Una mattina
Si svegliò. Guardò sconsolato la mattina gonfia nella stanza e l’imprecisione dei mobili chiari e cremosi. Il lenzuolo era caduto a terra, aggrovigliandosi con il copriletto. La prima cosa che vide alzandosi furono le sue gambe magre e pelose e le dita corte dei piedi, che mosse come in un assurdo spettacolo di marionette. La luce appariva fragile e indecisa attraverso le tende che aveva chiuso male, e che prontamente andò a spostare per aprire la finestra.
Il vento tiepido temporeggiava sul suo viso e lui si passò una mano sul mento e sugli zigomi, sbadigliando, toccando con le dita la barba corta. Indossò un paio di ciabatte grigie consumate e uscì dalla stanza, chinandosi per spegnere la lampada che probabilmente aveva lasciato accesa tutta la notte, quando si voltò improvvisamente, convinto di aver dimenticato qualcosa. Si guardò intorno, con le mani sui fianchi, osservando l’armadio, il comodino, i vestiti preparati sulla sedia, il televisore spento e, senza pensarci troppo su, diede la colpa alla mattina, agli occhi ancora addormentati, e uscì dalla camera sbadigliando.
Fece colazione con una tazza di caffè che riscaldò nel microonde, un bicchiere di succo d’ananas che recuperò da una confezione quasi vuota, e una fetta di pane con burro e marmellata. Non si allarmò per il silenzio profondo che regnava mentre faceva colazione e quando si affacciò alla finestra per guardare in strada, verso la fermata del bus per assicurarsi che non fosse passato in anticipo, non si sorprese di non vedervi nessuno, ma pensò che fosse tardi e si affrettò a cambiarsi e a mettere le sue cose nella valigetta. Lasciò i piatti sporchi nel lavandino e uscì di casa con la sensazione che sarebbe inevitabilmente arrivato tardi.
Reggeva la valigetta e guardava verso l’angolo che copriva il resto della strada. Non passavano auto e, a parte lui, non c’era nessun altro ad aspettare il bus, che ormai doveva avere più di dieci minuti di ritardo. Guardò il suo orologio, piccolo e brillante sotto il pugno chiuso, e controllò l’ora anche nel cellulare, rimettendolo poi nella tasca dei pantaloni. Mormorò un’imprecazione in francese (putain, merde) e camminò fino all’angolo per vedere se l’autobus arrivava. Nella strada deserta l’unico suono che si sentiva era il brusio sordo delle chiome degli alberi e il silenzio delle auto parcheggiate e della strada, oscura e deserta.
Dovette camminare per circa venti minuti fino alla metropolitana, dando la colpa all’autobus che l’avrebbe fatto arrivare tardi al lavoro. Passò la tessera attraverso i tornelli dell’entrata e il meccanismo rispose con il bip acuto di una macchina guasta. Anche lì non c’era nessuno e solo il rumore delle scale mobili lo accompagnò fino al binario. Nessun altro a parte lui aspettava la metro, né in una direzione, né nell’altra. Arrivò un treno composto da tre vagoni nella direzione opposta e le porte si aprirono automaticamente. Non salì nessuno, e nessuno scese e, dopo aver suonato la sirena di avviso, la metro riprese il suo viaggio solitario. Quando finalmente arrivò il treno nella sua direzione, guardò da una parte e dall’altra. Le porte d’acciaio si aprirono con un sospiro meccanico. Con un salto salì sul vagone vuoto e, mosso da un impulso irreprimibile, sollevò i piedi e li appoggiò sui sedili di fronte. Sorrise soddisfatto, come se avesse appena dato uno schiaffo a quella che era stata la sua vita fino ad allora, e si sdraiò su un fianco. La metro ululò e chiuse violentemente le porte d’acciaio.
