Il mio Frank

Prima di tutto bisogna dire che eravamo felici e che di solito questa cosa aiuta non poco. In quegli anni gestivo un cosiddetto “Frank”. Un Frank è un modo per definire quei chioschi ambulanti e stazionari allo stesso tempo, quelle piccole roulotte posizionate negli anfratti delle statali, dove si fanno saltare alla piastra salsicce, wurstel, si friggono patatine lordate di olio, si piastrano verdure, insomma quei paninari che rimangono aperti tutta la notte, dove si ritrovano i nottambuli del fine settimana.
Come quasi tutti i Frank, anche il mio era bianco, lungo ben più di quattro metri e abbastanza largo, almeno tre metri con la tendina. Io e la mia Rosa ci davamo dentro e lavoravamo tutta la notte e da noi venivano in tanti, non solo giovani, ed era un lavoro proficuo e divertente. Io facevo i panini, le patatine, le cose da mangiare insomma, lei gestiva tutto quello che era confezionato e la cassa. Da noi venivano per festeggiare, per riempirsi lo stomaco, per piangere, per smaltire la sbronza, per fare due parole insomma, prima di andare a dormire. Veniva anche la Polizia e mai per fare controlli.
Prima di tutto va detto che eravamo felici e questa cosa conta, altro che se conta: vivevamo del nostro Frank, c’eravamo dentro fino al collo, e quel lavoro ci dava tutta la felicità e sufficienti soldi per sistemare la casa e anche per andare in vacanza ogni tanto. Quando il tempo si faceva freddo allora partivamo, in macchina, a fare dei giri per l’Europa, siamo sempre stati un po’ ambulanti io e la mia Rosa. Eravamo solo noi: noi due più Frank e dopo, ma proprio dopo, c’era tutto il resto.
Il fatto è che da che mondo è mondo però le cose belle non durano.
Come ho detto al Frank venivano un sacco di persone ma non è che tutti mi stessero simpatici, anzi, c’erano quelli che bisognava controllare perché facevano delle cavolate. A me non interessa niente di cosa fa uno basta che non mi crei danno, per cui un po’ bisognava stare all’occhio. Anche questa cosa di stare all’occhio la seguivo io perché Rosa era troppo buona e gentile, dava confidenza a tutti e poi è sempre stata un po’ così: snella di corpo e lenta di mente, arrivava spesso in ritardo sulle cose, ma quando ci arrivava erano guai.
In quel periodo le cose andavano benone, c’erano molti clienti, si vendeva, si facevano i soldi ma c’era un tipo che non mi piaceva. Non faceva nulla di male, era un brav’uomo, ma stava troppo addosso a Rosa. Passava quasi ogni fine settimana, quasi sempre da solo, beveva un paio di birre, un panino o poco più e si appiccicava al plexiglas del bancone. A me non dava fastidio, non era nemmeno il solo che guardava Rosa, considerato che lei era una bella donna e che quelli perlopiù erano ubriachi, però quel tipo aveva qualcosa che mi turbava. Lei chiacchierava molto con lui, si prendeva la pausa per fumare sigarette assieme, io lo capivo che c’era qualcosa che non quadrava, qualcosa di diverso dalle solite chiacchiere. Non c’era nessun segnale particolare ma io me la sentivo che stava per accadere qualcosa.
Una sera tardi di fine agosto, quando l’umidità riprende a scendere massiccia dopo il secco di luglio, mi ritrovo al mio Frank solo con Rosa. E lei, davvero strano, non dice niente. Quella sera c’erano due stranezze: nessun cliente e Rosa silenziosa. Allora come dire, io mi cucino un bel panino con la salsiccia e mi ci metto un bel po’ di senape, come altre volte quando non c’è gente. A Rosa chiedo cosa vuole, se il solito panino con la pancetta ma mi dice che non ha fame e a me mi girano un bel po’ perché continua un
andazzo che non mi piace. Il panino lo finisco in tre morsi che non mastico nemmeno, mentre passeggio fuori dal caravan camminando nervosamente. A dirla tutta quelle sera faceva proprio freddino e si era alzato un vento da tempesta. Io penso: se non viene nessuno tra un’ora al massimo andiamo via, dico: che ne pensi Rosa? Lei mi fa un cenno con il mento e dice: per me anche adesso. Come per me anche adesso? Di un po’, la aggredisco, ma non ti sarai mica rimbambita? Ma no! Fa lei e intanto inizia a pulire il bancone, sono stanca Amedeo, tutto qua. Qualche volta avrei voglia di stare a casa, di guardare un film assieme. Tu no? Mi dice.
Allora capisco che Rosa è arrivata da qualche parte, sta cercando di dirmi qualcosa e da quello che la conosco questo non è altro che l’inizio. Il vento fa sbattere la tendina, di gente non se parla ed è meglio così d’altronde, io mi apro una lattina di birra e faccio un rutto indisponente. Beh io no! Dico sputando, ma ti si è cancellata la memoria a breve termine? Dobbiamo fare almeno altri 5 anni a pieno ritmo per pagare il camper, non possiamo stare a casa a guardare la tv.
