A Riccardo, al suo diminutivo da bambino viziato, al suo giovanilismo ridicolo, ai suoi viaggi spirituali in terre lontane, descritti con umiltà esibita; alla sua retorica umanitaristica – smentita da uno smisurato egocentrismo – mi è capitato di augurare la morte. E mi sono persuasa, negli anni, che sia una prova irrefutabile che ci fu amore, che ce ne fu tanto e forte. Di quell’amore che non costruisce niente, perché l’amore non deve costruire e non possiede nessuna insita progettualità, neppure quando, per volontà o per capriccio del destino, si agglutina in un altro essere umano. Il nostro, per fortuna, non si agglutinò mai in nulla. Riccardo è diventato padre a un’età che oggi nessuno considera veneranda. Io niente, ventre secco, e forse anche questa è stata una fortuna: non ho la tempra accogliente della madre, non so offrire il mio corpo a tempo indeterminato, posso concederlo qualche ora a un uomo perché lo abiti e lo scuota, ma devo poter riprendermelo quando lo desidero, anche di punto in bianco, senza spiegazioni. Capitava spesso con Ricky, per una parola detta a sproposito o un gesto brusco – era la nostra specialità – e io mi alzavo e lo lasciavo disteso sul letto con il pene eretto, satiro frustrato e stizzito. Gli spigoli dell’uno combaciavano con le parti in carne viva dell’altro: due esseri nati per ferirsi.
Seguo la pallina azzurra del navigatore: sto andando a trovarlo. Mi ha convocata il suo primogenito per telefono. Chissà dove avrà scovato il mio numero e il coraggio per comporlo. Mi blocco quando non capisco se sto facendo avanzare la pallina nella direzione giusta: a piedi è lenta, approssimativa, ingannevole. Parigi mi ha concesso l’alibi di non guidare, un limite che Riccardo definiva da “donnina degli anni 50”. Uno dei nostri grandi argomenti polemici: i “comportamenti tipicamente femminili”, “i comportamenti tipicamente maschili”, e non saper guidare combaciava con tutte le sue irritanti convinzioni.
La telefonata del figlio mi ha raggiunta in Italia, nell’appartamento lasciato vuoto dalla morte di mia madre: «Quale Fabrizio? Figlio di quale Riccardo?» Conservo da qualche parte la foto sgualcita di un neonato con due occhietti da foca, ma non ricordavo l’avessero chiamato Fabrizio. Sua madre potrebbe essere mia figlia; io, l’amore giovanile, la donna più esperta, lei l’amore maturo, di vent’anni più giovane. Qualcosa mi bruciò dentro quando ricevetti quella foto: si rimpiangono anche i figli che non si sono voluti quando non se ne possono avere più.
Non so essere puntuale quando non si tratta di lavoro: mi sembra superflua questa precisione quando non c’è in gioco il sostentamento. E poi una strana indolenza mi rende poco collaborativa quando mi s’impone di abbandonare il mio ecosistema per ricrearne un altro altrove: starei sempre – magari anche male – nella posizione, situazione, collocazione presente. Così stamattina, mentre pensavo a Ricky, a come lo avrei ritrovato, oziavo accoccolata sul divano polveroso di mia madre, infreddolita e affamata, ma non mi decidevo ad alzarmi, ad abbandonare la mia scomodità per vestirmi, mangiare un boccone e cercare l’indirizzo della “Struttura Residenziale per anziani non autosufficienti” dove l’hanno parcheggiato.
E adesso che ci sono, finalmente, davanti a questa struttura, con i miei prevedibili venti minuti di ritardo, non ho coraggio di entrare. Da fuori sembra una casa di riposo come un’altra, signorile e deprimente: un cortile interno con aiuole fiorite e panchine, alberi studiatamente piantati per creare refrigerio durante l’estate, porte azzurre, finestre bianche, facciata in mattoni. Ricky ha sessantadue anni, tre meno di me, e non riesco a capacitarmi che il tempo in cui siamo stati separati, questi vent’anni passati in due Paesi diversi, lo abbiano trasformato in un anziano, lui che neppure voleva crescere, figuriamoci invecchiare.