Scese una fermata dopo la sua e si soffermò su alcune vetrine, osservando i vestiti impossibili e colorati dei manichini pallidi e dritti. Guardava un paio di scarpe stupende ed incredibilmente care, con la mano libera in tasca, ripetendo il prezzo mentalmente, titubante e piegato in avanti, quando si decise a rompere il vetro. Col piede sfondò la vetrina, poi si allontanò di fretta, lamentandosi per il dolore, ma felice, zoppicante e sorridente, mentre un allarme iniziava a suonare.
Come già immaginava, quando arrivò al suo stabile trovò la porta chiusa. Premette diverse volte il pulsante del citofono, senza davvero aspettarsi una risposta, che non ricevette. Indietreggiò di qualche passo e osservò la colonna di finestre scure, una di seguito l’altra, una strada ininterrotta fino al cielo, fino a trovare quella che doveva essere la finestra del suo ufficio. La mattina si era fermata nelle vetrine e nelle pareti dei negozi, della chiesa e dell’ufficio di turismo in una luminosità tranquilla. Si allontanò dall’edificio e scelse a caso una via ombreggiata da percorrere, dove alcune kebabberie e pizzerie si susseguivano silenziose.
Alla fine si fermò nel centro della Place de Capitole, colto di sorpresa da un capriccio improvviso. In piedi, nel cuore del grande quadrilatero di piastrelle di fronte al palazzo municipale, pensò agli edifici arrossati della città e ai suoi abitanti svaniti nel nulla, dei quali non restava nessuna traccia. Chiuse gli occhi e cercò nel silenzio qualche segnale oltre al suo respiro. Tentò di individuare qualcos’altro oltre al rumore degli alberi e dei pochi uccelli che svolazzavano qua e là, del ronzio di alcuni impianti che dovevano essere meccanici, senza riuscire a trovare nulla.
Rubò eclairs da un panificio e li divorò seduto sulla panchina di un parco. Alcuni uccelli, pesanti e obesi, si litigavano le briciole che lasciava cadere a terra. Quando ebbe finito entrò in un supermercato e prese una pizza surgelata e una coca cola che infilò nella valigetta. Prese la metropolitana e, dopo esser sceso, tornò a casa a piedi, senza aspettare il bus. Si sentiva stanco. Si stese sul divano, di fronte al televisore spento, e si abbandonò a un piacevole riposo, interrotto solo per girarsi dall’altra parte e continuare a dormire.
Quando si svegliò, si mangiò la pizza in cucina e bevve la bibita direttamente dalla bottiglia, per evitare di sporcare le stoviglie. Sorrideva e faceva vagare lo sguardo sui mobili del salone, pensando tristemente che così non poteva continuare. Il sapore della pizza che restava lì, nella sua bocca, e il sorso dolce della bibita servivano a confermargli quello che aveva appena pensato. Quello che stava succedendo, l’intera città di Tolosa solo per lui, l’universo svuotato dalle altre persone, non ci avrebbe messo molto a finire. Era solo questione di tempo, probabilmente tutto sarebbe tornato uguale a prima il giorno dopo.
Quel pomeriggio guardò la televisione con poca attenzione, passando da giochi a premio e interviste a un film con Katharine Hepburn e Spencer Tracy, finché non scese la notte. Allora si alzò e andò fino alla finestra del salone, quella che dava sulla strada. Osservò la notte silenziosa e disumanizzata, l’illuminazione pubblica che non serviva a nessuno, gli edifici alti e appariscenti, le auto in sosta. Guardava le finestre scure riflesse sopra l’edificio di fronte, quando una lucetta terribile ad una finestra lo fece trasalire. Una donna dal viso pallido e tratti imprecisi, con i capelli corti, lo osservava stupita ed esitante mentre reggeva la tenda con la mano.
La città
Si rifugiò nella sua stanza, alla quale arrivò inciampando mentre spegneva tutte le luci che trovava. Si svestì e si mise a letto, avvolgendosi con le lenzuola e il copriletto, inquieto, aspettando che arrivasse il sonno a toglierlo dall’incubo. Il volto della donna appariva di tanto in tanto e si sforzò di non pensarci né di definirlo, fuggendo dalle ipotesi deliranti che lo minacciavano. Quando alla fine si svegliò, gli parve di aver appena chiuso gli occhi.
