Di mio padre sapevo soprattutto due cose. Che amava gli animali più di se stesso. E che vedeva il mondo attraverso di loro. Quando morì, non lasciò solo debiti da pagare, ma anche un mucchio di fogli disordinati, dedicati a me e a mia sorella. Passarono anni prima che li ricevessimo perché mamma pensava che fossimo troppo giovani. Negli ultimi tempi papà aveva perso la ragione, e almeno due terzi del contenuto non erano appropriati per ragazzi di tredici e quattordici anni. La realtà è che c’erano diverse parti in cui si riferiva a lei in modo crudele. Non fu così cinica da censurarle, tuttavia il giorno in cui ci consegnò quella bizzarra eredità ci ricordò lo stato in cui si trovava papà poco prima della fine.
I fogli, una volta ordinati, formano una specie di bestiario o una raccolta di favole. C’è veramente di tutto: appunti sparsi, disegni, piccoli saggi, perfino frammenti di racconti. La maggior parte delle voci presenta questa struttura: descrizione di un animale reale o immaginario, seguita da una breve riflessione o un’annotazione.
La fenice fu l’unico animale dell’Eden che resistette alla tentazione e poté conservare la vita eterna. Secondo la tradizione, per azione del fuoco si consumava ogni cinquecento anni e, allora, una nuova giovane fenice sorgeva dalle sue ceneri. Ogni cinque anni (sono ancora lontano dagli zeri), anche io cerco di ricominciare tutto da capo. Organizzo un viaggio, cambio lavoro, mi trasferisco da un’altra parte. Vostra madre non è mai riuscita a capire davvero lo spirito di questi rinnovamenti.
L’anfisbena è un serpente con due teste, una sta dove dovrebbe essere e l’altra nella coda. Può mordere con entrambe, corre con leggerezza e i suoi occhi brillano come candele. Nel XVII secolo, sir Thomas Browne osservò che non poteva esserci un animale senza una parte inferiore, o superiore, un davanti, un dietro, una sinistra o una destra, e negò quindi l’esistenza dell’anfisbena, nella quale entrambe le estremità erano anteriori. Quello che però sir Thomas Browne non sapeva era che mancavano tre secoli alla nascita di Alejandra. Le due lingue biforcute che possiede spiegano la sua capacità di esprimere allo stesso tempo le cose più belle e le più orribili.
Per un po’, quando ancora erano sposati, vivemmo in una casa con un giardino e una piscina. Giardino per modo di dire. Le piante e gli alberi crescevano incolti, rompendo l’armonia contenuta e un po’ inglese dei giardini vicini. Anche la piscina lo era per modo di dire. Papà l’aveva trasformata in uno stagno in cui allevavamo carpe, nutrie e perfino due caimani jacaré nani portati furtivamente dall’Iberá. Per periodi più o meno lunghi, a seconda del suo umore, possedemmo lepri, donnole, gufi, scimmie. Ricordo ancora il mio animale preferito che visse con noi solo un mese: un furetto con le zampette nere che era la versione in miniatura e allungata di un panda. A scuola casa nostra era famosa, tra i nostri compagni che ci chiedevano ogni giorno di essere invitati, e anche tra i genitori, che non li lasciavano mai venire.
Un inverno i caimani jacaré scomparvero. Ci svegliammo una mattina e quando andammo a portargli da mangiare non c’erano più. Nascosti dalla siepe, erano riusciti a scappare allargando uno dei rombi della rete della recinzione. Per giorni perlustrammo il giardino, li cercammo per strada e alla fine dovemmo affiggere cartelli in tutto il vicinato per avvisare i vicini che facessero attenzione. Riapparirono mesi dopo, quando già ci eravamo dimenticati di loro, ancora insieme e morti di freddo in un fosso.
