A che scopo?

Questo è quello che facevano: mostravano i loro documenti di identità e carte d’imbarco; rispondevano alle domande sulle loro destinazioni; si toglievano le scarpe; mettevano i loro effetti personali nei contenitori di plastica; rinunciavano ai liquidi sopra i 100 ml (o non lo facevano e venivano mandati a rispondere ad altre domande); riprendevano i loro effetti personali; attraversavano lo scanner; alzavano le braccia; stavano in piedi, congelati, come ballerini o criminali, mentre lo scanner li fotografava; superavano lo scanner. La luce, nella zona comune, era un blu acceso. Faceva sembrare tutti dei santi, o dei malati. Di solito ero la prima che incontravano. Ero su una postazione e facevo domande. Ero stata addestrata all’indagine comportamentale. Osservavo il rapido tic di un sopracciglio, la tensione di un labbro. Osservavo quanto a lungo si sfregavano le mani sui volti. Brevemente e con uno scopo, o più a lungo, per nessuna ragione. Mi dicevano dove andavano. A che scopo? Chiedevo. C’era sempre la speranza di scoprire qualcuno, il bugiardo, il criminale. C’era la speranza di trovare qualcuno che fosse pericoloso.

Era quello il nostro lavoro. Lavoravo lì da tre anni. In famiglia eravamo in quattro. Poi eravamo in due. I miei genitori scomparsi, improvvisamente, otto anni fa, un incidente andando a teatro. Mia sorella non ci credeva quando gliel’ho detto. Io ci avevo creduto. Mi diede un potere che non volevo. La notte in cui i miei genitori ci hanno lasciato, mia sorella e io eravamo sedute in soggiorno mentre i miei genitori si preparavano. Era la prima volta che andavano all’opera, e nostro padre era, come sempre, di fretta, preoccupato di non trovare parcheggio; nostra madre era più lenta, convinta dalla sensazione di meritarselo: non solo il teatro dell’opera, ma l’essere incoraggiata dalla sensazione di qualcosa di grandioso.
Mio padre si era innervosito quando mia madre aveva detto di volersi fermare a prendere un gelato prima; suggerii un cono di Bufera al Caramello del Dairy Queen. Era solo un’idea che avevo buttato lì, senza pensarci, ma lei mi guardò come se le avessi visto dentro e disse, “Sì”. Mia sorella volle partecipare al gioco; suggerì a mia madre di fermarsi al supermercato e comprare una borsetta nuova. Mia madre scosse la testa. Ci metteremmo troppo, disse mia madre. Magari domani. Mia sorella si sgonfiò, un palloncino floscio. I nostri genitori uscirono di casa, mio padre davanti, mia madre toccandogli la spalla con i polpastrelli, tesi e determinati, immaginando di dovere entrare in una sala piena di suoni.
E se ne andarono. In piena tradizione della vita dopo la morte, sembrava che niente fosse vincolato a nulla — i frigoriferi e i fon ronzavano per il pavimento. Mia sorella inclusa. Era furiosa perché nessuno aveva ascoltato la sua idea della borsa. Non c’era nessuna prova che il gelato fosse stato la causa di qualcosa. Ci controllavamo mentre preparavamo la vendita della casa. Mia sorella e io andavamo da una parte all’altra decidendo chi avrebbe preso cosa. Questo orologio. Questi orecchini. Quel tappeto. Negoziavamo ogni articolo con una calma assurda. Volevamo entrambe tutto, volevamo un porto sicuro per ogni articolo. Soprattutto, entrambe volevamo vedere di nuovo i nostri genitori attraversare la porta.
Poi mia sorella non ne poté più. Non poteva sentire il suono della mia voce; non diceva niente che potesse confortarla. Si batteva le mani sulle orecchie e si rifiutava di ascoltare. “Le hai detto di prendere il gelato,” diceva. Era una piccola ragazza preoccupata che andava a fondo di qualsiasi idea le venisse per poi rifiutarsi di uscirne. Si trasferì — di corsa — in Malesia a insegnare inglese e ascoltare qualsiasi lingua che non fosse la sua.