La mattina fredda che sentiva nei piedi nudi gli ricordò il giorno precedente e seppe subito, ancora prima di affacciarsi a ispezionare le strade dalle diverse finestre del suo appartamento, che niente era cambiato. Fece colazione con gli avanzi della pizza e un bicchiere di succo di mela da una confezione nuova, poi, sempre indossando le pantofole, tornò sul suo balconcino a esaminare la finestra che il giorno prima lo aveva tanto atterrito. Come se fosse rimasta lì ad aspettarlo, le sue braccia apparirono per aprire completamente la tenda. Sporse anche il suo viso pallido, mostrando una sicurezza che lui non ricordava. I due si osservarono in silenzio, senza muoversi, e fu lei, tranquilla, a segnalare il parcheggio che si trovava tra i loro edifici, dove il sole si rifletteva sulle capote e sui finestrini delle auto. Lui annuì e, nel momento in cui lo fece, gli parve di obbedire più che accettare, poi tornò in camera a cambiarsi.
Quando arrivò al parcheggio, lei era già li, ad aspettarlo appoggiata ad un furgoncino. Lui ci aveva messo un po’ a vestirsi, indeciso tra due camicie e tra le ciabatte o le scarpe. Quando infine scese non lo fece perché avesse davvero deciso, quanto piuttosto perché sapeva di averci messo troppo tempo. La donna, pensò lui, dimostrava quella specie di giovinezza invecchiata che portano il matrimonio e i figli, aveva la pelle chiara con le lentiggini, e i capelli castani. Lo accolse con un rapido sorriso mentre si faceva ombra sugli occhi con una mano, anche se il sole non le arrivava direttamente. Lui disse «hola» senza pensarci, e lei rispose in francese.
Lo osservava come chi cerca di smascherare una bugia e, anche se lui provava a mostrarsi tranquillo, forse lei pensava che lui la stesse guardando allo stesso modo. In quei minuti in cui diffidavano l’uno dell’altra ebbero paura, cercavano di indovinarsi a vicenda, dicendosi solo le cose più evidenti attraverso l’accento peruviano con cui lui parlava francese e l’inevitabile inflessione del sud di lei, probabilmente ancora più a sud di Tolosa. Lei spiegò con un certo sconforto che aveva cercato sua figlia e suo marito tutto il giorno prima finché non aveva capito di essere stanca mentre vagava nei vialetti alberati del parco Argoulets. L’arrivo del pomeriggio l’aveva sorpresa e si era fermata ad osservare al di sopra della cancellata del parco il silenzio profondo dell’autostrada della Rocade e i cartelli alti e inutili che segnalavano Bordeaux e Albi. Sorrise, leggermente a disagio, come se avesse appena detto una cosa ovvia. Lui cercò di essere ancora più breve nel riassumere la sua giornata. Nessuno dei due arrischiò un’ipotesi né provò ad indagare se l’altro ne avesse una. L’unica cosa che fecero fu riassumere in poche parole le loro vite, a disagio, lui dando dei calci ai sassolini a terra, lei tamburellando con la mano aperta sulla capote dell’auto. Lei era di Rodez e viveva a Tolosa ormai da sei anni. Aveva trentanove anni, una figlia di cinque e un marito, professore di liceo, che nominò con una certa desolazione. Lui si sentì in obbligo di inventarsi una fidanzata di Marsiglia, fornì qualche dato impreciso sulla sua vita e raccontò che aveva lasciato Lima a 22 anni. Aveva vissuto a Parigi, un’altra bugia, ed era arrivato a Tolosa otto anni prima. Lei lo ascoltò con pazienza, annuendo. Fu lui che si sentì sopraffatto dagli avvenimenti e, con una scusa poco credibile (aveva deciso di provare a chiamare vari numeri di telefono), le disse che doveva andarsene e che potevano vedersi il giorno successivo, o quello dopo ancora. «Bien sûr» disse lei, strizzando gli occhi per colpa del sole che l’aveva infine raggiunta, e si salutarono dandosi la mano.
