Nell’estate del 1983 la mia unica gioia fu l’ascolto di A kiss in the dreamhouse. L’anno prima io e miei amici l’avevamo rinnegato, ci eravamo quasi offesi. Cos’era successo a Siouxsie? Cos’era quella roba quasi psichedelica, quasi pop? Cosa ne sarebbe stato del punk, del post-punk e della nostra stessa vita? Ma nell’estate del 1983 cambiai idea e quel disco mi fu compagno nella discesa agli inferi della mia consunzione d’amore.
Avevo diciassette anni. Benché tenessi la finestra della mia camera sempre aperta, mi trovavo immerso in un puzzo di macchina vecchia e di salsedine. Vivevo perlopiù sul pavimento, all’interno di rettangoli di spazio che riuscivo a ricavare ammucchiando i vestiti sporchi e i fogli di carta da cucina appallottolati. Una volta sdraiato, immaginavo di essere un calco di Pompei e rimanevo immobile in attesa del 2103 quando un gruppo di archeologi mi avrebbe riesumato e portato in un museo, insieme all’unica copia in vinile di A kiss in the dreamhouse scampata al disastro. Un’eruzione di rifiuti mi avrebbe infatti sorpreso nel bel mezzo delle attività quotidiane, strappandomi alla mia giovane e, all’apparenza, promettente esistenza. Quali attività?, si sarebbero chiesti gli studiosi del futuro, dedicando diversi convegni e monografie all’argomento, litigando tra loro, dividendo scuole, correnti, atenei. A qualunque soluzione fossero giunti, sarei entrato di diritto nella storia dell’archeologia e insieme della musica. Mi avrebbero intitolato delle vie: «Alberto Fantaguzzi (1966-1983), calco e benefattore dell’umanità».
Ero stato rimandato in italiano. Un simile evento dovrebbe segnare un passaggio importante nella biografia di un ragazzo come me, di ceto popolare ma istruito, e infatti trascorsi l’estate fregandomene con una tale intensità che la mia creatività e intelligenza ne uscirono rafforzate, la mia sete di sapienza accresciuta, le mie capacità logiche e la mia cultura generale più rapide e affinate. Sulla Settimana Enigmistica, nella rubrica «Forse non tutti sanno che…» scoprii ad esempio che la storia di Noè, ovvero del diluvio e dell’arca, era stata inventata dai Sumeri e ne conclusi che se c’era ancora vita su questo pianeta, lo dovevamo interamente alle civiltà mesopotamiche. Perciò, con secca deduzione, decisi di affidare al loro pantheon di divinità e semidivinità le mie speranze per il futuro. Ero convinto che se fossi riuscito a risolvere la Pagina della Sfinge per intero – che è egizia, ok, ma pur sempre di Mezzaluna fertile si tratta – avrei raggiunto i miei obiettivi. La copertina dell’antologia d’italiano la usavo per i filtrini.
Non avevo una macchina, non avevo neppure la patente. Al mare, era da tanto che non andavo. Da dove poteva arrivare quel tanfo di pesce marcio che appestava le mie giornate e mi obbligava ad accendere gli incensi di mia madre? È una domanda a cui non ho ancora trovato risposta. Quell’odore mi costringeva a fare cose da hippie e la cosa non mi andava giù. Inoltre, pensavo a Marina in modo ossessivo.
Do your hear this breath? It’s an obsessive breath. Can you feel this beat? It’s an obsessive heart beat.
L’estate del 1983 fu caratterizzata da un’ondata di caldo tanto eccezionale da indurre, una trentina di anni dopo, un volontario appassionato di meteorologia a dedicarle una voce su Wikipedia.
Se ho ben capito, diversi anticicloni si erano sovrapposti o succeduti e il mio io diciassettenne accolse quel Tetris atmosferico attendendo con impazienza – non particolarmente intrepida – il momento in cui l’umanità si sarebbe mummificata. Mi sembrò l’atteggiamento più appropriato in una circostanza del genere. Per questo stavo attento ad assumere solo posizioni gradevoli e armoniose: quando ero sul water cercavo di sbrigarmela in fretta; per le seghe, invece, non mi preoccupavo e mi prendevo il tempo necessario. Sarei stato il «Calco con l’uccello in mano» e, una volta riesumato e messo sotto teca, generazioni di studenti in gita mi avrebbero fotografato. Avrei insegnato la masturbazione agli adolescenti del futuro, nati in laboratorio e nutriti con il cibo in pastiglia. Se l’eruzione di rifiuti fosse stata preceduta dallo squagliarsi simultaneo di tutti i ghiacciai, io avrei costruito un’arca e portato in salvo gli animali, in particolare gli uccelli, che mi sono sempre piaciuti. Marina invece l’avrei lasciata annegare.
