Pali

Lo vidi per la prima volta dalla finestra. C’era un palo nel vialetto, alto e lucente sotto il sole del mattino. Era comparso durante la notte. Le api del nostro distretto di ricerca erano già state fatte uscire. Gli sciami ruotavano tutto intorno alla casa e le api tintinnavano sulle finestre, tambureggiavano all’interno dei rivestimenti laterali e ribollivano nelle grondaie. Mia moglie Sandi stava dormendo in camera sua e lo stesso stavano facendo Syd e Jacob, il fratello di Sandi, che molto probabilmente era mezzo nudo sul divano giù da basso. Lui si occupava di potare gli alberi dove si erano formati gli alveari e aveva visto qualcuno cadere e morire al lavoro, quindi aveva mollato tutto per venire qui e passare del tempo con la sorella.
Non ero sicuro di quanto a lungo effettivamente si sarebbe fermato, anche se Sandi mi disse che pensava che sarebbe ripartito presto, subito dopo quella settimana di vacanza. Non mi sembrò il caso di farle altre domande. Non era felice con me. Non potevo certo negarlo. Anche le cose più semplici, come preparare la cena assieme, mi facevano arrabbiare. Una volta le avevo lanciato una lampada in testa. Un’altra volta, lei aveva dato un calcio ad una costosa vetrinetta appartenuta a mio padre. Urlammo. Le dissi di tutto, le cose più tremende. Si comportava come una stupida bambinetta. Parlava male di me con Maiha, la sua amica del cuore. Dormivamo in camere diverse. Volevo pensare che, in fondo, fosse amore.
Al piano di sotto, Jacob guardava vecchie repliche sportive. Continuavo a non capire perché fosse venuto qui solo per starsene per conto suo. Era grosso, ma agile. Aveva un modo molto strano di fissarti. Il modo in cui le sue labbra si muovevano quando parlava mi rendeva molto difficile essere sereno ad averlo qui con Syd. Me lo immaginavo là fuori, nella foresta di alveari. Lo vedevo fremere mentre calava la lama sulla base del ramo morente. Lo fissava vorticare verso il suolo, leccandosi le labbra già umide mentre si aggiustava l’imbragatura sull’inguine.

Quindi ora quel palo era lì. Uscii per controllare, con addosso la mia tuta da apicoltore. In cima aveva un cono, attaccato di traverso. Uno stame usciva dal cono, proprio come quello di un fiore. Le api si muovevano per strada come nuvole scure. Colpii la base del palo con il tacco dello stivale, risuonò cavo. Le api mi fecero cadere il visore. Seguii la linea del cordolo del marciapiede, agitando le braccia in aria per farmi largo. Un palo si stagliava in ogni vialetto. Tornai a casa. Rimasi fermo in mezzo al ronzio, molto confuso. L’orecchio sfregiato mi faceva male al contatto con la bandella del visore. Mi tolsi un guanto e strinsi forte il palo. Il metallo era caldo e si sentivano delle vibrazioni provenire dal profondo. Mandai via con gentilezza delle api che si erano appoggiate sui miei polsi. Syd una volta mi disse che le api le abbaiavano. Si riferiva al suono che facevano. Syd amava gli animali, ma la cosa ci innervosiva. Amava, sì, ma con violenza. Si comportava proprio così con Juan, il cane. La rimproverammo. Cercai di spiegarle che i cani si lascerebbero fare qualsiasi cosa dal padrone. Vedevo quanto Juan fosse spinto al proprio limite senza possibilità di ribattere. Mi sarebbe piaciuto accarezzarlo, ma non gli piacevo. Agli altri mostrava dolci occhi marroni. Syd continuava a giocare in maniera brusca con lui, colpendolo o incollandogli la coda con del nastro adesivo. Sandi diceva che l’energia eccessiva di Syd era tipica degli artisti. Mio nonno fu il genio che brevettò il nastro adesivo per alveari a lunga durata. Syd aveva una fronte alta e bellissima. Shakespeare, pensai.

