lavapiatti in uno dei ristoranti del padre di lui, perciò… Ma basta coi pensieri! Si amano, si amano, e lei è ormai grandicella, e bella, molto bella, la più bella, e lui è pronto a metter su famiglia, proprio da bravo uaglione.
Intanto lei non sorride mai di cuore. Nessuno le ha mai chiesto perché, e dopo un po’ ha smesso di chiederselo anche lei.
Poi, un giorno, vede quell’uomo. Come ogni mattina, si fa al balcone a darci una mezza strofinata, una spazzata, a sbatacchiare un tappetino, e lo vede, sul gradino di uno dei portoni di fronte. Se ne sta seduto, e sembra che la stia fissando. Sembra proprio che la stia fissando, sotto il suo cappello storto, e muove un pastello sul foglio.
«Ma chi è quello?» dice lei, tra sé.

Un giorno, una donna gli ramazza tra i piedi, gettandogli occhiatacce, e lui alza la testa, col suo mezzo sorriso, e sfiora la tesa del cappello con due dita. «Buongiorno» dice e torna a guardare la Bellafatta. E continua a venirsene ogni giorno, giù per il vicolo, a guardarla, e un mattino, mentre lei dà una spazzata al balcone, le si avvicina.
«Signorina.» Ha un accento straniero. Lei si sporge di scatto sulla ringhiera.
«Vorrei ritrarla alla perfezione» dice l’uomo.
Lei ha gli occhi sgranati, il respiro mozzo.
«Per lei… » dice l’uomo, alzando il foglio.
«Glielo lascio in un angolo, nel portone.» E ci entra.
Ma di dov’è? pensa lei.
L’uomo esce dal portone e si allontana, e lei deglutisce e come si accorge che, scure in volto, un paio di comari la fissano, piegandosi sulla scopa riprende a spazzare.

Un vecchierello gli si pianta davanti. Magro magro, curvo, una bottiglietta di birra in una mano e nell’altra una busta zeppa di cozze pelose, gli fissa addosso due occhiacci scuri. Poi dà un sorso di birra e dice: «Non te ne vai da qua…»
E quello strano alza lento la testa, col suo mezzo sorriso, e torna a guardare la ragazza.
«Sì, fai finta di niente…» dice l’altro, annuendo più volte e fissandolo, e l’uomo strano continua a venirsene, giù per quel vicolo, a guardare la Bellafatta.
Poi, di nuovo, le si avvicina, sotto al balcone.
«Signorina…» E lascia un altro foglio nel portone.
«Tanto non li prendo, vedi se la finisci!» gli dice lei, mentre lui si allontana. Lo dice con la voce forte e tremante, non appena vede che le solite comari la guardano storto.

Un ragazzino palleggia e a ogni poco dà un’occhiata inebetita all’uomo strano. Poi gli si avvicina e si appoggia di spalle al muro. Le mani dietro la schiena, un piede sulla palla, sbircia i fogli e la faccia nascosta dal cappello e non ne distingue che il mezzo sorriso e qualche sfumatura di disegno.
«A scuola non vai oggi?» dice l’uomo, che guarda la Bellafatta.
Arrossendo, il ragazzino increspa le ciglia e si guarda la punta delle scarpe. Inizia a pigiarne una con l’altra e con un’alzata di spalle schiocca la lingua.
«È importante. Ora non ti sembra così, forse, ma è importante» dice l’uomo, e il ragazzino riprende a sbirciare il mezzo sorriso e le sfumature, finché una donna, la faccia da megera, s’affaccia a una finestra e grida a squarciagola il nome del ragazzino, che urla “e sì!” e con una gran sbuffata se ne va svelto e svogliato dentro un uscio.
E ogni giorno l’uomo strano si mette seduto sullo stesso gradino, a guardare la Bellafatta, e di tanto in tanto lascia un foglio nel suo portone.

Intanto, lei ha preso a uscire sul balcone con secchio e straccio e a starci ore e ore, a lavarlo.
Una comare che se ne torna a casa, come saluta la ragazza, raggrotta la fronte.
«Ma che s’è truccata?» mormora a un’altra comare, che se ne torna con lei.
L’altra guarda la ragazza e rallenta il passo. E si acciglia: sì, pare proprio che la Bellafatta abbia un filo di mascara e di rossetto. E quei capelli lisci lisci, che sembrano freschi di piastra? Dov’è finito lo strucco del sonno, la crocchia scompigliata?
«Ih, Madonn’…»

E una sera il padre della Bellafatta torna dal lavoro e la chiama, gridando.
«La causa?»
«Eh! L’hanno vinta!»
Già, la causa. Eh, vinta, vinta. Il suo sposo, il malandrino, cioè il bravo uaglione, sta per uscire di galera! E il giorno dopo la scarcerazione, indovina un po’? Dritti in chiesa! Sì, sì! Tutta la famiglia, tutti gli amici, tutti quanti, via! A festeggiare il matrimonio più bello! Finalmente liberato, sì, e libero di sposare la sua bella! Ma pensa un po’, proprio il giorno prima della data fissata… Se non lo è questa, una benedizione!
Lei resta di stucco. Resta di stucco e grida “mado’, che bello!” e saltella e abbraccia la madre, che ride e sorride amabile e l’accarezza e abbraccia forte, e sbaciucchia il padre, che ridacchia.
«Vado a dirlo alle amiche mie!» E si chiude in camera e si siede sul letto, gli occhi persi, e le lacrime cominciano a scivolarle sulle guance.
E il gran giorno arriva con un urlo che sveglia mezzo vicinato. La madre della Bellafatta apre la camera della figlia e non trova né lei né il vestito da sposa.