La giornata finì. Passò una settimana, poi un’altra. Certi pomeriggi si vedevano dai rispettivi balconi e si scambiavano un piccolo cenno imbarazzato, ma quando capitava che si riconoscessero da lontano per strada, quando lui tornava dopo aver saccheggiato qualche negozio, o lei con un paio di baguette rafferme, entrambi si nascondevano e aspettavano che l’altro sparisse. Mentre loro si evitavano, il mondo continuava com’era: le strade vuote e gli alberi frondosi che ondeggiavano indifferenti. Una notte in cui stava fumando prima di andare a dormire, lui vide un cinghiale che si aggirava tra le auto in sosta nel parcheggio. Alla finestra di fronte, anche lei lo stava osservando, e quando se ne accorsero si salutarono con la mano e si sorrisero, con una certa sincerità.
La mattina successiva, lui l’aspettava davanti alla porta dell’edificio dove viveva, con una bottiglia di gazzosa e una saponetta, un gesto che considerava amichevole. Lei lo salutò con due baci umidi sulle guance e lo abbracciò come se lo conoscesse da anni, come se lo avesse amato, perso e ritrovato.
Percorsero le strade su per la salita di Jolimont e giù per i viali Jean Jaurès fino al centro della città. Lei gli spiegò che con Ludovic le cose non sarebbero durate ancora per molto e in realtà sperava di non vederlo più. Lui prese coraggio e le rivelò la verità sulla sua fidanzata di Marsiglia, e lei non ne sembrò molto sorpresa. Quando arrivarono alla Place de Capitole, entrarono a prendere alcune cose in un minimarket. Con i sacchetti in mano e sotto braccio andarono a mangiare nel palazzo municipale.
Quel pomeriggio dormirono nel parco giochi per bambini di Quai de la Daurade, con il mormorio tumultuoso della Garonne a pochi metri. Lei diceva che forse un giorno avrebbe preso un’auto e se ne sarebbe tornata a Rodez. Lui ammise con tristezza che, anche se avesse potuto, non pensava di ritornare in Perù. Più tardi, salirono sulla metro e scesero a Mirail, con la stessa curiosità di sapere com’era quel quartiere dalla pessima reputazione con le strade oscure e piene di graffiti. S’intrufolarono in un appartamento, entrando per il balcone che si trovava poco più di un metro d’altezza, in cui erano stesi dei tappeti, dei sandali e alcune tuniche scure.
Era l’appartamento di una signora anziana. In pochi secondi avevano percorso i vari ambienti, il salotto, la camera da letto, la sala da pranzo e la cucina. In quello spazio così piccolo, in modo un po’ forzato, la signora aveva creato un ordine delicato che riservava la zona centrale del salone a una vetrinetta nella quale erano sistemate, tra piccoli oggetti e statuine di delfini e bambini, varie fotografie incorniciate di lei con i suoi figli, che sembravano invecchiare tanto rapidamente quanto la madre, forse di più. Quando finirono di curiosare tra gli scaffali della cucina, andarono a sedersi nelle poltrone della sala e si guardarono con un sorriso complice.
Si baciarono, timorosi, e poi si svestirono lentamente. Lui scopriva sorpreso il corpo maturo e teso di lei. Lei percorreva con tranquillità la pelle più giovane e scura di lui. Si abbracciarono, si strinsero e solo quando ebbero finito di carezzarsi, emozionati come due adolescenti, fecero l’amore. Una volta finito, distesi l’uno accanto all’altra, lei passò le sue dita sottili attraverso i capelli di lui e disse, come se ci avesse pensato per tutto il tempo: mi manca molto mia figlia.