Oh love-lorn victims/Laughing in cascades.
Quel giorno stavo andando in cucina a prendere dell’altra carta e a farmi un caffè che avrei versato in un bicchiere sopra tre o quattro cubetti di ghiaccio. I bicchieri vuoti li allineavo sulla scrivania e li usavo come posacenere. Quando, dopo il caffè, mangiavo un ghiacciolo all’anice, sperimentavo un sentimento prossimo alla pace. Ne veniva fuori un caffè corretto Sambuca in versione analcolica, che mi ricordava Loano quando ero piccolo. Però c’era un problema con ghiaccioli all’anice, che se ne trovava solo uno per confezione e quindi, per averne una scorta, bisognava comprarne diverse e portarsi a casa anche gli altri gusti, non sempre graditi (è così ancora oggi e io mi chiedo come sia possibile nell’era dell’on demand). Quindi, il nostro congelatore era pieno di ghiaccioli, soprattutto all’arancia. C’erano ghiaccioli all’arancia vecchi di due anni. Li mangiava solo mio padre, ma era morto e noi, a buttarli, ci pareva di fargli un torto.
Mia mamma si chiamava Venanzia e passava le giornate seduta a un tavolo con la cerata sbiadita, in mezzo a fogli e a candele di cui solo lei percepiva un ordine o una necessità. Vestiva sempre di nero, a prescindere dalla vedovanza che in ogni caso aveva accettato con serena indifferenza. Questo perché a suo dire gli avvenimenti della vita altro non sono che segni arbitrari su cui si può tranquillamente sorvolare, in nome di significati più alti e ultraterreni. A posteriori capisco che la sua era una tecnica di sopravvivenza persino efficace. Io, però, non sono mai riuscito ad applicarla.
Quando è morta sono andato alla Standa e le ho comprato un tailleur lilla, pensando che con un’aria impiegatizia sarebbe stata accolta nell’aldilà in modo benevolo. Mi sono trovato orfano a vent’anni e sarebbe sbagliato credere che questo avvenimento abbia cambiato in modo radicale la mia vita. Se prima potevo a buon titolo considerarmi un orfano con genitori viventi, da quel momento passai soltanto di grado, precisando la mia collocazione nell’universo e ottenendo un aggettivo socialmente spendibile. Il fratello prete di mia mamma mi permise di andare all’università e, come si dice, di sistemarmi. Certo, avrei preferito studiare filosofia, ma temevo le infinite discussioni che avrei dovuto intrattenere con lui a causa dell’insidiosa e sdrucciolevole vicinanza della disciplina con la teologia. Evitai simili cul de sac, laureandomi in Lingua e letteratura francese con una tesi su Jarry che ebbi buon gioco a presentare a mio zio come una specie di Pimpa della scrittura, vistoso e animista. Così lui mi lasciò perdere, liquidandomi come «un giovane eccentrico, ma volenteroso».
Adesso insegno in un liceo linguistico dove la componente femminile tra gli allievi, i docenti e il personale ATA, è dominante in senso numerico e letterale. Sono noto per presentarmi alle nuove classi con la frase d’esordio: «Madame Bovary ci sarete voi». Il mio lavoro mi appassiona.
