Acquavite

Sono le finali dei Mondiali di Sauna, e ci sono 130 gradi centigradi.

Sono rimaste quattro persone: io, mio fratello, un bielorusso pelato sulla quarantina, e un ucraino biondo e palestrato che non smette di muoversi, si sposta avanti e indietro come se fosse in bilico su un cornicione. Ogni trenta secondi, l’acqua cade sulle pietre fumanti nell’angolo inviando un’onda dolorosa nella nostra direzione.

Chiudo di nuovo gli occhi. Sto galleggiando nella fresca acqua estiva del Golfo, il sale scricchiola nelle mie orecchie. Le punte delle mie orecchie ribollono. Respiro coltellate attraverso le mie labbra schiuse. Una voce galleggia nell’acqua e mi entra nelle orecchie come il sussurro di un’amante: conta fino a dieci. Conta fino a dieci.

Yksi, kaksi, kolme, neljä…

Apro gli occhi, alzo il pollice per mostrarlo all’uomo all’esterno. Mio fratello fa lo stesso. Il bielorusso solleva un braccio brasato e mostra il suo pollice. L’ucraino si strofina la faccia.

«Peukalo!»

L’ucraino fa un balzo e attraversando la porta finestra entra nell’aria fredda di fuori. La porta sbatte, e per un secondo la guardo come se il paradiso mi avesse sorvolato. Mi convinco che le sopracciglia e le guance non mi stiano bruciando, fingo che il caldo sia freddo, lo sfrigolio della sauna un’altra conta fino a dieci.

Conto.

…kahdeksan, yhdeksän, kymmenen.

Conta di nuovo, sento dire.

La mano di mio fratello è stretta in un pugno vicino alla mia, visto che è proibito toccarci. Siamo Ville e Janne Kurvinen, ma la città di Kotka ci conosce come la Grande Ciliegia e la Ciliegia Nera. Grande perché Ville è più alto, Nera per il modo in cui i miei capelli neri stanno in piedi come fil di ferro invece delle onde bionde di Ville, Ciliegia perché… beh, guardaci. Siamo entrambi bassi, tondi, e stracotti. Due ciliegie in un cocktail, unite dallo stelo.

Questo è il nostro quarto anno ai Mondiali di Sauna. Tre vittorie per Ville, tre secondi posti per me. La gente mi chiede perché continui a farlo, perché continui a insistere se non posso batterlo.

Non c’è una risposta breve, nessuna parola a intrappolare il vapore come il coperchio di un bollitore. Ecco come posso spiegarlo meglio: è l’unica cosa che non ci è mai sembrata una competizione. Perfino quando eravamo piccoli, seduti insieme nella sauna dei nostri genitori, sembrava più che altro che fossimo contro qualcosa di grande e terribile, che stessimo guadando nell’inferno sempre più profondo, per mano, fino a quando uno di noi si sarebbe girato.

Per il resto, la vita era competizione. Di solito vinceva Ville, si trattasse di camminare a tentoni sul lago ghiacciato da piccoli, o spararsi shot di vodka e Tabasco da grandi. Ville esalava i fumi del chili mentre farfugliava «Joko teet tai itket ja teet». O lo fai, o lo fai piangendo.

Una sera me ne andai prima dal bar perché l’indomani avevo esami da dare. Mi disse di tutto e di più mentre uscivo e, quando lo vidi il giorno successivo, mi aspettavo la stessa reazione.

Ma con lui c’era una donna sottobraccio: una donna alta, con i capelli castani. Il suo accento russo era come miele caldo. «Janne, lei è Jana», disse Ville.

Se fossi rimasto al bar altri dieci minuti, quella notte, forse le cose sarebbero andate in maniera diversa. Un’altra gara. La mia sconfitta fu il suo premio.

Si sposarono un mese dopo la prima vittoria di Ville. Li osservai, lei evanescente e aggraziata, lui rosso e gonfio, nel suo abito bianco. Quando si avvicinarono per accendere assieme la candela dell’unità, due fiamme che si uniscono per diventarne una unica, pensai: “Lei solo crede di sapere cosa significhi”.

Fui felice per loro, anche se il mio cuore andava a fuoco.

Sentiamo gridare “Peukalo!” ancora una volta.

Io e mio fratello diamo l’ok. Il bielorusso non si muove. Posso vedere la zona infiammata sul suo labbro superiore, nel punto in cui respira a fatica dal naso, mentre l’aria bollente riempie di bolle e vescichette il suo prolabio.

Senza dire nulla, si alza in piedi e si lancia a fatica verso l’aria aperta.

Stringo il pugno con ancora più forza. Conto di nuovo fino a dieci.

Un nuovo getto d’acqua colpisce le rocce e il Golfo di Finlandia si tinge di rosso.

Io e Ville siamo entrambi all’Inferno, sotto il lago di fuoco, stiamo nuotando sempre di più verso il basso, mentre l’acqua bollente ci riempie i polmoni. Mio fratello sta nuotando di fronte a me, stringendomi la mano, tirandomi avanti. Non posso aprire gli occhi perché ho paura che l’acqua li bruci. Non posso toccarmi le orecchie perché ho paura che l’acqua le abbia già bruciate.

Vorrei contare fino a dieci ma non so che lingua parlino all’inferno.

«Janne. Per piacere, esci.» Sento la voce di mio fratello, abrasa dal vapore. «Questo è tutto quello che mi rimane. Jana è incinta e non vuole che il bambino sappia di avere un ubriacone come padre. Le cose stanno così. Tu e questo premio. Devi—»

Ripenso agli ultimi tre anni. Al fatto di averlo lasciato nel bar quella sera. Alla nostra sauna a casa, alle nostre mani strette assieme fino al punto in cui io mi divincolavo e mi lanciavo all’aria aperta come se fosse un abbraccio degli Arcangeli.

Non lo lascerò mai più solo. Voglio dirglielo ma tanto, sott’acqua, non mi sentirebbe.

Sta dicendo qualcos’altro ma tutto ciò che sento è il conteggio fino a dieci, il conteggio fino a dieci che proviene dalle rocce bollenti. Mi guardo le braccia. Sono ricoperte da ciliegie nere, che sporgono dalla pelle come sacchette di sangue nero rovente. Una di queste scoppia, lasciando una striscia appiccicosa di succo scuro giù fino al mio gomito.

Sento delle grida ma ora è tutto così lontano. Sento che sto finalmente raggiungendo qualcosa. È come scavare una fossa fino in Cina – come nuotare abbastanza in profondità nell’Inferno con il Paradiso che aspetta dall’altra parte.

Sento delle braccia che mi trasportano e devono essere quelle degli Angeli perché non mi sembra più di stare bruciando.

(Pubblicato originariamente su apt)

Traduzione di Francesco Piccoli e Nicolò Porcelluzzi