Come se avessero appena deciso di azzardarsi a farlo, quella notte condivisero diverse teorie, alcune che avevano pensato da soli e altre che vennero loro in mente proprio in quel momento. Lui disse la più banale e la più inopportuna: era tutto un sogno. Però se davvero lo era, uno dei due doveva essere quello che sognava e l’altro far parte del sogno, spiegò lei, in un francese prudente, come se gli stesse facendo una correzione. In più c’era il problema del tempo, aggiunse, sistemando il corpo nudo contro il suo. Lei non ricordava di aver mai fatto un sogno che si fosse prolungato tanto a lungo né che contenesse i ricordi di una vita, disse, e cercò nei suoi occhi scuri la conferma di ciò che aveva appena affermato. Lui annuì, pur continuando a pensare che l’ipotesi del sogno permettesse le altre possibilità.
Poteva essere qualche desiderio capriccioso di Dio, disse lui, un po’ scherzando, un po’ turbato. Una condanna, una prova, continuò. Lei si limitò ad annuire, come se appena lo sentisse, e poi suggerì un cataclisma come quelli che si vedevano al cinema. Qualche arma segreta o un’epidemia abominevole avevano sterminato la specie umana e per una serie di coincidenze loro erano rimasti in vita, probabilmente insieme a pochi altri che, come loro, dovevano essere alla ricerca di una possibile spiegazione. Quello però non spiegava come mai la televisione continuasse a funzionare, disse lui, accarezzando le lentiggini che risaltavano sulla spalla di lei, e sentì la pelle irrigidirsi. La vide alzarsi, nuda, e pararsi davanti a lui con un’espressione disperata. «Montre moi» gli disse.
Lei aspettava in piedi, girata verso lo schermo oscuro e grigio del televisore, finché lui non trovò il telecomando. Allora lo accese e, non appena il viso sorridente di un presentatore vi fece la sua comparsa, conversando con un’attrice di commedie, lui la vide retrocedere, lasciarsi cadere sulla poltrona, sconvolta, nascondere il viso tra le mani e scoppiare a piangere singhiozzando.
Il tempo
Dopo quella notte, lei azzardò una spiegazione che chiamò quantica, che lui non si sforzò di comprendere ma nemmeno osò mettere in discussione. Davanti ai loro occhi, nella televisione accesa, scorreva un mondo in cui il Presidente visitava l’Assemblea dei Deputati, un incidente di traffico si spiegava con un pedone incauto e una bambina scompariva, sequestrata da un soggetto terribile che nessuno era in grado di descrivere con precisione. Lei indicava il televisore e, mettendo le mani una sopra l’altra e separate da pochi centimetri, spiegava che entrambi i mondi esistevano, quello della televisione e quello dove loro stavano vivendo. In qualche modo, e questo non riusciva a spiegarselo, entrambi avevano abbandonato quella realtà (la mano sopra tremava) ed erano passati a quella dove si trovavano (la mano sotto stava ferma, inquieta). Lui assentì con un cenno della testa, guardando lei e il televisore in cui il telegiornale era passato allo sport. Il PSG aveva perso contro l’Olympique. Per cena mangiarono spaghetti al sugo. Durante la notte, lui si svegliò diverse volte e, nonostante non portasse gli occhiali, ogni volta credette di vederla sveglia, prima di tornare a chiudere gli occhi e perdersi in un altro sogno, forse sempre lo stesso.
Abbandonarono quel quartiere il giorno successivo. Riempirono un carrello del supermercato con quello che recuperarono da alcune drogherie e andarono con i loro sacchetti a prendere la metro fino a Carmes. S’intrufolarono in una casa dai mattoni rossi ed impeccabili e, stanchi, si sedettero a mangiare. Nel pomeriggio non accesero la televisione e si dedicarono ad esplorare la casa di quel tolosano arricchito. Sulle mensole del salone, alte e in legno scuro, c’erano libri in inglese, tedesco e francese e, ancor più sopra, una serie di maschere arrabbiate e brillanti, di legno e di metallo, scure e dagli occhi vuoti che lei definì africane, e che sarebbe stato difficile dimenticare. Cenarono con degli spaghetti, questa volta al tonno, e solo in seguito, esitando, accesero il televisore. Il telegiornale era finito e videro un programma in cui alcune coppie ballavano, tra le risate e gli applausi degli altri.