Tornando al senso della nostra esistenza, che è la morte, nei due giorni precedenti il funerale di mia mamma concentrai ogni preoccupazione sulla questione degli occhi. Sapevo che è usanza abbassare le palpebre dei cadaveri, ma mi chiedevo se fosse una semplice tradizione o ci fossero motivi di carattere igienico-sanitari o comunque inaggirabili che obbligassero a farlo. Chiesi a mio zio se per lei si poteva fare un’eccezione ma lui si limitò a circondarmi le spalle con un braccio e a dirmi di essere forte. Nel caso di mia mamma, infatti, questa pratica era resa ancora più necessaria dal suo strabismo che solo con una certa dose di sarcasmo poteva definirsi di Venere. Sapevo l’effetto che produceva negli altri e infatti dopo quella volta in cui un nuovo amichetto del cortile si era messo a piangere per lo spavento – non l’avevo preparato –, smisi di invitare chiunque a casa mia, ad eccezione di Gianandrea aka L’Indù, il cui padre sfoggiava un enorme neo peloso in mezzo alla fronte. Si badi, però: non è che mi vergognassi di lei, piuttosto – prima inconsapevolmente, poi con cognizione di causa – desideravo proteggerla dagli sguardi altrui, temendo che alla luce di un volto normale lei si sarebbe incenerita. Perciò, quando morì mi parve un degno risarcimento organizzarle un addio alla vita sotto i riflettori. Desideravo che tutti l’ammirassero nel suo tailleur lilla e fossero costretti a sostare sui occhi spalancati, ammettendo contestualmente la validità della mia teoria. Posto infatti come assioma che l’infelicità è un carattere ereditario, avevo concluso che essa si manifesta con precisi e sgradevoli tratti fenotipici. E un funerale, con la sua fortissima valenza simbolica ed emotiva, mi era sembrato il momento più appropriato per rivelare una simile verità esoterica al mondo e mostrarla a scopo didattico. Non ebbi tuttavia la forza argomentativa per contrastare il dissenso del clero, incarnato nella persona di mio zio (claudicante fin dalla nascita), e le esequie si svolsero in modo convenzionale. Peccato.
Round and around, round and around, getting no higher from the ground.
Per fortuna, nell’estate del 1983 mia mamma era ancora viva. Quel giorno mi presentai sulla soglia della cucina e lei sollevò gli occhi – uno solo a dire il vero, essendo l’altro rimasto a fissare il muro – mentre la cliente a cui stava leggendo i tarocchi li abbassò ancora di più. Io ero sudato e nudo, e specchiandomi sulla cappa trovai una somiglianza straordinaria, lo dico senza falsa modestia, tra me e Sid Vicious. Avvitando la caffettiera avviai un dialogo a tre:
«Qualcuno vuole un caffè?»
«Cinzia, cara, vuoi un goccio di caffè?», proseguì mia mamma.
«No grazie, Venanzia», fu la risposta della cliente.
«Ghiaccioli all’anice ce n’è ancora?», incalzai io. Avevo davvero voglia di un ghiacciolo all’anice, ma soprattutto volevo distrarre Cinzia dal futuro che mia madre le stava decifrando. I suoi occhi rossi erano uguali ai miei e si teneva aggrappata alla minuscola borsetta gialla che aveva in grembo come a un insufficiente canottino di salvataggio. Le nocche pallide e al limite dello sfinimento suscitarono in me immediata simpatia. Mi sentivo solidale con lei e pensai che un presente del tutto irrilevante l’avrebbe aiutata a dimenticare, almeno per un attimo, un destino del tutto incontrollabile. C’era poi la questione meno nobile delle mie esigenze primarie, disattese per la maggior parte dei casi. Io avrei voluto infatti parlare a mia mamma di mutande, spiegarle che avevo finito quelle pulite. Da sensitiva, lei lo intuì. Alla mia domanda sui ghiaccioli, rispose che le dispiaceva ma che aveva mangiato l’ultimo, intendendo con questo che le mie mutande non erano un suo problema.
Mia mamma mentiva come una bambina. Di solito io mi divertivo a smascherarla con gesti che sfioravano il melodramma. D’altronde, se la nostra vita non era che una foresta di simboli, un poema epico mutilato dai secoli e dalle intemperie, un’espressione come «squarciare il velo delle tenebre con la luce della verità» poteva risultare coerente in bocca a un adolescente con un ghiacciolo in mano, luminoso, fantascientifico, persino archeofuturista. Insomma, un raggio mortale.
The peacock screaming eyes show no mercy oh, no mercy.
In ogni caso, le mie apparizioni nudo o in mutande non pregiudicavano la fiducia delle clienti in mia madre, piuttosto rafforzavano in loro la suggestione che il vivere quotidiano di una cartomante non potesse svolgersi secondo logiche terrene. La stanza in cui si trovavano a trepidare non era il tinello di un qualsiasi condominio di periferia, ma una materializzazione di energie parapsichiche in movimento. Pertanto, un diciassettenne uguale a Sid Vicious, con il pisello di fuori, gli occhi rossi e i movimenti scoordinati, era consono all’ambiente. Un figlio che chiede alla mamma di lavare le mutande, no. Un adolescente con le occhiaie che sventola trionfante un pezzo di ghiaccio turchino, forse. Ma io quel giorno ero esausto, vecchio di una vecchiezza mitologica come Mosè, Matusalemme, Babbo Natale, i Genesis… Quella gente lì, nata vecchia.