C’è una sezione, o un capitolo, a circa a metà dei fogli, in cui cambia il registro, o l’intenzione. Comincia così: “Il paese che abbiamo si può spiegare solo attraverso una favola”. Poco dopo compaiono voci che sono frammenti sparsi, come favole incomplete. Alcune le ricordo, perché era solito raccontarle quando in casa sorgevano discussioni di natura politica.
Pensate a dei castori che vivono alla foce di un fiume e lo controllano, obbligando gli animali del bosco a pagare un tributo per poter proseguire il viaggio…
Le pavoncelle lasciavano cadere delle pietre sulla tana del giaguaro per obbligarlo ad abbandonare il suo nascondiglio. Molti animali innocenti che passavano di lì morirono, nessuno sa quanti, perché le pavoncelle si occupavano poi di cancellare il conteggio del giorno dalla corteccia degli alberi.
… Nascondevano le uova degli uccelli morti e se li portavano lontano, in modo che fossero allevati secondo gli usi dei rettili e non imparassero mai cosa significa volare…
All’apice di una lite, lui alzava le mani come se volesse arrendersi, ma quello che voleva veramente in quel momento era tranquillità. Allora, davanti a tutta la famiglia o agli amici, si metteva a raccontare una favola e poi ci incoraggiava a dire quello che pensavamo. Dubito che a quell’età dicessimo qualcosa di interessante, e tuttavia lui faceva uno sforzo per tradurre i nostri pensieri, per estrarne un’idea o un significato originale. Non dimenticherò mai la notte in cui mia sorella corse via piangendo per via della pressione di tanti sguardi fissi su di lei. Isterica, balbettava e le sue urla erano tanto acute che parevano frecce appuntite. Papà dovette abbracciarla e chiederle scusa diverse volte prima che lei si tranquillizzasse.
Nella sua critica all’educazione francese, Rousseau attacca l’uso delle favole con i bambini per via della loro morale equivoca e ambigua. Per esperienza, posso affermare che i bambini sono a volte molto più perspicaci e intuitivi degli adulti. Riescono a capire il vero significato e ne traggono conclusioni e insegnamenti pur senza comprendere appieno quello che hanno ascoltato o letto.
A papà piaceva molto leggere, e leggere per noi. La scrittura invece era un’abitudine notturna e privata che non condivideva con nessuno. Tuttavia, in qualsiasi momento e in qualsiasi parte, tirava fuori un libro da chissà dove e noi ci sedevamo sulle sue ginocchia. Il bestiario di Aberdeen, le favole di Esopo e La Fontaine. E ancora, Borges, Quiroga, Arreola, Monterroso, Kafka. Fu lui a trasmettermi la passione della lettura quando ero piccolo. Io credo che leggessi quelle storie cercando lui e probabilmente continuo a farlo ancora oggi. Quando papà iniziava a leggere a voce alta, c’era qualcosa di ipnotico, molto particolare, nel tono e nel ritmo che dava alle frasi. Perfino gli animali della casa si avvicinavano per ascoltarlo: li si poteva sentire, quieti e allerta tra le piante, come se in qualche modo intuissero che si parlava di loro.
Da giovane non volle studiare veterinaria per non perdere il mistero, con la maiuscola. Così come i medici, diceva, perdono umanità nel contatto con i pazienti, lo stesso succede con i veterinari. Loro non possono apprezzare l’essere – anche quello con la maiuscola – che si trovano davanti, vedono solo la malattia o la ferita. Però non era vegetariano né un acerrimo difensore dei diritti degli animali. Credeva in un’oscura giustizia della natura, che distribuisce a caso la vita e la morte. Detestava le corride di tori ma solo per la disparità nelle condizioni del duello. Poteva macellare e arrostire un agnellino nella fattoria dei nonni senza sentirsi in colpa, e tuttavia non facevamo mai la spesa in un supermercato. Secondo lui, la carne che vendevano proveniva da animali allevati in campi di concentramento. Ed era capace di sentire quel dolore al primo boccone, come una scarica elettrica. Per questo motivo, una volta al mese andavamo fuori città per fare la spesa negli alimentari di paese e nelle fattorie ecologiche.
