Avere un figlio ti cambia tutto. Il bimbo mi ha chiesto, l’altro giorno, «Se meno a volte è di più, vuol dire che in meno si è migliori?» Un vero e proprio calcio nel didietro, il bimbo, lasciate che ve lo dica. Per niente paranoico, o robe così. Come lo straniero bruno in Farewell Land, credo. Abbattere il genio che si è scordato di crescere, come al solito. Ma anche tenerlo alla larga dalla giostra delle rogne. Dargli un bastone e un fucile, magari anche una scacchiera. Nemmeno usa il telefono. Prenderà il via, secondo i modi soliti e non poi così troppo crudeli, beh, ci sarebbe potuto essere qualcosa da tenere nascosto. Ma, come stavo dicendo, sono un uomo diverso ora, quindi scordatelo. Il bimbo è ben sistemato.
Indica cose e fa domande. Farfuglia nomi e luoghi. All’istante, ne sono sicuro. Gli alberi non si muovono come facevano un tempo. Neppure le strade se ne accorgono. Ma che c’era da aspettarsi con un bimbo così? Gli dico «Carino, la vita sono solo calzini e mutande. Lavali ogni settimana. Ammazza un po’ di zanzare, renditi utile.» Ci sono sagome di dinosauri nella buganvillea.
Il bimbo mi fa riflettere su chi è che faccio sempre finta di essere. Una ruota di gesti e pose, sguardi e assensi, gli oggetti piccoli infilzati tra le losanghe. Le barzellette che non dirò mai ritornano ad infestarmi sotto forma di filippica raffazzonata fatta solo di battute finali. E il bimbo? Ancora venera ogni marciapiede che abbia mai calpestato. Un lugubre pomeriggio ci siamo fatti una scarpinata fino al cimitero locale e abbiamo scritto i nostri nomi nel cemento ancora fresco dello slargo. Mi sono lasciato andare a un po’ di saggezza: «Alcuni dicono che un cimitero è solo un posto dove si riposa. Facciamoci un pisolino.» Il bimbo si sfrega la zucca in mezzo a tutto quel groviglio di castano e trilli, «Seppellisci il mio corpo, non mi importa dove seppelliscono il mio corpo, Signore, non mi importa dove.»
Sono queste le cose che ti inguaiano. Passo troppo tempo a soffocare per scemenze del genere. Il mio fascino forzato canta alle lucciole i loro sogni mentre piego assegni in bianco a forma di aeroplanini e bacio le finestre appannate. Un bue muschiato si è fumato tutte le mie sigarette. Qui niente, con questo bimbo, è incluso nel prezzo dell’acquisto. Ci sono sconti mal etichettati sul mobilio dei nostri ambienti in teak.
Con un bambino attorno, ti metti a pensare. Inizi a considerare i conflitti prolungati, il sorgere di tensioni, sforzi perplessi di contrarietà, pensieri perduti, avocado mollicci – il vero come-fare-per tirare avanti. Il mio bimbo si mette spille di sicurezza nelle scarpe, mastica strisce di cuoio e sputa il succo nero e unto in una scodella. Ho intenzione di iniziarlo alla birra leggera, ai ghiaccioli all’ampalaya, forse anche fargli provare il chewing-gum al pomodoro. Ma il bimbo è determinato a diventare la mia spina nel fianco. Ha deciso che non si farà impiantare i miei modi. Ha dei modi tutti suoi, che si sta provando per capire la taglia. Come cintura usa un lazo. Un bimbo che sembra fatto di ghisa. Con la canna del giardino come lazo, strascica le parole alla John Wayne, quasi soffia quando dice «Io dico lazo. Tu dici laccio.» Che si può fare con un bimbo così? Tenerselo, immagino.
Il bimbo ha imparato da solo a canticchiare e andare in bicicletta. Dondola rauco ed euforico dentro la mia indignazione sciupata, dicendomi «Le forme degli edifici sono proprio oggetti da masticare.» Io? Io getto la maggior parte delle mele fuori dalla finestra, generalmente in direzione delle macchine dei pulotti di passaggio, al sicuro nella mia stanza da letto. Spengo la luce e mi acquatto. Ma il bimbo entra, fa scattare l’interruttore della luce e rovina tutto. Gli dico «Ehi bambino, spegni quella luce!» Lui invece gira e rigira in tondo sulle punte. A volte mi fa un inchino quando ha finito. I capelli scompigliati gli stanno ritti come un migliaio di persone paonazze che cantano l’inno nazionale. Ha preso l’abitudine di indossare le tende del soggiorno a mo’ di mantello. Non ce la faccio più ad andare avanti con questa messinscena.