Tra l’altro e sempre quel giorno, mi era venuto in mente che alcuni mesi prima, sulle Dolomiti, era stato ritrovato un alpinista dato per disperso da decenni. Il ghiaccio lo aveva mummificato e, mentre mangiavamo cena e guardavamo il telegiornale, mi ero rivolto a mia mamma per dirle, con affetto, che era uguale e lei. Lei mi aveva risposto che le sarebbe piaciuto morire così, da un momento all’altro, senza aspettarselo e all’aria aperta. Io le avevo spiegato che, a meno di non essere molto scemo, chi scala le montagne prende in considerazione l’eventualità di rimanerci secco, ma lei aveva fatto finta di non sentire.
Il punto è che in quel giorno di fine luglio io mi scoprii adulto. Compresi che la condizione per stabilire il passaggio dall’adolescenza alla maturità non è data dalla consapevolezza e dall’accettazione dei propri limiti, ma dalla pena che si prova per se stessi, per gli altri, per Cinzia, per mia madre, per chiunque. Decisi di telefonare a Marina.
Io e Marina eravamo compagni di classe. L’amai dalla prima alla quinta, ma potei considerarla mia soltanto nel secondo quadrimestre di terza. Come la conquistai? Con il tempismo e il beneplacito divino. Il nostro primo bacio capitò infatti durante l’ora di religione. L’insegnante era un laico, uno che attribuiva al sessantotto il merito di averlo risvegliato e sottratto alla vita in monastero cui inizialmente aveva pensato di dedicarsi. A mio avviso, gliene sarebbe comunque mancata la tempra fisica, prima ancora che spirituale, per abbracciare un’esistenza così radicale, tuttavia disponeva di una folta e ingannevole barba che lo faceva apparire autorevole e al tempo stesso innocuo. Godeva di un buon seguito tra gli studenti più suggestionabili. Le sue lezioni, che spaziavano dalla teologia della liberazione alle virtù della dieta macrobiotica, si svolgevano in circolo in ottemperanza ai dettami conciliari e terminavano con una mezz’ora di imbarazzante «autocoscienza», in cui parlava soprattutto lui. Pochi minuti prima di baciare Marina e raggiungere l’apice della mia vita, stavamo appunto affrontando il tema ecumenico dell’ «autorità genitoriale». Fu la sessione di maggior successo: molti piansero, alcuni confessarono pericolose e incresciose macchinazioni per sfuggire ai divieti paterni, come calarsi dalle grondaie o andare a vendemmiare per potersi permettere il silenzio di fratelli e sorelle minori, e tutti scoprimmo con sgomento che Isabella, la Brigitte Bardot del liceo, inarrivabile per chiunque ad eccezione del professore di Lettere e, successivamente, di un imprenditore cocainomane nel ramo sanitari, subiva le percosse della madre e talvolta del fratello, qualora non asciugasse in modo impeccabile le stoviglie o rifiutasse di passare il folletto sotto il tavolo, dopo i pasti.
Io e Marina, muti e impassibili, avevamo trascorso l’ora scambiandoci sguardi annoiati. Finché lei, sbuffando, non aveva sfilato dallo zaino il pacchetto delle Merit e aveva chiesto di andare in bagno. A quel punto, una voce dentro di me domandò: «Se non ora, quando?» e così la seguii nella toilette delle femmine, sentendomi coartato ad agire da un’entità superiore, disgustata quanto noi dallo sfoggio di emotività incontrollata che si stava consumando in classe. E semplicemente, con una turca come spettatrice, ci baciammo.