Lei dice: hai presente quel tizio che viene spesso e mi sbava? No, dico io, ma che mi stai per dire? Dico io, ma non mi vorrai dire…?
Ma no, fa lei, non hai capito niente. Non è il mio tipo però è interessante. Interessante? Chiedo io. Si è interessante, dice lei: comunque quel tipo ha un figlio. E’ separato e non lo vede quasi mai. Hai capito?
Non sempre io riesco ad arrivare dove arriva Rosa, ma quella volta davvero ero distante anni luce, non capivo cosa poteva esservi di interessante in un tipo che non è il tuo tipo che è pure separato e ha un figlio che non vede.
Noi abbiamo il nostro progetto, le dico aprendo un’altra lattina di birra, cosa ci serve di più? E alla U di “più” mi do la risposta da solo, che mi arriva di li a qualche secondo: voglio un figlio Amedeo! Io voglio un figlio e una famiglia, e il nostro progetto non va più bene. Ma come? Arranco io, perché non va più bene? Cosa c’entra, un figlio lo faremo siamo giovani, c’è tempo e poi anche se abbiamo Frank che problemi ci sono? Ma tu come la vedi di portare tuo figlio a scuola dopo essere andati a letto alle cinque del mattino? E fin che siamo tutti e due qui fino alle cinque del mattino, dove lo metti a dormire il bambino? Assieme alle salsicce?
E io rimango fermo mentre inizia a gocciolare, anche la birra mi sa di schifo. Lei dice: andiamo è tardi, non viene nessuno e piove. E io dico: andiamo si, ormai non è più tempo.
Nei giorni a seguire io non ho più affrontato il discorso, come quando si combina una cavolata e la cosa migliore è lasciare passare il tempo, che poi la vita ci pensa lei a darti da fare e da pensare. E tra noi le cose andavano ancora benone, il lavoro riprese e anche Rosa rideva e lavorava con voglia, sembrava non fosse successo nulla se non per il fatto che invece era successo, la discussione non era stata una fantasia, un brutto sogno che poi ti svegli ed è finita li. Da qualche parte c’era un grosso temporale che stava per arrivare e se ne odorava la presenza nei momenti vuoti tra una attività e l’altra e nei silenzi che calavano sempre più frequenti.
Allora una notte, dopo aver chiuso il Frank, a casa, dico a Rosa: e se mi trovo un aiutante? Tu potresti stare a casa per un po’, mi dai una mano solo con i conti. E allora succede, arriva il fulmine. Tu non vuoi capire mi dice, trattenendo a stento il pianto. E inizia a piovere forte tra di noi. Poi lei continua: sei un egoista, vuoi fare per sempre la
vita dell’adolescente, fai un lavoro che non ha futuro, solo per stare fuori fino a tardi. Non ci pensi a me? Io ci penso a te, le dico, per questo penso che magari mi trovo un aiutante. Un aiutante? E così il figlio mi rimane sul groppone? E tu nel frattempo che fai? Torni al mattino e vai a dormire? E finchè mi riempie di ingiurie le scendono le lacrime. Adesso grandina di brutto. Sono tra Frank e Rosa, cerco di capire velocemente cosa fare e cosa dire, ma lei ha già deciso: tieniti Frank, trovati un aiutante, io me ne vado. Tuona da far paura. Dai, cerco di sdrammatizzare, mi avvicino e le appoggio una mano sulla spalla e cerco di stringere un po’ con le dita, non dire scemenze, le sussurro. Io non sto dicendo scemenze, ribadisce lei con un tono rancoroso e prende una borsa e se ne va. Ma una separazione così avviene solo nei film o in alcuni romanzi o nelle coppie più audaci e noi non eravamo in nessuna di queste situazioni.
A conti fatti avremmo dovuto avere più coraggio e tagliare il legame ormai infettato, avremmo dovuto avere più coraggio perché eravamo felici e da tempo non lo siamo più. Abbiamo fatto più soldi di quelli che ci servono, tra noi è stato stipulato il contratto per la vita: vendiamo Frank e prendiamo una pizzeria e facciamo due figli, che sono belli e sani ma non è più stata la stessa cosa, un po’ come la differenza tra il lavoro in proprio e quello sicuro, è mancato il rischio e se n’è andata la passione.
Ad ogni modo c’è di peggio. Spengo le luci della sala, chiudo tutto e torno a casa. Non è tardi, non ho sonno, al piazzale, prima del centro, c’è una roulotte bianca con una tendina amaranto, fanno dei panini da schifo ma ci si può trovare qualcuno che non ha ancora sonno e, anche se non abbiamo troppe cose da dirci, ci si può fare compagnia lo stesso.