Il mio vicino Staples uscì con addosso la tuta.
«Dormito bene?» chiese.
«Bene, dai» risposi. «Perché?»
«Perché io ho dormito come un cazzo di ghiro!» disse Staples. «E sai perché? Niente martelli pneumatici qua fuori. Niente operai.»
«Ripetitori o qualcosa del genere?» chiesi.
«Macché.»
«Regolatori di umidità?» dissi. «In fondo è stata un’estate molto umida.»
«Mai visto nulla di simile.»
«Nemmeno io.»
«Roba top secret.»
«Top secret.»
«La vita nella zona di ricerca, no?»
«Chi lo sa, eh?» dissi io.

Più ci pensavo, peggio stavo. Anche se né la casa né la proprietà erano nostre di per sé, era comunque dove vivevamo. Chiamai quelli delle opere pubbliche ma mi misero in attesa. Violini striduli. Forse i pali avrebbero permesso una migliore amplificazione delle vibrazioni emesse dalle nostre colonie, per la conversione energetica. Forse avrebbero migliorato la salute delle api – quelle operaie vivono solo per trentacinque giorni circa, ma stavamo lavorando per aumentarli. Forse i pali avrebbero modificato l’atmosfera – per l’umidità le api se ne restano a tremare nei loro alveari, anche quando soffiamo il profumo del nettare artificiale nelle cavità dove si annidavano. C’erano pali anche in altre zone? Le cose che si fanno per un affitto basso sono davvero assurde.
L’operatrice tornò in linea e parlò di “diodi risonanti di zona”, nulla per cui avrei dovuto pagare. Diodi risonanti? Mi ricordò che vivevo in una comunità di ricerca. Ribattei dicendo che la parola “comunità” non dovrebbe implicare cooperazione? Riagganciò. «Cazzo!» urlai al telefono. Ero sdraiato sul tappeto. Sperai che Syd non mi avesse sentito, ma Sandi sì. Mi toccai l’orecchio ferito proprio dove mi faceva male. Respirai attraverso le fibre pruriginose del tappeto. Mi colse la nostalgia. Mi ricordai dei piedini di Syd, nudi sul pavimento. Quando il corpo di Sandi era più giovane, le sue dita dei piedi erano più scure e con una muscolatura definita. Le aprivo le gambe tenendole i piedi quando mi spostavo sopra di lei che mi aspettava, nell’oscurità. Era stata una ballerina. Passavamo dei momenti incredibili assieme. Le alzavo il visore per baciarla alla sagra del miele, mentre la ruota panoramica saliva sempre più in alto. La guidavo attraverso il parco in primavera, tenendole la mano. Mi mettevo dietro di lei per respirarle nei capelli. Una volta Jacob ci vide nudi, ma era troppo giovane per capire. Se l’aveste vista senza vestiti, non avreste creduto ai vostri occhi, tutta pelle e luce. Per me era difficile pensare ai suoi ragazzi precedenti e ai loro petti villosi che scivolavano su di lei. Forse era per rimediare alla persona che ero stata e alla coppia che eravamo che ora mi stavo facendo da parte. Ma era da tanto che non la sentivo vicina. La notte la ascoltavo parlare al telefono con Maiha in camera sua, però non sono mai riuscito a capire, dato che potevo sentire solo quello che diceva lei.

«Papà?» disse Syd. Si lasciò cadere pesantemente sulla mia schiena. La spinsi via.
«Così mi fai proprio male, tesoro» dissi.
«Tu hai una fobia?»
«Una fobia?»
«Le persone hanno la fobia dei polli, di uscire e dell’acqua, e delle stanze, e dei numeri. La tua sono le persone che si siedono su di te?»
«L’hai letto da qualche parte?»
«Hai un sedere proprio grosso» mi disse vicino all’orecchio. La spostai con gentilezza. Feci finta di soffocarla con la mia manica. Urlò. Le feci il solletico. Urlava e rideva.
«La mamma sta ancora dormendo?» domandai. Cercò di tirarmi un pugno in faccia ma lo schivai.
«Lottiamo!»
«Non farò la lotta con te.»
«Perché no?»
«Sono stanco.»
«No che non lo sei!»
«Ho una fobia.»
«No che non ce l’hai!»