Seguirono tre mesi di vero amore, di quello che si fa e non si dice. Il nostro amore era indicibile perché indicibile era il dolore che ci portavamo dentro, estraneo ai percorsi tortuosi ma prevedibili delle angosce adolescenziali. A differenza dei nostri coetanei, noi eravamo gelosi del nostro malessere, ce lo tenevamo stretto, non l’avremmo mai condiviso con altri. Se parlavamo, io e Marina, era solo per dirci cose senza importanza. Non ci sforzavamo di essere brillanti, non ci interessava tirare fuori il meglio di noi stessi per fare colpo sull’altro. Ci trovavamo da me e limonavamo. Stavamo seduti sul pavimento e fumavamo. Fissavamo un obiettivo inesistente e ci lasciavamo fotografare, chissà da chi e chissà perché. Poi lei partì in vacanza studio con Giuseppe e io passai le due settimane atroci di cui sopra, nelle quali, oltre a consumarmi e diventare adulto, desiderai che il loro aereo si schiantasse sulle Alpi e la scatola nera restituisse le sue ultime parole. Queste, secondo il mio copione, avrebbero dovuto essere: «Giuseppe, sappi che io non ti ho mai amato, io amo Alberto e non sono più vergine».
Una volta appurato al telegiornale del mattino che una simile soddisfazione mi era stata negata, sia all’andata sia al ritorno, mi resi conto che se Marina fosse morta, sarebbe svanito per sempre anche quel poco di vita che in me resisteva, nella forma dell’odio e dell’amore. Oltretutto un cadavere maciullato e disperso non può essere supplicato, né insultato, e non esiste numero di telefono a cui possa rispondere.
«Mamma, faccio una telefonata.»
«Veloce?»
«Non lo so.»
«Tra mezz’ora precisa mi serve libero. Ho un’intervista.»
Get your head down to the ground/Shake it all around – a dirty sound.
Non avevamo orologi in casa, a parte il mio Casio digitale da polso, ma se mia madre diceva che avevo mezz’ora di tempo io dovevo crederci. Parte dei nostri introiti derivava dalle sue vincite al lotto, quindi se lei riusciva ad azzeccare i numeri poteva benissimo far coincidere il suo tempo interiore con quello oggettivo, in una sorta di mesmerismo tra il battito cardiaco e l’orologio atomico di Greenwich. Queste considerazioni in realtà sono recenti, all’epoca non mi ponevo simili questioni. Vivevo con una donna che parlava con gli angeli, scriveva libri di magia bianca e ogni tanto mi svegliava nel cuore della notte per accendere candele in tutta la casa e posizionarle dove lei non arrivava, mentre io, già all’età di quindici anni, ero abbastanza alto e indifferente a ciò che mi circondava. Quello che più mi stupiva era che qualcuno comprasse e leggesse i suoi libri, ma anche quelli erano introiti, e ancora adesso percepisco ogni anno una piccola quota di diritti. Ai miei amici raccontavo che mia mamma dava ripetizioni di greco antico e che per questo motivo non potevo invitare nessuno a casa e mi ero iscritto al liceo scientifico.
Still finding charms in the memory of those constrictor arms.
Al telefono mi presentai come Krosta, correggendomi subito. Suo padre mi disse di aspettare e io provai ad accendermi una Muratti con le mani sudate e tremanti. L’accendino continuava a scivolarmi tra le dita, le labbra non riuscivano a tenere ferma la sigaretta. Il mio corpo aveva smesso di eseguire i miei ordini, la mia esistenza terrena mi aveva abbandonato, come aveva fatto Marina. Tra i passi di suo padre e quelli di lei trascorse un intervallo di tempo che non mi piacque per niente. Probabilmente lei gli aveva lanciato un’occhiataccia ed era rimasta dov’era, colpita da una paralisi agli arti inferiori di origine psicosomatica. Di solito, quando chiamavo, Marina arrivava di corsa. Anzi, di solito era lei a rispondere. Adesso sentivo i suoi piedi sciabattare in corridoio ed emettere le pernacchie umidicce tipiche delle calzate estive.
«Oh, ciao Alby!» (che voce falsa, Marina).
«Non chiamarmi Alby. Sei tornata ieri, no?»
«Sì ma sai, ero stanca, tutto da mettere a posto. Con ‘sto caldo. Ha sempre fatto caldo così?»
«Perché non mi hai chiamato, eh? Almeno una volta, porcoilcazzo!»
«Ma scusa, come facevo?»
«Con il telefono.» (Marina, perché tutto questo?)
«Dai Alby, non fare così. E poi, è meglio se ci parliamo a voce.»
«Non chiamarmi Alby.»
«Ma che hai? Ti ho sempre chiamato così. Tutti ti chiamano così.»
«Mi chiamano Krosta, lo sai benissimo. E comunque tu non chiamarmi Alby, non più. Non adesso. Dove cazzo sei stata?»