Ero stata lasciata qui, con nessun progetto. Sapevo di dovere vivere. Mi sentivo come se fossi fatta di sabbia. Nessuno mi dava attenzione, e non avevo obblighi verso alcunché. Ma volevo essere utile. Presi un aereo per una piccola città insignificante e decisi di trasferirmici. Attraversai i controlli e guardai gli agenti fare il loro lavoro. Fissavano la macchina a raggi X, tastavano i fianchi e le spalle dei passeggeri, e fissavano i loro sguardi limpidi e tesi sulla folla. Mi affascinavano, belli, in piedi nelle loro uniformi blu scuro, presi a scrutare la gente cercando qualcosa di sospetto, qualcosa da poter fermare. I loro visi erano sereni, invidiabilmente distaccati. Volevo impossessarmi di quella sapienza e di quel sospetto. Volevo fermare qualcosa, tutto. Mi candidai per un lavoro nella sicurezza degli aeroporti e mi piazzarono qui.
Iniziai monitorando i bagagli a mano. In cerca dell’oggetto tagliente, dell’esplosivo nella valigia. Vidi i profili spettrali delle scarpe dei passeggeri, dei loro gioielli, pantaloni, intimi, fotocamere, gli oggetti innocui che tentavano di infiltrare, tipo una bottiglia di vino o un vasetto di senape o marmellata, e gli oggetti stupidi, come le forbici e i coltelli. Ero brava a trovare le cose. Ero spietata. Mi chiedevo se i passeggeri pensassero mai a me mentre l’aereo decollava, mentre le ali sfacciate tagliavano il cielo blu, mentre si aggrappavano ai bracciolo di plastica dei sedili e lasciavano uscire un respiro guardando giù la Terra in mezzo alle nuvole. Se, da qualche parte dentro di loro, credessero mai che — forse — li avevo protetti.
Quando non stavo a fissare i bagagli, provavo a costruirmi una vita. Guardavo il resto dell’equipaggio, avevano coniugi e tavolini e automobili. Eravamo stati addestrati insieme, sei di noi, tutti diretti alla sala polifunzionale che ospitava le sessioni, tutti seduti sotto quella luce blu malaticcia, a guardare video, Power Point, descrizioni ronzanti di grafici, gesti, atteggiamenti di chi ci avrebbe potuto fare del male.
Erano le prime persone che mi capitava di conoscere dall’incidente; in quel periodo ero sensibile alla gentilezza, e loro erano perlopiù gentili con me. Avendoli conosciuti, persi il bisogno di incontrare altra gente. Inoltre, ognuno di loro mi ricordava un membro della mia famiglia. Lester aveva dei capelli simili a licheni, scuri, spugnosi, la stessa consistenza di quelli di mio padre. Deanne camminava svelta, come faceva mia sorella quando stava pianificando qualche tipo di rivolta. Joanne ogni tanto mi sfregava la spalla come faceva mia madre. Era come se la mia famiglia si fosse, come spie, infilata sotto alla loro pelle. Passavamo le giornate stando lì all’aeroporto nell’area di sicurezza bluastra, ma tra un aereo e un altro, diventammo amici.
Ogni mese portava qualche novità. Lester aveva una storia. Deanne era incinta. Il figlio di Joanna si laureava al college. C’erano delle feste per gli sposi, per i neonati. C’erano dei biglietti d’auguri e fondi per fare i regali. C’erano consultazioni riguardo ristrutturazioni, c’erano consigli riguardo motori e scuole e quale piatto portare in chiesa. C’era qualcuno che mi avrebbe fatto la spesa quando ero malata, o mi avrebbe prestato gli attrezzi da giardinaggio, o mi avrebbe aiutato a sistemare la TV. C’era un generale senso di accumulazione che era sbalorditivo e strano e tenero.
Il mio appartamento aveva un balcone con qualche vaso di rose appeso. Mi prendevo cura di loro, compravo i surgelati e li scongelavo per cena, e la sera guardavo delle commedie in TV. Avevo provato, un paio di volte, a invadere il mondo dell’amore, uscendo con uomini con i quali avevo chattato su internet. Ne avevo incontrati un paio, mi ero seduta di fronte a loro nei ristoranti; volevano farsi disperatamente piacere, quelli che incontrai, le chiacchiere sulle loro virtù erano logoranti. Forse è per quello che non ero uscita più di una volta con nessuno di loro.
Conoscevo solo i membri del mio equipaggio. Erano inciampati nel terminal provenendo dai loro disastri: matrimoni sbagliati, figli tossici, tumori, depressioni, parenti sottratti, morti premature, e tutto il resto. Ci dicevamo tutti “mi dispiace” a vicenda, avevamo tutti una propria montagna da scalare. Le cose stavano così. Eravamo qui per aiutare gli altri. Mi sentivo utile quando ero lì al gate con l’equipaggio — queste cosa mi facevano andare avanti, quel senso di utilità. Gli ero grata.