Gli altri dipendenti si scambiavano ipotesi sul treno del distretto di ricerca diretto ai campi municipali dove lavoro come Istruttore di 3° Livello/Capo Raccoglitore e le grandi colonie ronzano tra i telai delle loro comunità. Un tizio disse che un suo amico che viveva in una zona non regolata gli aveva detto che lì, di pali, non ce n’erano. Un’altra donna disse che, dove era nata lei, una città in pianura nel mezzo del paese, pali del genere erano sirene che avvertivano i residenti delle tempeste in arrivo. «Ma perché non ci hanno avvisato?» disse il suo compagno di viaggio. «Da noi non capitano tempeste di quel genere. Perché così tanti pali?» Che cosa avremmo potuto fare? Nessuno sapeva a chi chiedere.
Oggi la raccolta delle uova dalle cavità del terreno è stata particolarmente fruttuosa. Alcuni dicono che forse è per via dei pali. C’era così tanto da raccogliere che la mia schiena si era tutta indolenzita per il continuo chinarsi. Il coccige mi faceva malissimo mentre sedevo sul treno per tornare a casa. Mi immaginavo la spina dorsale tutta storta, e la carne tutt’attorno. Riuscivo a vedere le mie vertebre guaste. Non potevamo permetterci un intervento chirurgico, ma io stavo invecchiando e, certe volte, la schiena mi saltava o si spostava facendomi molto male e non tornava a posto se non dopo molte ore. Mio padre si era rimpicciolito sempre di più prima di morire. Mi ricordo di come la sua testa diventava sempre più piccola. Lo vidi nella bara. Non era più lui. Erano solo strati di pelle e tessuto. Stringevo la mano di mia madre mentre lo osservavamo. Le candele rilasciavano un dolce profumo di foresta e di alveare. Ogni tanto ci ripenso.

«La situazione sta diventando sempre più strana» dissi a mia madre al telefono.
«Aspetta solo un attimo tesoro» disse. Si sentiva un dottore che le stava parlando con severità.
«È un brutto momento?» dissi.
«Cosa stavi dicendo?»
«Ci sono pali ovunque. Dovresti vederli!»
«So già tutto delle armi a rumore» rispose.
«Che stai dicendo? Armi a rumore?»
«È ciò che hanno previsto per noi» disse.
«Va bene.»
«Vorrei poter essere d’aiuto.»
«Lo so.»
«Mi dispiace, tesoro.»
«Lo so.»
«Dicono che devo andare adesso.»
«Ciao mamma.»

A letto, sentii qualcuno giù dalle scale che apriva delle porte. Il pavimento scricchiolò forte. Scesi molto lentamente. Le mani mi tremavano. C’era una figura grande, in piedi, illuminata dalla luce del frigorifero, un uomo, immobile. Doveva essere Jacob. «Jacob?» domandai.
«Salve, signor McGraw» disse Jacob. «Mi era venuta un po’ di fame.»
«Hai trovato qualcosa?»
«Sì. Mi scusi.»
«Cos’era tutto quel casino?»
«Mi stavo giusto preparando un panino.»
«A quest’ora?»
«In realtà volevo solo un bicchier d’acqua. Posso? Mi dispiace averla svegliata.»
«Va bene» dissi. Tornai a letto. Sentii i passi pesanti di Jacob mentre scendeva nella sua stanza. Non mi piaceva l’idea che si aggirasse per casa di notte.

Qualche giorno dopo, finito il lavoro, i pali cominciarono ad emettere un ronzio perforante. Lo sentivo dalla mia stanza. Gli sciami da ricerca erano tornati nei cunicoli quindi non potevano essere loro. Juan guaiva per tutto il salotto. Mi aveva fatto agitare. «Va tutto bene, bello» dissi, e cercai di accarezzarlo, ma lui schivò la mano e si lanciò verso il corridoio, abbaiando a più non posso e sbattendo contro i muri. Armi a rumore. Le armi a rumore! Le mani mi ripresero a tremare. Uscii fuori in giardino e Sandi mi raggiunse. I capelli le si afflosciavano tutt’intorno nella luce. Le toccai una spalla ma lei mi scrollò via. «Cosa sta succedendo?» disse. «Non lo so.» Il rumore era più forte in quel momento. Dalla finestra, potevo vedere l’interno della casa, dove Jacob reggeva Syd per farle guardare fuori dalla finestra. Anche gli altri vicini erano usciti. Tutti parlavano, camminavano intorno veloci coprendosi le orecchie con le mani. Poi si fermò. Il vento soffiava in mezzo alla strada gli aghi di pino che si erano accumulati sui tetti delle arnie. Tutti restarono in attesa. Il sudore mi stava raffreddando il petto sotto la maglietta. Tornammo infine dentro casa dove Juan stava dormendo sul tappeto.