Dopo qualche mese, come se si fossero resi conto all’improvviso che potevano farlo, rubarono un’auto e abbandonarono Tolosa. Andarono a Bordeaux, a Limoges, a Parigi, e lasciata la Francia si fermarono in Lussemburgo, dove osservarono con stupore i cartelli scritti in tedesco accanto a quelli in francese. Tornarono quindi a Tolosa, la città da cui se n’erano andati, e solo quando lui lo fece notare lei capì. Era passato un anno.
Nei mesi che seguirono, negli anni che trascorsero, occuparono case diverse, svuotarono vari supermercati e vissero per molti mesi nel palazzo municipale. Poche volte giocarono ancora, e ogni volta con meno convinzione, a cercare qualche teoria o spiegazione plausibile. Il castigo di qualche divinità, una versione alternativa dell’universo, la morte, la fine del mondo, il sogno di uno dei due, il sogno di qualcun altro. Non guardavano più la televisione con la stessa urgenza e la accendevano solo qualche sera per vedere serie americane e reportage che da un anno all’altro ripetevano le stesse storie con minime variazioni. A Tolosa, nello stesso modo indifferente, trascorrevano le estati opprimenti e gli inverni atroci e soleggiati, dai quali si proteggevano cambiando casa o rifugiandosi in qualche cinema.
Salivano le scale e portavano i sacchetti con lattine e conserve e spaghetti ogni volta con uno sforzo maggiore, muovendosi più lentamente, mentre nei loro volti si affermava un’espressione affaticata. Nonostante ciò, e per un comune accordo implicito, nessuno dei due diceva niente. Smisero di percorrere la città e finirono per stabilirsi in un appartamento a Carmes. Dapprima di nascosto, lei iniziò a recarsi qualche mattina alla chiesa di Saint Sernin, finché un giorno non le importò più che lui lo scoprisse.
Un pomeriggio in cui avevano discusso senza un vero motivo, perché lui non aveva messo la marmellata in frigo, andarono insieme in silenzio al supermercato. Trascinandosi dietro un carrello della spesa, senza dirigersi la parola ed evitando di guardarsi, arrivarono fino all’ingresso del centro commerciale di Balma e attraversarono la porta, che si aprì con un lamento. Ancora infastiditi, si sedettero nelle panchine ai lati opposti del corridoio centrale, a qualche metro di distanza e, infine, si osservarono arrabbiati.
Ognuno occupava una sedia distante da quella dell’altro e si guardavano con amarezza, quando il cigolio delle ruote di un carrello si udì ad un’estremità del corridoio. Al ticchettio dei tacchi di una signora troppo agghindata seguiva lo scricchiolio delle scarpe da ginnastica del figlio, piccolo e biondo, che camminava al suo fianco con una mano appoggiata con noncuranza in un caddy. I due procedevano ancora insicuri quando arrivò la carica. Giovani, bambini, famiglie che venivano da una parte e dall’altra discutendo di yogurt, gusti di gelato, cipolle e carote. Gli uomini magri, ricurvi, grassi, robusti ed eretti, con visi brillanti, glabri, con la barba e con braccia ossute; le donne, giovani, timide, audaci; le signore con figli e vestiti colorati, camicie, tagli corti e capelli lunghi. In mezzo a questa fauna indeterminata, i due tornarono a guardarsi, inquieti e spaventati. Si alzarono, invecchiati, e capirono che dovevano andare a cercare la loro vita dove questa li aveva lasciati. Non si dissero addio. Il tempo si era concluso.
Tradotto da Francesca Miola.