All’accoglienza mi dicono che il Dottor Longato mi sta aspettando al primo piano, ma accanto alla porta del suo studio m’imbatto in un ragazzo in jeans e camicia, assorbito da un libro di filosofia. Sembra felice di riconoscermi quando mi stringe la mano e mi ricorda che ci siamo parlati per telefono. Deve avere diciotto anni o giù di lì. Un bell’uomo, come suo padre. Qualche frase di circostanza prima che la porta si apra e faccia capolino il medico, poi ci sediamo davanti alla scrivania del dottore, fianco a fianco. L’ometto rubicondo con guance avvinazzate che ci ha ricevuto non farebbe pensare a un medico senza il camice bianco, ma piuttosto all’avventore assiduo e nullafacente di un baraccio di paese. Spiega che Riccardo è affetto da una forma di demenza moderatamente grave, che gli permette, con qualche aiuto, di essere autosufficiente nelle azioni quotidiane. I danni più gravi riguardano la memoria e il discernimento. Le sue capacità sono ondivaghe: ha giornate e anche settimane molto positive, in cui riconosce familiari e personale e mostra di sapere dove si trova e in quale periodo della vita; seguite da fasi di durata variabile in cui perde la nozione dello spazio e del tempo e può arrivare a respingere i suoi cari come estranei inopportuni.
«Sono contenta di rivederlo, anche se preferirei che fosse in un altro posto. Ma non capisco perché mi avete cercata e cosa posso fare per lui… o per voi.»
«Vede Carla, Riccardo non è mai stato un paziente particolarmente difficile, ma nelle ultime tre settimane ha iniziato a rifugiarsi in una dimensione imprecisa, in cui – ed è questa l’unica cosa certa – si è da poco interrotta la vostra relazione. In sé la cosa non avrebbe nessuna importanza se non fosse che si rifiuta di mangiare come protesta perché lo costringiamo a restare qui: sostiene di doverla assolutamente ritrovare per spiegarle una cosa importante. E poi ha aggredito più volte gli inservienti, è violento.»
«Capisco. Cioè, in verità no. Cosa dovrebbe spiegarmi?»
«Appunto, non lo sappiamo, per questo l’abbiamo chiamata, perché ci aiuti trovare una risposta e a calmarlo.»
«Non credo di essere la persona giusta… Io non ho mai saputo calmarlo.»
«Ci serve solo per capire dove è rimasto impigliato, in quale avvenimento del passato.»
«Fabrizio» dico rivolta al ragazzo. «Non credo di potervi essere utile, mi dispiace.»
«Ma potrebbe almeno provare» mi risponde lui incalzante.
«Non riconosce voi della famiglia, perché dovrebbe riconoscere me, vent’anni dopo? Ero un po’ diversa vent’anni fa…» dico un po’ imbarazzata aggiustandomi i capelli con le dita.
«Non è necessario che la riconosca, basta che lei riesca a capire di cosa sta parlando.»
«Ma gli entro in camera così? Chi sono? Chi devo dire che sono? Mi sembra…. Scusate… davvero, mi sembra un po’ un’idiozia.»
«Non insisteremo se non se la sente, ma la cosa non è poi tanto strana né difficile. Riccardo parla molto con Fabrizio, anche se in questo momento non lo riconosce, almeno non come suo figlio. Potrebbe entrare con lui. Fabrizio potrebbe presentarla, dirgli che l’ha ritrovata. Non è detto che capirà, ma forse parlerà con lui come fa in questi giorni, tirerà fuori nuovamente questa storia e lei potrà aiutarlo a capire.»
«Ma tua madre è d’accordo?» chiedo d’un tratto sospettosa.
Ed è lì che la porta si apre: Sara. Mi alzo e le vado incontro. Le stringo la mano, le sorrido. Non è cambiata molto. Siamo insieme, nella stessa stanza, e la sua figura minuta, esile, graziosa ha oggi l’età che avevo quando le nostre biografie si sono incrociate per colpa di Ricky. Come Sara, sono ciò che si definisce “una donna piacente per la sua età”, ma la mia di età mi esclude dalle dinamiche della seduzione, in cui avverto subito che lei è ancora in gioco. Non essere più un potenziale oggetto sessuale: una sintesi crudele ma onesta di come si percepisce d’un tratto, dolorosamente, la propria senescenza; ed è tanto più inaccettabile quanto si è stati desiderabili. Sara è ancora una femmina per la maggior parte degli uomini in circolazione, io ormai solo per un’esigua minoranza. Ci studiamo un po’ imbarazzate. Ignoro cosa stia pensando del mio aspetto di oggi; io poso sulla sua pelle ancora tesa, sfiorata da cedimenti localizzati uno sguardo curioso, ammirativo, ma non invidioso. È intorno ai 45 anni che Riccardo si è innamorato di Sara, ed è a 45 anni che, seppur “ben conservata” ho dovuto fare i conti con un dato biologico ineluttabile: ero, e a maggior ragione sono, troppo vecchia per una relazione con un uomo della mia età.