«Maiha ha detto che è qualcosa per migliorare la ricezione delle apparecchiature» disse Sandi a cena la sera successiva. «Quello di ieri è stato un test.»
«Ma cosa ne sa lei? Che cosa vuol dire “apparecchiature” poi?»
«Non saprei.»
«Mi avevano detto qualcosa di completamente diverso quando ho chiamato.»
«In ogni caso, nulla di cui preoccuparsi.»
«Mia mamma pensa che sia qualcosa di grosso. Armi o qualcosa del genere.»
«Lei, però, è una pazza.»
«Fottiti» dissi prima di riuscire a trattenermi. «Scusa Syd.»
«Scusa Sandi» disse Sandi.
«Scusa Sandi.»
«Di cosa state parlando?» chiese Syd.
«Di niente, tesoro» risposi.
«Posso andare?» chiese Syd. Sandi annuì.
«Ma perché non ce l’hanno chiesto?» dissi.
«Non hanno bisogno di alcun permesso.»
«E non ti fa paura?»
«Direi di sì.»
Sandi chiamò Maiha mentre io lavavo i piatti. Jacob aveva detto di non sentirsi bene, quindi Sandi gli aveva portato da mangiare giù di sotto. Dalla televisione che stava guardando potevo sentire il suono di un pubblico che urlava e incitava. «Cos’ha Jacob?» chiesi a Sandi quando ebbe finito di parlare al telefono.
«Un po’ di nausea.»
«Scommetto che non sta davvero male.»
«Ha visto cose terribili ultimamente, ed è sensibile. Sii più gentile.»
«Dov’è Syd?» chiesi. Lei scrollò le spalle. «Porca miseria» dissi.
Trovai Syd. Stava guardando una partita di baseball giù da basso, sul divano con Jacob. Juan era addormentato sul grembo di Jacob, sopra una copertina. Era strano vedere Juan comportarsi così con Jacob. Syd indossava degli shorts ed era seduta vicino a dove Jacob era sdraiato con Juan. Stava masticando una gomma. Quando Jacob mi vide, sembrò spostarsi lontano da lei con aria colpevole.
«Syd, sali su un attimo per aiutarmi con i piatti» dissi.
«Non adesso.»
«Va tutto bene?» chiese Jacob. Le sue labbra umide tremarono.
«Tutto semplicemente perfetto. Ma ho bisogno di lei per sistemare.»
«Forse dovresti dar retta a tuo padre» disse Jacob.
«No» rispose Syd, continuando a guardare lo schermo.
«Syd.»
«Papà.» Scoppiò la sua gomma. Juan iniziò a ringhiarmi contro, sommessamente. Tutti volevano che me ne andassi. Mentre salivo le scale, Syd e Jacob risero sguaiatamente all’unisono. Sbattei forte la porta.
«Come prego!?» gridò Sandi dalla cucina, ma io avevo già indossato la mia tuta ed ero uscito fuori a raccogliere gli aghi di pino.