Alcuni dei frammenti sono più difficili da classificare però, nell’insieme, e soprattutto per chi che come me lo aveva conosciuto, producono un certo effetto: è come una vibrazione che riporta al passato.
Fino a molto tempo dopo, continuai a credere che le mancuspie esistessero. Le cercavo con quel nome e con altri, dai manuali di zoologia fino agli allevamenti. Arrivai anche a pensare che fosse un incrocio di specie diverse.
Nel 1862, Darwin predisse l’esistenza della farfalla Sfinge di Morgan. Per la forma dello sperone dell’orchidea cometa, lungo trenta centimetri, dedusse che doveva esistere un insetto capace di impollinarla. Ma fu solo quarant’anni più tardi che una spedizione francese catturò in Madagascar una farfalla bianca con una proboscide di trenta centimetri. Osservando attentamente l’ambiente, potremmo indovinare come saranno gli animali del futuro.
Le notti in cui non riesco a dormire, ricorro al vecchio cliché di contare le pecore. Ma invece delle pecore, arrivano dei lupi, lupi nerissimi, quasi blu dalla brillantezza, e invece di saltare la staccionata di un campo in mezzo alla pianura, saltano dentro la mia stanza per la finestra aperta. E quando l’insonnia si prolunga fino a mattina inoltrata, a quel punto i lupi sono quindici, trenta, quaranta che si ammucchiano intorno al mio letto, sotto al letto, dentro i cassetti o nell’armadio, sopra la scrivania…
Tra le sue carte, trovammo un quaderno senza copertina con dentro un racconto. È più lungo degli altri ed è l’unico che sembra essere completo. Forse manca qualche scena o collegamenti tra un episodio e l’altro, ma sono solo minuzie. Il titolo, barrato e scritto di nuovo in rosso, è “Animali dell’impero”. L’influenza borgesiana nello stile è evidente, con un certo gusto per l’eccesso. In un’annotazione a margine papà lascia intendere che avrebbe voluto farlo passare per un racconto inedito e perduto di Borges, che all’epoca era morto da appena un anno. Però appariva più che altro come una giustificazione. Il narratore è un uomo anziano che sta agonizzando nella cella di una torre. Tempo e luogo sono indeterminati, ma appaiono qua e là riferimenti alla cultura medievale e antica. Prima di morire, l’anziano supplica il suo carceriere di ascoltarlo e di far circolare la sua versione della storia.
Indubbiamente verrò ricordato, anche se forse non nel modo in cui avrei voluto. E ora attendo la morte, come l’ultimo degli schiavi. Se in passato l’imperatore non avrebbe osato ignorare i miei consigli, ora non posso pronunciare una parola senza incorrere in un castigo.
In gioventù il personaggio era stato un celebre guerriero che si era guadagnato l’amicizia dell’imperatore per aver difeso le mura della città. Alla morte di quest’ultimo, dopo i funerali durati tre giorni e tre notti, viene convocato dal suo successore. Il primogenito dell’imperatore, giovane e presuntuoso, gli comunica di avere per lui un incarico all’altezza della sua fama, e gli affida la ricerca dei leggendari animali dell’impero. Quelli che avevano favorito i loro antenati nell’antichità e che popolano i poemi epici e le facciate di pietra dei palazzi: il grifone, il drago e la chimera. Fin dall’inizio il guerriero sospetta un imbroglio, ma non ha altra scelta che accettare. Per due mesi si dedica a riunire gli uomini che lo accompagneranno nella ricerca e, finalmente, parte per la sua missione.