Ho un sogno, cucire cravatte insieme per farne abiti. Il volume del sogno è in caduta libera, ma non si è alterato. Nei sogni parlo a me stesso, dico cose del tipo «Sentire voci è meglio che non sentire niente.» Una mattina mi sveglio e scopro un acquario gigante ai piedi del letto. Non possiedo nemmeno un pesciolino.
Il bimbo: il suo cuore sguizza come sushi nel pomeriggio. Io: curvo la luce del sole con il mio specchietto da dentista. A volte fa finta di apprezzare la mia compagnia. È bello avere ancora queste cose. Ho smesso di farmi il bagno. Mi sono messo ad ascoltare il rumore tra le stazioni radio quando costruisco finti robot con le scatole laminate porta verdura da buttare via. Davanti al bagliore della TV porto una bombetta viola. Il bimbo mi scruta con occhi gommosi, canticchiando The Speed of the Sound of Loneliness con quanto gli resta del fiato che sta trattenendo. Posso sopportarlo. Non ci riesco più. Gli dico «Il corpo produce colesterolo mentre dormi.» Lui sbatte forte gli occhi un paio di volte e tocca con l’alluce il margine della moquette tra le stanze, mormorando «Non pensare, non pensare, non pensare.»
C’è dell’altro. C’è un motivo dietro tutto ciò, anche se non mi aspetto che lo capiate. Il fatto è che io dico al bimbo «Qualche svitato una volta ha detto che “È un errore fare teorie prima di avere tutte le prove. Influenza il giudizio.”» E il bimbo, sì, questo bimbo, inizia a fremere. Un errore zigomatico il suo – qualcosa di elastico che si contorce. Una fitta. Un tic. Un grappolo, quasi un ammasso di nervi efferenti e afferenti. Non sono equilibrato abbastanza da inventarmi una definizione migliore. Il bimbo è alla ricerca di struttura, o di una qualche forma di sottile condanna a morte alla struttura, forse.
Le porte sono fatte per bussarci contro, a volte tardi la notte, mentre il bimbo palpita esanime nel sonno. Tra me e me penso: «Mentre il pomello gira.» Mi intrufolo nella stanza al pianterreno, la cameretta del bimbo, e lo spio tutto avvolto negli spasimi di un lussuoso tumulto. Sussurrare mi concede una trazione piovosa sulla quale scivolare via. Mi inginocchio di fianco al letto a baldacchino da Napoleone in Esilio e infilo la testa sotto le tende di carta oleata. Le molle pieghevoli del materasso in feltro hanno fastidiose ramificazione. Stringo coltri di velluto e coperte di ruvida iuta. Il bimbo si volta, ma non si agita. La mia voce incalza e si affievolisce: «Ti ricordi di me? Ero quello che faceva le verticali al Charlie Rose Show. Mosche penzolanti che galleggiano attorno al tavolo di quercia. E sto cantando, te lo ricordi? Sto cantando “Hey, Mr. Tangerine man, sell some fruit to me”. A Charlie non importa come sto seduto sulla sedia, e nemmeno se mi ci siedo affatto. A volte con una posa all’amazzone, insieme a me: i piedi penzoloni da un lato, le braccia dietro la testa nella posa più rilassata che ci sia. Avevo qualche sigaretta con me, e con una ci facevo il gioco dei fiammiferi mentre Charlie mi interrogava. Gli ho detto cose del tipo “Charlie, ehi, ho una bambola gonfiabile da diciannove dollari e novantacinque con un buco in testa. Sono cosmopolita quanto un capodoglio. Che altro ti serve sapere?”»
Cerco di insegnare qualcosa al bimbo, qualcosa del tipo «La lezione non serve a nulla se la gente comunque disobbedisce alle regole del traffico. Le stesse cose continuano a succedere, ma in modo diverso. Devi solo essere gentile. Aiutare gli altri. È l’unica cosa che devi fare in questo mondo.»
Invece no, non gli lascio niente, da imparare, intendo. Il bimbo se la vedrà da sé, o lascerà stare. Il bimbo è capace di ragionare.
E così, traballiamo per di qua, ora – da soli e insieme, il bimbo ed io – improvvisando strada facendo.
E, giusto per mettere in chiaro le cose, ci va più che bene così.
Traduzione di Francesca Massarenti.