In presenza di Sara, chissà perché, cedo. Saranno i suoi occhi da cerbiatta sapientemente truccati, la timidezza dei suoi sguardi, quelle mani affusolate, con cui si tormenta i capelli e si risistema più volte la gonna sulle belle gambe abbronzate… Provo un’inspiegabile attrazione per questa donna dal corpo nervoso e sottile. Il dottore continua a parlare, a spiegare, ad argomentare, ma io, che ho già preso la mia decisione, mi perdo nell’osservazione dei lineamenti della madre e del figlio: Fabrizio sembra solo di Riccardo, non le somiglia affatto.
Mentre seguo Fabrizio per i corridoi di questo pensionato desolante, in cui aleggia un odore persistente di pietanze troppo cotte in pentole troppo grandi, mi chiedo che ruolo abbia avuto Riccardo nella mia vita. Dopo di lui, solo relazioni brevi con uomini gradevoli e perbene che non ho mai voluto accanto, nemmeno quando mi avrebbero semplificato il quotidiano. Rompo il silenzio con una domanda stupida, una di quelle che non sopporterei:
«Che padre è stato Riccardo?»
Fabrizio si volta stupito, ma non mostra nessuna esitazione:
«Mite, comprensivo, affettuoso. Un mammo.»
Un mammo, Ricky. Mi viene quasi il dubbio che ci sia uno scambio di persona. Lui, che era capace di fissarti con disprezzo mentre piangevi e intimarti di “darti un contegno”. Un giorno lo avevo chiamato sconvolta dopo aver assistito all’investimento di un vicino di casa; aveva riagganciato dopo pochi secondi evocando molto lavoro da sbrigare. Quando usava il termine ”lavoro” Ricky non intendeva necessariamente una mansione professionale: era lavoro anche finire un libro che aveva promesso di recensire per un club di lettura. I libri erano, con il sesso, la sola cosa che ci unisse, ma anche loro riuscivano a farci litigare. Quando leggeva non voleva essere disturbato, né interrotto e le mie chiacchiere lo rendevano irritabile.
Fabrizio spinge una porta e me lo trovo davanti, di profilo, seduto su una sedia piazzata di fronte a un tavolo ingombro di volumi impilati e di altri sparpagliati. Non mi ero preparata al fatto che vent’anni potessero averlo trasformato banalmente in una versione più magra e rugosa di se stesso, una versione dallo sguardo mite e spento, perso in indecifrabili studi della parete di fronte. Tutto qui? Avremmo quasi potuto invecchiare insieme, mi dico scordandomi che è stato lui a stancarsi di me e che non siamo mai riusciti a passare più di due ore nella stessa stanza senza entrare in conflitto. Impossibile immaginare che questo sessantenne di una pacatezza sospetta possa avermi fatto tanto male. Era spesso intorno al desiderio che i diverbi diventavano liti furibonde: le sue osservazioni sgradevoli sui miei indumenti, le parole scelte a sproposito nei momenti più delicati. Eppure eravamo divorati dalla voglia dell’altro. “Scopare”, come pretendeva che dicessi senza nessuna concessione al sentimentalismo, ci riusciva talmente bene che ad un certo punto diventava eccessivo, malsano, crudele. Il sesso doveva seguire il suo copione, o meglio un canovaccio, con indicazioni di massima, ma assolutamente inderogabili. I baci sul collo erano leziosi, soprattutto se pretendevano di seguire una traiettoria scontata fino al suo sesso, la biancheria di pizzo spiacevole al tatto, le zeppe volgari, il reggiseno in estate da bandire. Ero più vecchia di lui, ma mi sentivo una bambina, incapace d’imporre la mia volontà fuori e dentro al letto.
Fabrizio mi annuncia, ma Riccardo non sembra reagire; poi si volta e ci sorprende con un sorriso beato:
«Sapevo che l’avresti ritrovata. Ciao Carla, come stai?»
«Bene» rispondo confusa, avanzando verso la sua sedia e posandogli una mano sulla spalla. «E tu?»
«Mah, cosa vuoi, mi hanno messo in questo postaccio. Non hanno capito niente. Uno scambio di cartelle cliniche, credo. Sono tutti dei deficienti i medici.»
«Ma mi sembra che tu stia bene qui, no?»
«No, ti ho detto che non sto bene qui, Carla. Comunque ti devo parlare di una cosa.»