Al lavoro, dovevo addestrare tre nuove reclute. Mostrai loro il video olografico. Aveva colori brillanti, musiche coinvolgenti e primissimi piani di api al rallentatore che atterravano sui fiori facendo alzare nuvole di polline che si accumulavano sulle loro pelose zampette nere. La voce fuoricampo raccontava di come avessimo scoperto il modo di sfruttare le vibrazioni delle api per ricavarne energia estremamente conveniente e d’un tratto ci fossimo ritrovati in sovrabbondanza di miele di ottima qualità, di come questo fosse diventato il nostro orgoglio, la nostra identità nazionale. L’ologramma proseguiva spiegando come utilizzare la macchina del profumo artificiale, come preparare i fiori a mano, come ridurre la quantità d’acqua contenuta nel miele grezzo in modo da migliorarne la purezza, come eseguire la manutenzione dell’amplificatore e così via.
Questi dipendenti erano ragazzini in erba. Dietro lo specchio semiriflettente io mi tastavo l’orecchio malandato, mentre gli apprendisti facevano un tour virtuale dei giardini-boutique monocoltura del padiglione est. Si davano pacche sulle spalle e ridevano. Sembrava fosse uno spasso. Mi faceva male l’orecchio. Mi faceva sempre male quando avevo caldo.
Era stata mia madre, quando viveva con noi. Mi tagliò l’orecchio con un paio di forbici mentre dormivo. Mi ricordo che stavo sognando mio padre che mi lavava il corpo e, quando mi svegliai, sentii il ticchettio delle gocce del mio sangue che inzuppavano le coperte. Mia madre era seduta di fianco a me, con un’espressione spaventata. Fui io a chiamare la polizia. Al telefono dal centro di salute mentale, mi spiegò che aveva usato la sua pensione per comprare fialette di droga da sniffare nel nostro bagno, mentre Syd era in casa e tutto il resto. Mi chiese scusa. Le dissi che mi mancava.

Finalmente arrivò la nostra settimana di vacanza. Quando rientrai a casa dal lavoro, tutte le luci erano spente. Le accesi e vidi un foglietto con scritto: “andata a trovare Maiha”. Sentivo la televisione al piano di sotto. Sentivo Syd ridere. Scesi le scale. In onda c’era un gioco a premi. Jacob cantava mentre faceva rimbalzare Syd sul suo ginocchio come un cavallino e lei rideva e rideva. Quando Syd mi vide, si spaventò un po’. Scese con una capriola e fece finta di crollare lentamente a terra. «Ho sbattuto e sono morta» gemette. «Mi hai ucciso.» Jacob tolse il volume e si alzò in piedi.
«Syd, andresti su di sopra?» dissi.
«Papà?»
«Ora!» Scattò in piedi e corse su per le scale. Jacob si sedette e incrociò le gambe. Mi guardava con aria tranquilla.
«Va tutto bene?» disse.
«Quanto ancora ti fermerai?» chiesi.
«Sua figlia è venuta qui per giocare» disse. «Non sono un pervertito o chissà che.»
«Non è quello che ti ho chiesto.»
«A dirla tutta, dipende da cosa mia sorella pensa che io debba fare.»
«Lo dico da parte di tutti e due, ma è meglio che tu te ne vada prima della fine delle vacanze. Non è che stiamo mandando avanti un cazzo di albergo qui.»
«Vedremo cosa dirà Sandi.»
«Non mi sfidare. Mi stai sfidando?» dissi.
Restò seduto dov’era con un sorrisetto arrogante in faccia.
«Hai capito quello che ho detto?» chiesi.
«Sì, ho capito.»
«Ottimo.»
Il petto gli si gonfiò sotto la maglietta bianca. Avrebbe potuto farmi del male se avesse voluto. Ma questa era casa mia. Salii le scale. Fuori dalla finestra, vidi Syd e Juan nel prato che giocavano con uno dei miei stivali.
Più tardi, chiamò mia mamma. «Ci sono città aliene sottoterra» disse. «Hanno pure delle prigioni. Le armi a rumore sono solo l’inizio. Ci vogliono usare come schiavi. Mi dispiace, tesoro.»
«Va bene.»
«Non avrai scelta.»
«Mi spaventi quando parli così.»
«Mi dispiace, tesoro.»
«Lo so.»
«Ti voglio bene davvero. Mi dispiace che le cose debbano andare così.»
«Ti voglio bene anch’io.»