Distruggemmo interi villaggi, incendiammo i loro boschi, uccidemmo gli abitanti in cerca degli animali perduti dell’impero. Nessuna traccia di loro, nessun segno. Nulla che ci mettesse sulla pista giusta. I mercenari ai miei ordini iniziavano a stancarsi. Sparivano in gruppi di due o tre durante la notte, insieme a una parte del bottino. Nell’oscurità, sentivamo il rumore degli zoccoli dei cavalli che si allontanavo e subito dopo, nell’accampamento, sospiri di rassegnazione.
Passano due o tre anni prima che il guerriero ritorni dalla spedizione. Le uniche cose che porta in dono sono alcuni animali dall’Oceania, trafficati da mercanti orientali. Anche se non vengono nominati, dalla descrizione è facile dedurre che si tratta di un canguro, un kiwi e un koala. Oltraggiato dall’offerta insufficiente, l’imperatore lo fa flagellare e lo spedisce ancora più in là questa volta, fino ai confini dell’impero. Il guerriero capisce che non potrà più tornare. La sua spedizione è un esilio. Viaggia per il deserto e per i boschi, per la tundra e la montagna, perché l’impero è così vasto che contiene tutti i diversi climi. Una notte, sdraiato nella sua tenda, escogita il piano che lo avrebbe salvato.
Quegli animali non esistevano, erano il prodotto di voci e superstizioni. E se non esistevano, inventarli era mio compito, e la mia salvezza.
La chirurgia era allora una scienza creatrice, non si limitava ad aggiustare le imperfezioni dei corpi. Il dolore non permetteva di fare esperimenti con animali né uomini vivi perché inevitabilmente morivano durante le operazioni. Nelle rare occasioni in cui qualcuno riusciva a sopravvivere, moriva poco dopo per una febbre di origine sconosciuta. Iniziò la sperimentazione sui cadaveri, ma le leggi della religione erano rigide e la pratica della chirurgia si fece clandestina, notturna.
In segreto inviai uomini a cercare aquile nere sui Monti Urali, coccodrilli a Tebe e leoni a Cartagine. Con i miei accoliti, nascosti nella mia torre, provai le prime combinazioni possibili. Un torso di donna con coda di coccodrillo. Un bambino con ali di cigno e artigli di leone. Una pantera con testa di aquila e coda di serpente.
Mesi dopo, quando si è perfezionato nell’arte oscura, decide di presentarsi al cospetto dell’imperatore. Gli animali vengono esposti su delle carrozze, in posizioni minacciose. Per uno strano meccanismo di pulegge sembrano fluttuare nell’aria. Il clamore per la sorpresa si estende per le sale del palazzo arrivando fino in strada. I bambini si mettono a correre per spargere la notizia. È talmente straordinaria che nemmeno si deforma nel passare di bocca in bocca. Alcune donne svengono, altre si dirigono isteriche al tempio. Tutti, incluso l’imperatore, restano meravigliati. Tra lo stupore generale, un alto funzionario della corte chiede perché tutti gli esemplari siano morti. Il guerriero spiega che è impossibile catturare quei magnifici animali senza ucciderli. Dopo essersi brevemente consultati, lasciano che il guerriero se ne vada in pace. E così, anno dopo anno, vengono depositati accanto al trono i cadaveri assemblati che si putrefanno davanti agli occhi dell’imperatore. Nessuno scopre mai l’inganno, o a nessuno interessa scoprirlo. Passa il tempo, misurato in lustri o decadi. Già anziano e ritiratosi a vita privata, colmo di onori, il guerriero riceve la visita di uno dei suoi vecchi accoliti, che lo ricatta. Paga pur sapendo che presto ne sarebbero arrivati altri, e giunge infine il giorno in cui viene accusato di tradimento. Quando lo trovano, nascosto tra i resti di antiche rovine, sfodera la spada con una goffaggine che fa ridere i suoi aguzzini. Qui la narrazione si interrompe.