Prendevamo tutti il nostro lavoro sul serio. Quando fissava la macchina a raggi X Lester assumeva un’espressione solenne, vigile, individuando sempre quale oggetto dovesse essere rimosso. Joanna era efficiente, precisa nelle perquisizioni. Estelle era brava ad aiutare le persone che dovevano organizzare gli effetti personali nei contenitori di plastica. Quando lavoravo con loro provavo segretamente a trovare parti di loro in me. I capelli di Lester. Guardavo il modo in cui li sistemava con la mano, il modo in cui lo faceva mio padre quando pensava ai suoi clienti. La camminata di Joanna. A volte, quando non avevo bisogno di lei, le facevo cenno di avvicinarsi così potevo vedere le sue caviglie picchiare sul pavimento, picchiare forte, nel modo in cui lo faceva mia sorella quando aveva bisogno di dirmi qualcosa. E Harvey, Fernando, Estelle, ogni di loro custodiva il suo tesoro — Harvey indicava nel modo in cui faceva mio padre quando era su di giri, la bocca di Fernando assomigliava a quella di mia sorella, Estelle lasciava uscire la stessa risata fragorosa che capitava qualche volta a mia madre. Non gli volevo bene, ma in un certo senso, sì, se l’affetto è essere ipnotizzati dalle mere azioni degli altri, e dal modo in cui finiscono per farti credere che contengano altre persone che hai conosciuto.
Era il tipo di affetto che ora mi apparteneva, e ci convivevo, anche se provavo a ricordare come fosse l’amore che apparteneva agli altri. Osservando la corrente dei passeggeri attraversare il gate avevo dei momenti di gelosia — quei passeggeri, allacciati nei loro sedili — il lusso di noia e desiderio — ad aspettare il servizio bevande, a credere che uscendo dal jetway troveranno il resto delle loro vite.
Andavo a lavoro, in equilibrio sulla vita, questa piccola piattaforma. Qualche volta andando a lavoro mi veniva voglia di svicolare, illuminata da una piccola visione — un cespuglio di gardenie come quello che fioriva fuori casa nostra, il passaggio di una Mercury blu. Di solito però tutto ciò svaniva quando entravo nel terminal, quando prendevo la mia postazione, quando si presumeva che il mio sguardo dovesse individuare qualsiasi indizio di calamità nel mondo.
Un giorno Joanna lesse a tutti noi una nota; si sarebbero effettuati dei tagli al personale. Non eravamo tutti indispensabili alla difesa della sicurezza nazionale. Uno di noi avrebbe dovuto andarsene.
Joanna ci lesse questa cosa; la mail era stata appena inviata a TUTTO LO STAFF DELLA REGIONE ATLANTICA MERIDIONALE.
“Cosa significa, andarsene? In un altro aeroporto?”
“No, andarsene. Non hanno bisogno di noi. Di uno di noi.”
Li guardai. Estelle si schiarì la voce. Fernando batteva i piedi. Vicino a Deanne si sentiva un odore acido di deodorante.
“Come decideranno?”
“Non lo so.”
“E poi?”
“Uno di noi viene lasciato andare.”
Mentre leggeva la nota, arrivò un’altra mail: avrebbe deciso Lester. Aveva iniziato qui un anno prima di noi e un mese prima aveva, come sapevamo tutti, bloccato quel tizio con un coltello da bistecca nelle sneaker. Aveva sei settimane, e il centro Regionale si sarebbe attenuto al suo volere.
Facevo fatica a respirare. Qualcuno avrebbe voluto protestare? Non lo fece nessuno. Di fronte a questo annuncio eravamo stranamente passivi. Le nostre uniformi blu scuro, così officiali, così comode — a loro modo, sembrarono improvvisamente nostalgiche, inconsistenti come i costumi di Halloween; Estelle si allargava il colletto con un gesto tenero che non avevo mai visto prima.

«Tutti ai loro posti!» disse Joanna, e andammo ai nostri posti.
Andammo un paio di volte al Ruby Tuesday, ma adesso era diverso. Lester si sedeva a metà del chiosco rosso e tutti osservarono cosa aveva preso. Un antipasto di salsa di granchio. Qualche mozzarellina fritta. Ci guardavamo a vicenda. Joanna gli fece i complimenti per la scelta del suo antipasto. Si sporse verso di lui, luccicante di ammirazione. «Salsa di granchio. Ottima scelta. Ho sempre adorato la sua consistenza cremosa.»