Quella notte ero sdraiato a letto. Sentivo Sandi che bofonchiava al telefono con Maiha, giù in sala. Continuavo a pensare ai pali, a quello che aveva detto mia mamma. Era pazza. Lo sapevo bene. Ma non mi piaceva l’idea di non sapere niente. Non mi piaceva il fatto che tutti sembrassero non essere minimamente interessati alla questione. Quindi scesi in garage e accesi le luci. Trovai un seghetto e una torcia. Uscii. Misi i denti del seghetto sul palo, ad altezza della spalla. Le vibrazioni scuotevano la lama ma continuai a segare e segare. Illuminai il palo con la torcia. Ancora liscio come uno specchio. Continuai a segare finché tutti i dentini della lama non si ruppero, poi mi sedetti nell’erba vicino al vialetto, con le mani sulla schiena e il respiro affannoso. In casa si accese una luce. Sandi mi stava guardando dalla finestra della cucina mentre era ancora al telefono. La salutai con la mano. Lei scosse la testa. Mi fece segno che voleva che rientrassi. Mimai un “no” con la bocca. Lei uscì sul porticato con le braccia incrociate, bella e sottile sotto la luce della cucina. Alla fine, rientrai.

Jacob se ne andò il giorno successivo. Il suo piumone era piegato con cura in cima al divano mentre i cuscini e le lenzuola erano già a lavare in lavatrice. Sandi sapeva che era per causa mia. Non volle ascoltare le mie ragioni. Syd si mise la tuta e corse fuori, schivando i miei abbracci. Anche lei era arrabbiata. Sentii Sandi parlare al telefono con Maiha, con rabbia, tutta la sera, chiusa nella sua stanza. La mattina seguente, Sandi preparò una valigia. Lei e Syd avrebbero preso il treno per andare a stare a casa del padre di Sandi. Sandi non mi disse quando sarebbero tornate. Syd mi abbracciò velocemente una gamba, con un’espressione imbronciata, e partirono.
Non ce la facevo ad andare al lavoro. Staples non era il tipo da invitarmi da lui per cena. Ero troppo vecchio per cose del genere. Trovai delle lucine con cui decorare la finestra. Cucinai un pasticcio di carne e lo mangiai direttamente dalla pentola guardando di fuori attraverso il balenio delle lucine. Faceva sì che i colori si spalmassero sui bordi del vetro. Guardai il palo che si trovava proprio di fronte alla luna e proiettava un’ombra dritta sul prato.

«Non mi sentivo al sicuro con Jacob» dissi a Sandi al telefono.
«Lui non si sentiva al sicuro con te» rispose lei.
«Già, perché sono così pericoloso.»
«Nemmeno io mi sento al sicuro con te.»
«Vabbè.»
«Visto che vogliamo proprio essere onesti.»
«Come se tu sia sempre stata un modello di coerenza.»
«Aspetta un attimo» disse Sandi.
«Ciao papà!» esclamò Syd.
«Ciao Syd» dissi. «Ti voglio bene.»
«Perché non vieni anche tu qui?» domandò. «C’è anche Jacob.»
«Ci vediamo presto» risposi.

Il palo era ancora là fuori quella sera. Lo fissai. La rabbia mi stava montando dentro. Raccolsi un po’ di attrezzi dal garage dentro un sacchetto della spazzatura. Fuori, mi inginocchiai nel prato vicino al palo e iniziai a colpirlo. Ruppi l’estremità biforcuta di un martello. Scheggiai il manico in quercia di un’accetta. Piegai la barra di una chiave inglese. Lo picchiai con una sbarra di ferro fino a che la mano non riuscì più a reggerla e allora la presi con l’altra mano. Staples apparve sulla soglia di casa sua. «Ma che cazzo» disse. Io andai avanti. «Buonasera?» disse.
«Buonasera» risposi ansimando. «Ciao, Staples.» Lasciai cadere l’attrezzo e mi appoggiai sulla superficie intonsa del palo, con le mani tremanti e doloranti. «Sto lavorando.»
«Beh, non farlo. Non è una tua proprietà» disse.
«È sulla mia proprietà» risposi. «Quindi è una mia proprietà, in un certo senso.»
«Non sai che cos’è» disse. Entrò nel mio prato. «Cosa stai facendo?»
«Ma vaffanculo.»
«Qual è il tuo problema?»
«Vattene» dissi.
«Sei fuori di testa, mio caro.»
«Non preoccuparti.»
«Chiamo la polizia se non la smetti. Non scherzo mica.»
«Fai pure» dissi.
«Dacci dentro allora.»
«Sarà fatto, stronzo.»
Rientrò, ma lo vidi accendere una luce alla finestra. Altri vicini si erano affacciati alle loro finestre per godersi lo spettacolo. Riposai la mia spina dorsale debilitata contro il palo. Persino i denti mi facevano male. Aveva per caso messo radici sotto terra? L’intricato insieme dei cavi elettrici stava scavando nel terreno alla ricerca di più elettricità. Mi domandai se il palo mi stesse per caso filmando. Però chi mai vorrebbe un inutile filmino di tutti noi?
Qualcosa tirò su con il naso vicino a me, nel buio. Juan! Si erano dimenticate di Juan. «Juan» dissi. Lui serrò i denti e indietreggiò, agitando la coda. «Vieni dentro cucciolo. Hai fame?» Era accucciato a terra. «Dai che ti do qualcosa da mangiare» dissi. «Che ne dici, bello?» Si alzò con circospezione ma scodinzolava. Mi seguì mantenendo le distanze. Dentro, riempii le sue ciotole di cibo e acqua. Cercai di accarezzarlo mentre mangiava ma schivò il mio tocco. Lasciai aperta la porta della cucina. Non importava. Non avrebbero dovuto lasciarlo qui.