L’anziano si rende conto che non c’è nessuno ad ascoltarlo, il carceriere non è rimasto al suo posto. All’esterno sta succedendo qualcosa. Dal corridoio arriva rumore di passi e porte che si aprono. Una luce lo acceca per qualche secondo e allora vede l’imperatore, ormai quasi vecchio come lui, dentro la sua cella. È a cavallo di un grifone, un grifone vivo, reale, e sorride. Attraverso la cispa e le cateratte che gli annebbiano la vista, l’anziano nota che i suoi movimenti sono naturali, che l’immenso animale respira e batte le palpebre. Non ci sono segni di cicatrice da nessuna parte. La testa di aquila è la continuazione reale del corpo di leone.
L’imperatore contempla il mio corpo ormai finito e pronuncia la sentenza finale: l’inferno sarà degli increduli. Allora il grifone si alza sulle zampe posteriori e nello spalancare le ali solleva la polvere della mia cella. La stessa polvere che prima di cadere se ne andrà con me.
Da quando l’ho preso in mano per la prima volta quel pomeriggio, l’ho riletto un centinaio di volte. Direte che non posso essere imparziale, eppure, nonostante gli errori, è un racconto che mi piacerà sempre. La visita dell’imperatore è un’allucinazione o è reale? In termini letterari, per me è un dettaglio irrilevante. L’unico problema è che confonde la mia idea di lui. Quanto pazzo era diventato?
La legge sul divorzio diede a mia madre la spinta decisiva per separarsi da mio padre. Aveva finito le scuse, e in realtà non era mai stata una persona religiosa. Quell’anno a scuola ci furono una valanga di divorzi, come se ci fosse veramente bisogno di un pezzo di carta per dividere una famiglia. Ci trasferimmo in un appartamento in centro. Aveva due stanze, era luminoso e pulito, in uno dei piani alti. Le mattine di cielo limpido si poteva vedere l’Uruguay, dall’altra parte del fiume. Di tutti gli animali che avevamo potemmo portare con noi solo una coppia di tartarughe. Con la scusa del tappeto, il regno animale, che prima occupava ogni angolo, si ridusse allo spazio tra la lavanderia e il balcone.
Verso la metà di quell’anno, il comportamento di papà cominciò ad essere sempre più incoerente, tanto da lasciare sconcertati persino quelli che lo conoscevano meglio. Perse l’affidamento condiviso e improvvisamente si ritrovò a poterci vedere solo una volta al mese. Veniva a prenderci con il suo furgoncino e ci portava in mille posti diversi: al cinema, in centro, a mangiare la pizza. A volte, dava l’impressione che fosse arrabbiato con noi, come se ci incolpasse per aver deciso di abbandonarlo. Non ci portava quasi mai nella sua nuova casa. Era minuscola in confronto a quella di prima, e ciò nonostante non riusciva a tenerla pulita e in ordine. Immagino che in seguito smise di preoccuparsene perché cominciammo a passarci qualche pomeriggio. In quel periodo morirono vari animali, per la mancanza di cure o per la tristezza. Improvvisavamo funerali con dei vasi, se la grandezza del corpo lo consentiva, o in uno spiazzo che c’era dietro casa. Visto il suo aspetto, chiunque avrebbe detto che il prossimo sarebbe stato lui.
Ci fu un periodo, quasi due anni, in cui non sapevamo dove fosse. Telefonava e chiedeva di parlare con noi. I momenti in cui la voce si interrompeva non erano dovuti alla linea quanto piuttosto ad un ingorgo dei suoi pensieri. A seconda di chi lo racconta, mia madre o mio zio, le ipotesi variano e si contraddicono. Si dice che fosse in una clinica. Che trovò lavoro come guardaboschi giù al sud. Che addirittura stesse pensando di montare un’arca-zoo con alcuni amici. Posso immaginarlo, vestito da capitano, portare i suoi animali in giro per il mondo di porto in porto. Sembra che sia arrivato a procurarsi una barca per questo scopo, con investitori e permessi del governo, ma che il progetto sia sfumato ad un certo punto. Ancora oggi non abbiamo trovato nessuno che sappia la verità.