Nel vicolo, seduta a un tavolino, una donna impasta la massa. Sui balconi i lenzuoli si increspano al vento, come strascichi di sposa. La donna schiaccia coi palmi un pezzo di pasta e lo rotola avanti e indietro, avanti e indietro.
«Buongiorno» dice a una vecchietta che si avvicina al tavolo.
«Buongiorno, buongiorno…» dice la vecchina, che si siede lenta, accanto al tavolo, e inizia ad agucchiare. «Mé?» dice poi. «Si sa niente? Della disgraziata…»
L’altra dà un’occhiata al balcone della Bellafatta.
«Se n’è andata, quella maledetta» dice, tornando a guardare l’impasto.
«Uh, Gesù…» dice la vecchia. E agucchia agucchia: «Al tempo mio, a faticare…»
«Eh… Oggi, tutte con ‘sto cellulare!»
«Che brutta cosa però. Santo cielo.»
«Eh. Hai sentito che dice Carmelo?»
«Carmelo? Il marito di… Il fabbro?»
«Eh, che tiene la bottega qua dietro.»
«No, no. Non lo so e non me ne frega.»
«L’ha vista, dopo che ha chiuso la bottega.»
«Veramente? A quella maledetta?»
«Dice che correva, come a ‘na matta.»
E tra una chiacchiera e l’altra si rivolgono smusate di badessa.
In canottiera e calzoncini, un bambino corre a piedi nudi sul selciato. La vecchia gli dà un’occhiataccia.
«Non correre, che mo ti devi fare male!» gli dice la donna che rotola l’impasto. Il bambino si ferma a guardarlo, vicino al tavolo. Vede la grossezza delle braccia nude, delle mani di vecchia massaia.
«Vieni in braccio, vieni…» gli dice la donna e lo tira a sé. Goffo, e lento, lui si siede sulle coscione delle donna e fissa gli occhi sulle dita impastate, e grosse come salsiciotti. Sente l’odore caldo della pasta, il calore odoroso della donna, che taglia pezzetti di pasta col coltello e con le dita li schiaccia e li piega, veloce veloce.
«Il vestito aveva, quello da sposa…»
«Il vestito? Uh… Ma quella è matta…»
«E chi stava con lei? Quello strano.»
«Quello che si metteva sul gradino?»
Il bambino tende la mano al cielo e mugugnando scalcia.
«Dove vuoi andare!» gli grida la donna che lo stringe, e il bambino si lagna.
«Mo ti devo dare un ceffone!» fa la donna e gli caccia un’orecchietta in bocca. «Tie’, mangia.»
E all’altra: «Pareva, dice, come ai disegni.»
«I dise— Uh… Quelli che faceva lui…»
«Stavano nella cameretta di lei.»
«Hai capito: quello glieli lasciava…»
«Eh, eh, e quella là se li prendeva.»
«Ho sentito ch’erano tutti uguali…»
«Cambiano solo dei particolari.»
«Hai visto la madre, che l’ha strappati…»
«Sì, dal balcone, e l’ha gettati.»
Eppure, sul balcone accanto a quello della Bellafatta, infilato tra due vecchi vasi, uno di quei disegni palpita al vento.
«Mo, la no’…» ciangotta il bimbo. Ritrae la mano. Guarda le dita grosse, svelte, la pasta.
«Così correva dietro a quel cornuto?»
«Scalza, col vestito tutto sgualcito.»
«Aspe’… E dice che lei sorrideva…»
«La nonna…» dice piano il bambino, gli occhi tristi.
«Dice che pareva come felice…»
«Nonna…»
«No, che poi cadi e t’azzoppi!» dice la nonna.
E la vecchia: «E lei – nessuno sa dove sta?»
«La nonna…» dice il bimbo.
«T’ho detto di stare qua! No, non si sta dove sta.»

Il disegno svolazza sul vicolo. Il bambino si divincola e corre, e la nonna afferra al volo una manciata d’orecchiette che stavano cadendo a terra. Il bambino cade. E sbotta a pingere. La nonna gli si avvicina.
«Monello!» E come lo aiuta ad alzarsi, lui avanza incerto. «Dove vai?» dice lei, e lui indica il disegno che s’è posato per terra, qualche passo avanti. «Che cos’è?» fa la donna, che si avvcina al disegno. «Uh, Madonn’, no!» E lui tende una mano al foglio.
«T’ho detto di no, t’ho detto!» E lui pesta i piedi e piange, e la nonna gli dà uno schiaffetto sul culetto. «Brutto, questo! No!» Lui strilla. «Maledett’… Shhh…» La donna si guarda attorno, e lui strilla. «Shh… Tie’, maledetto. Shhh… In tasca!» Lui si asciuga le lacrime. Prende il disegno e s’imbambola, guardandolo: una ragazza ha una veste discinta, che sembra un po’ quella d’una pizia, un po’ un camice di degenza, e una mano sul parapetto di un balcone, rigoglioso delle piante e dei fiori più belli, e tende l’altra mano a un mattino soffuso d’oro.
«Metti nella tasca!»
Piano, il bambino piega il disegno e se lo infila in tasca.
«Mè, muoviti…» dice la donna, che sta tornando al tavolino. Il bambino la raggiunge di corsa, una mano che stringe la tasca col disegno, e con l’altra cerca quella della nonna, che gliela stringe.