«Si, sono venuta per questo, Fabrizio me lo ha detto.»
«Fabrizio può restare, è un amico. Siediti Fabrizio, grazie di avermi portato Carla. Hai visto? È sempre bella. Ma non bisogna dirglielo troppo alle donne, altrimenti si montano la testa. Quella Sara che viene sempre qui: è più vecchia di te, ma ho visto come ti guarda, credo tu le piaccia.»
Fabrizio fa un gesto spazientito di chi ha rinunciato a farsi capire e si siede ai piedi del letto. Io avvicino una sedia a quella di Riccardo e mi metto di fronte a lui; fisso i suoi occhi azzurri, gli sorrido. Ha sempre avuto uno sguardo buono, ingannevole.
«Dimmi Ricky, ti ascolto.»
«Devo parlarti di Flora» annuncia con un tremolio della voce che mi mette a disagio e uno strano brillio negli occhi.
«Di Flora?»
«Si, dobbiamo risolvere questa questione. Carla, io volevo bene a Flora: non le avrei mai fatto del male. Possiamo parlarne ormai. Lo so cosa pensi. È per via della lettera della signora Jamieson, ma io non ho mai più rivisto Flora dopo quella notte e non le ho mai fatto niente. Ho un brutto carattere, litigo con la gente, perdo la pazienza, ma non sono cattivo.»
Voltandomi verso Fabrizio gli leggo in faccia un’inquietudine che finora non avevo indovinato. Adesso capisco la sua insistenza. Gli rispondo con un’occhiata in cui cerco di esprimere tutto il mio disorientamento. Ricky, perché avresti dovuto fare male a… Flora? Dov’è Flora? Come sta?
«Tu pensi che le abbia fatto qualcosa, lo so. Per colpa di quella vicina e della sua lettera delirante.»
«No… io non penso niente. Parlami della lettera.»
«Magari pensi che l’abbia fatto per vendicarmi della tua fuga, ma dovrei proprio essere malato, non credi? Anche se hai voluto lasciarmi, anche se ero infuriato, anche se hai chiesto aiuto a quella vicina mezza lesbica, non ho fatto male a Flora. Se ne era andata da sola Flora e che io sappia non è mai tornata. E quando sono andato in fondo alla strada a parlare a quella scema della Jamieson abbiamo discusso, come è normale che fosse, ma non di Flora. Carla, Flora è morta, questo lo devi accettare. È senz’altro morta, Carla.»
«Perché pensi che Flora sia morta?»
«Carla… Sii ragionevole…»
Fabrizio mi fa cenno di continuare.
«Ma senti, Ricky, quanti anni aveva Flora? Non riesco a ricordarmi.»
«Non saprei con esattezza. Meno di sette.»
«Ah, era piccola. Andava a scuola?»
«È una battuta? Che cazzo vuol dire “andava a scuola”? Tu ce l’avresti anche mandata, quella capra.»
Fabrizio mi fissa implorante: vuole una spiegazione. Mi alzo, mi avvicino al tavolo, sfioro i libri di cui è ingombro, accarezzo le copertine: In fuga. Lo apro, lo sfoglio rapida e decisa: so cosa cerco.
«L’hai letto di recente?»
«Cosa?»
«Questo, In fuga di Alice Munro.»
Non risponde: se ne sta afflosciato e muto come una marionetta a cui hanno tagliato di colpo i fili. Rivolgo la stessa domanda a Fabrizio che ci pensa un po’ prima di dire:
«È un regalo di compleanno dell’anno scorso. Ha sempre divorato libri. Ma non credo stia leggendo in questo momento, non ne sarebbe in grado. Direi che è da un bel po’ che non legge.»
Con il libro aperto, mi avvicino a Fabrizio e glielo poso sulle ginocchia. Continuo a conversare con Riccardo, che mi risponde distrattamente a monosillabi: ha perso interesse per la sua storia.
Indico a Fabrizio una pagina scritta in caratteri italici: la lettera della Signora Jamieson a Carla.
Aspetto che alzi lo sguardo, che mi mostri che ha capito: Carla non sono io e Flora è davvero una capra, una capra con tanto di corna e zoccoli.
Mi metto dietro alla sedia di Riccardo, gli poso le mani sulle spalle, mi chino su di lui e all’orecchio, in un bacio gli sussurro:
«E insomma, niente, nemmeno nei tuoi deliri senili riesco ad essere più importante dei tuoi libri, vecchio stronzo.»