«Lo sai dove sono stata! Oh, certi negozi di dischi che…» (Marina, quel tuo modo di parlare senza dire nulla che mi ha fatto innamorare).
«Non si va a Londra senza di me. Non si va a Londra con Giuseppe.»
«Ancora con ‘sta storia? Ma scusa, ne avevamo già parlato, no? Avevamo prenotato la vacanza studio molto prima che ci lasciassimo, non potevo mica dirgli di stare a casa…»
«Non si va a Londra con uno che si chiama Giuseppe.»
«Senti, Alby… Alberto, sarebbe meglio parlarne un’altra volta.» (Marina, cosa c’è ancora da dire?)
«Avete scopato? Hai scopato? Avete limonato, eh? Dimmelo che avete limonato sul Tamigi, brutte facce di cazzo.»
«Non iniziare.»
«E comunque io provo pena, Marina. Per te, per Giuseppe e soprattutto per me. Lo sai che io in queste due settimane… Aspetta un attimo, per favore.»
Appoggiai la cornetta sul tavolino e mi guardai allo specchio. La cenere aveva iniziato a colarmi addosso insieme al sudore, in bocca avevo un gusto di sabbia e di sgombro sott’olio. Tuttavia, non mi sentii pronto per la mummificazione e per dimostrarlo, e risparmiarmi la complicazione dell’accendino, accesi una seconda sigaretta con la prima, consumata in fretta con una poderosa sequenza di tiri ravvicinati. Spensi il mozzicone della prima sul pavimento con il piede nudo e mia mamma, emesso un ringhio silenzioso, sbucò dalla cucina per riprendersi il pacchetto. Mi risvegliò un dolore sotto l’alluce.
«Marina, ti sei rimessa con Giuseppe? Se non me lo dici è peggio. Peggio per voi, intendo.»
«Oh, cosa fai, minacci? Sapevi benissimo che io e Giuseppe ci eravamo solo presi una pausa. E forse poteva funzionare, se non fossi arrivato tu a incasinare tutto. Senti, io adesso non posso parlare, posso chiamarti quando i miei escono?» (Marina, i tuoi cambi di tono, la tua abilità nel modulare la voce)
«Marina, ho scritto una poesia. È dedicata a te. Se aspetti un momento, vado a prenderla in camera. Sono sicuro che ti piacerà. E senti, baby, sono tutto nudo, quindi ti prego di immaginare quello che ti sei persa.»
«Metto giù.» (Marina, e le promesse che non sai mantenere).
Infatti Marina era rimasta in linea. Le serviva un pretesto per mollarmi, o forse non aveva scelta, ma io gliel’avrei dato comunque, pragmatico come un meteorite.
«Attenta, eh. Senti che poesia, questa finisce nelle antologie:
Marina, Marina, Marina,
io che ti amavo tanto anche se odio il mare.
Marina Marina Marina,
odio anche la montagna,
odio un po’ tutto veramente,
però a te ti amavo, Marina.
Marina, Marina, Marina,
io che ti amavo tanto anche se fai rima con Farina
che se togli una R diventa Faina,
e se cambi una vocale, Fauna.
Ti ho detto che so risolvere quasi tutta La pagina della Sfinge?
Comunque, ti dicevo,
che Fauna è il nome perfetto,
perché sei un animale,
una porca maiala a essere precisi.
Senza offesa per le scrofe.
E Giuseppe? Eh?
Con cosa fa rima Giuseppe?
Te lo dico io:
con Perepeppe.
Capisci, Marina?
Con Perepeppe.
Perciò dimmi:
che senso ha andare a Londra con uno,
che al massimo,
a voler essere buoni,
fa rima con Perepeppe?
Eh, Marina?
No, porcoilcazzo.
Si sta qui, dove si è.
E si aspetta che arrivino
Noè,
la lava del Vesuvio,
i soccorritori del futuro,
gli archeologi delle Alpi
e ci sorprendano,
come paradisi,
con gli uccelli in mano.
Sapevi che la storia del diluvio l’hanno inventata i Sumeri?
E adesso continuo,
perché ci ho preso gusto:
io mi chiamo Alberto,
che se cambi la T diventa albergo.
Un albergo a ore
come quello che ti meriti.
Meretrice di Babilonia.
Prostituta sumera.
Battona del Tigri.
Succhiacazzi dell’Eufrate.»