Ero seduto sul divano giù da basso, con le luci soffuse, stavo guardando un cartone animato su di un aspirapolvere che faceva amicizia con un frullatore e insieme andavano ad esplorare la cucina. Il telefono squillò. Era Maiha. «È già andata via» le dissi. «Tante grazie per avermelo chiesto.» In seguito il telefono squillò di nuovo. C’era un’infermiera all’altro capo. Mia madre aveva di nuovo morso qualcuno sul collo e l’avevano rinchiusa da sola in una stanza dell’ala più sicura della clinica. Chiesi al dottore cosa intendesse con “sicura” e per chi fosse più sicura quell’ala e lui rispose che lo era per mia madre.

Aprii il divano e mi sdraiai, prestando molta attenzione alla mia schiena delicata.

Feci un sogno che sembrava reale tanto quanto tutto il resto. Syd aveva legato Juan alla base del nostro palo e io le dicevo di slegarlo perché così era triste. Lei lo liberava ma Juan scappava in strada. Syd si metteva a piangere sulla mia gamba fino ad inzupparmi tutti i pantaloni.
«Sarai gentile con Juan se riusciremo a ritrovarlo?» le chiedevo. Lei annuiva, guardandomi dal fianco. «Bisogna essere più gentili con Juan» dicevo. «Altrimenti lui scappa via.» Camminavamo per strada, in mezzo a nuvole di api. Io gridavo «Juan!»
Syd alzava i coperchi dei bidoni dov’erano raccolti gli aghi di pino e gridava «Juan!» dentro ognuno. Attraversavamo un parco dove dei bambini stavano attorno ad un tavolo circondato da palloncini e, nel centro, c’era una torta illuminata da candeline. Un ragazzino si era sistemato per spegnere le candeline. Sua madre, con una scopa, scacciava le api via dalla glassa. «Oh!» diceva Syd. «C’è una festa.» Ci avvicinavamo tenendoci per mano. Le api ci solleticavano sul collo e sui capelli perché avevamo lasciato indietro le nostre tute. Il ragazzino sollevò il suo sguardo dalla torta. Mi accorsi che quel ragazzino ero io.
Mi svegliai piangendo. Era presto. Gli sciami avevano già iniziato a rimbalzare sulle coperture laterali e a ronzare giù per le grondaie. Di sopra, le api si stavano arrampicando sui mobili della cucina e dentro al frigorifero. La porta della cucina era aperta. Non mi importava. Dalla porta, vedevo il palo illuminato dalla luce del mattino. Mi toccai gli angoli dell’orecchio malconcio. Ero da solo. Mia madre era da sola da qualche parte, in una stanza silenziosa. Forse avevo anche io quello che aveva lei. Forse mi avrebbe devastato dentro. Forse lo aveva già fatto. Forse avevo bisogno di una qualche medicina. Forse le cose potevano andare diversamente per Syd.

Mi sdraiai sul divano giù da basso, senza muovermi.

Le api rimbalzavano sui muri della casa. Ronzavano fuori. Ronzavano al piano di sopra. Si fermavano la notte. Iniziavano la mattina.

Traduzione di Francesco Piccoli.