Negli ultimi fogli la grafia si deforma, deraglia dalle righe come un treno senza controllo. Ci sono molte più cancellature e segni incomprensibili. Cominciano ad apparire animali di sua invenzione.
L’ijodemil è un animale perfido come nessun altro. Invade colonie e branchi di altre specie, cambiando aspetto a suo piacimento. Le sue cellule al microscopio non si distinguono da quelle di un cancro. Dalla sua posizione di vantaggio, inizia a rilasciare in quantità minime un veleno che provoca conflitti all’interno del branco, fino al punto di scioglierlo. L’unico momento in cui esce allo scoperto, rendendosi vulnerabile, è quando dorme. Gli è impossibile mantenere l’aspetto rubato per tutta la notte. E, se non mi credete, questa notte entrate nella stanza di vostra madre e osservate la faccia dell’uomo che dorme accanto a lei.
Sono grato che abbia scritto cose di questo genere, sebbene poche. So che corro il rischio di trasformarlo in una caricatura. Però penso agli orfani, che non conoscono i propri genitori. Nessun documento che contenga un flusso di coscienza, un modo di essere o di pensare. Le foto, ora ne sono sicuro, non servono a nulla. Per anni vidi foto sue, conservate in scatole polverose, istanti congelati di un tempo perduto. Nessuno sapeva dirmi quando fossero state scattate, cosa fosse successo prima o dopo, cosa stessero pensando in quel momento.
In certe occasioni, durante le cene di famiglia, viene fuori la storia di papà e degli animali. Non manca mai qualcuno che, con superba ignoranza, si lanci in un qualche tipo di diagnosi psichiatrica. Esiste una sindrome, sento dire da qualcuno, che descrive quelle persone che accumulano animali in maniera ossessiva. Quello che lui aveva era un’altra cosa, dico. O molte altre cose, ma questo non lo dico. E quando partono in quarta con conversazioni di questo genere, soprattutto mia sorella, preferisco non ascoltare.
Il giorno in cui papà morì, Buenos Aires era allagata. La pioggia di due temporali aveva fatto straripare il fiume Maldonado, che scorre sotto la città. Al telegiornale mostravano degli incoscienti che navigavano con canoe e tavole da windsurf per le strade in pendenza. Io tornavo da scuola quel pomeriggio e, come un presagio, vedevo animali morti che si accumulavano nelle fogne: topi, gatti, piccioni.
L’ultima voce del suo bestiario è la più inquietante. È quella che dissi a mia sorella di non leggere. Poco dopo averla scritta, mi ha detto mio zio, lo hanno trovato morto. La casa era sottosopra, sporca, le pareti imbrattate come una continuazione dei suoi appunti. Mancavano i mobili e gli elettrodomestici che aveva dovuto impegnare. In ogni angolo dell’appartamento erano apparse certe palline verdi, senza odore, come biglie: escrementi di un animale che nessuno seppe dire che cosa fosse.
La scimmia dei suicidi è uno degli animali più strani. Ha tre braccia e non ha zampe. Appare la notte, quando tutti dormono, sempre appesa per la coda. È una coda muscolosa e lunga, a forma di punto interrogativo. In ogni mano impugna un’arma diversa. Dall’ubicazione o nazionalità del suicida dipende il tipo di arma che porta. In Asia, sono comuni le daghe. Nel Nord America abbondano le armi da fuoco. La scimmia che conosciamo da queste parti porta un coltello simile a quelli che si usano per farsi la barba, un piccolo revolver e un flacone di pastiglie. La sua abilità di giocoliere è unica nel regno animale e il divertimento è riuscire a toglierle uno dei tre oggetti che agita costantemente in aria. È allora che comincia un gioco con il suicida, fino a mattina, che nessuno sa come finirà.
Traduzione di Francesca Miola.