Avevo quasi finito ma mi fermai, perché lei piangeva. Volevo dirle che l’amavo, che non importava, che sarei corso da lei così com’ero, un Cristo nudo e scalzo. Invece dissi:
«Cosa fai, Marina, piangi? C’è ancora un verso:
Troia assira.
Bella, no? È una poesia archeologica.»
«Sei uno stronzo. Me l’hanno sempre detto tutti.» (Marina, il tuo bisogno di conferme era conformismo?)
«No aspetta, tieni conto che in queste due settimane io mi sono drogato molto. Mi sono ammazzato di canne e mi sono consumato di seghe. Adesso sembro Sid Vicious. Solo che tu non sei Nancy, Marina. Tu sei solo una porca», mi uscì tra i singhiozzi. Ero davvero disperato e lei avrebbe dovuto capirlo.
«Vai a fare in culo, Alby.», mi rispose, e riattaccò.
Nell’ora più calda di una fine di luglio eccezionalmente calda, io persi il mio amore. Mia mamma, autrice di opere quali Energie positive per la tua casa e Balla con gli angeli, dopo aver salutato una Cinzia in lacrime, mi portò il mio ghiacciolo preferito, scusandosi. La sentii andare in bagno e caricare una lavatrice. Io presi lo strofinaccio appeso al gancio rosso e andai a sedermi sul balcone rovente. Mentre succhiavo il ghiacciolo pensai che il mio palazzo era uguale a quello di fronte, a quello di fianco e a quello dietro. Le tapparelle abbassate erano televisori spenti e i balconi con i gerani bocche digrignate, con il prezzemolo tra i denti. La crisi energetica avrebbe oscurato il mondo, le eruzioni di rifiuti ucciso i gerani. Ci sarebbe rimasto il sole per orientarci tra le macerie e le stelle per navigare sugli oceani avvelenati. Io e mia mamma eravamo gli unici a tenere le finestre spalancate, di giorno e di notte. Volevamo essere i primi calchi pompeiani del quartiere. Decisi di stare lì e di aspettare che i semafori iniziassero a lampeggiare sul giallo.
The signs and signals show/The traffic lights say go.
Poi suonò il telefono e mia mamma corse a rispondere:
«Angelo, eccoti!», esclamò, prima di accendersi una Muratti.
Ancora una cosa. Mi presentai all’esame di settembre con la poesia per Marina e quattro numeri di Settimana Enigmistica con la Pagina della Sfinge risolta per intero (alcune sciarade le avevo tirate a caso), ciononostante non riuscii a farmi bocciare. Passai altri due anni in classe con Giuseppe e Marina, che nel frattempo cambiò look rasandosi quasi a zero, forse in segno di protesta o di espiazione, ma comunque ottenendo lo sgradevole risultato che io la desiderai fino a perdere il senno. Mi spiegò, nell’unico momento in cui le concessi di parlarmi, che i suoi genitori l’avevano minacciata di segregarla in casa se avesse continuato a uscire con me. Ostentai la mia incredulità e diffidenza scuotendo la testa. Non ci potevo credere. Le risposi che mi pareva una balla, perché va bene che ero un punk e dovevo passarmi la saponetta sui capelli per farli stare dritti e quando pioveva era un casino, e che una volta sua madre, andando al mercato di mattina presto e vedendomi coricato su una panchina, appunto sotto la pioggia, con la faccia coperta di schiuma, aveva pensato che fossi «in overdose» (e mica aveva chiamato un’ambulanza, la stronza), però mi reputavo – e a ragione – un bravo ragazzo, a cui piaceva dormire all’aperto e generare equivoci.
Diciamo che vorrei raccontare tutto questo a quelle sciagurate a cui sono finito a insegnare e che hanno diciassette anni come li ho avuti anch’io e che dicono di essere depresse. Vorrei informarle che va bene così, che ogni cosa va sempre bene così com’è, perché il destino è ineluttabile, non ha senso prenderlo a testate, tanto vale vivere. Solo che non capirebbero, mi direbbero che la vita è di chi la vive, il mondo di chi lo abita e il destino non solo si può cambiare, ma neppure esiste e non c’è nessuna strada già tracciata da percorrere, nessuna radice a cui aggrapparsi e su cui inciampare. E ho paura che nel loro caso sia davvero così.
(Penso ancora a Marina in modo ossessivo).