«Grazie, cara» disse Lester, immergendoci un pezzo di pane all’aglio. Improvvisamente tutti ordinavano la salsa di granchio, incluso chi, lo sapevo, la odiava. Varie ciotole di salsa di granchio se ne stavano lì, praticamente intonse. Ne ordinai una anch’io, immediatamente. Tutti sembrarono teneri e mostruosi. Quello che volevano tutti era stare lì, essere notati come degni di essere inclusi. Essere riconosciuti per il proprio lavoro sembrava il desiderio più profondo, essere ritenuti degni di rimanere qui, con il resto di noi, e stavamo seduti intorno al tavolo, a guardare la salsa di granchio, a sperare.
Notavo che l’equipaggio si comportava in maniera leggermente diversa. La nostra potenziale scomparsa da questo gruppo portò tutti a rivelare altri elementi di se stessi. Ora notavo le cose che non volevo ricordare della mia famiglia. Joanna si trasformò improvvisamente da lavoratrice rapida e efficiente in adulatrice compulsiva, qualcosa che mia sorella tendeva a fare. Estelle si trasformò in una gatta morta, come faceva mia mamma con i cassieri al mercato quando si annoiava, e Fernando stava più dritto sulla sedia pretendendo i bastoncini di mozzarella con un fare prepotente, come quando mio padre faceva gesti superbi quando era stufo di noi. Mi batteva il cuore dal panico. Il pavimento sembrava il cielo.
Forse dovrei essere più flessibile. Sapevo che questo era solo un lavoro che ci dava uno stipendio, e avremmo potuto uscire dal terminal per diventare qualsiasi altra cosa — una cameriera, un manager di Subway, un addetto alla sicurezza in banca. Ma qui era dove avevo voluto essere. Sembrava assurdamente casuale. Perché qualcuno ha deciso di agganciare i suoi sentimenti a qualcosa? Perché un posto piuttosto che un altro? Tutti i membri dell’equipaggio mostravano dell’espressioni cordiali, si sorridevano, inzuppavano il pane all’aglio nella loro salsa di granchio e guardavano da qualche altra parte.
Immaginai i miei colleghi prendermi per le braccia e scortarmi fuori dall’aeroporto; riuscivo a sentire la loro presa sulla mia pelle. Mi sedevo intorno al tavolo con loro e mi chiedevo: cosa dovrebbe succedere se fossi scortata fuori dall’aeroporto? Cosa mi succederebbe?
*
Un passeggero mai visto prima attraversò la linea di sicurezza. Mi porse la sua patente. Era bello, in un modo sciatto. «John Comet,» dissi, e guardai di nuovo il nome.
Lui rise. «È il mio nome,» disse- Era un uomo snello, atletico, e indossava un vestito blu scuro. Era un po’ in carne intorno al colletto, come il petalo di vecchio fiore. Aveva dei denti davvero bianchi. Aveva dei capelli castani, spettinati, attraenti, come se il suo mezzo di trasporto fosse correre nel vento. Lo notai innanzitutto perché mi guardò negli occhi. Non come un passeggero, ma come una persona. Guardando semplicemente che persona fossi.
«Dove sta andando oggi?»
«Cincinnati.»
«A che scopo?»
«Lavoro.»
«Che tipo di lavoro?»
Questa non era una domanda necessaria; non sapevo perché la stavo facendo. Ma lui diede un’occhiata al mio badge, lo assimilò, e rispose, «Mi occupo del marketing di bagagli personalizzabili.»
«Oh,» dissi.
Fece una pausa. Gli restituii i suoi documenti.
Gli altri di solito afferravano le loro carte d’imbarco e si affrettavano, si toglievano le scarpe, scattando verso i vassoi di plastica.
«Signore?»
«Cosa dice la gente quando chiede loro — a che scopo?”
Una domanda. Lo guardai. «Cosa intende?» gli chiesi.
Si schiarì la voce. «Dove dice di andare, la gente?»
«Alla gente piace visitare altra gente. O fare vacanze,» dissi. «Gli piace andare via da casa. E convegni. Ci sono convegni su qualsiasi cosa.»
Se ne stava lì, il piede che batteva piano mentre parlavo. «Non avere paura,» disse.
Lo guardai. «Perché pensi che ne abbia?» gli chiesi.
Sorrise. Era il tipo di commento che avrebbe dovuto metterlo in riga per quanto riguarda il fare domande.
«Non so,» disse «Sono solo un venditore. Capisco le cose, qualche volta.»
Aveva ragione. Avevo paura. Ma, in qualche modo, per un attimo la sua domanda me la fece passare.
«Ha paura, Mr. Comet?» Chiesi.
La sua spalla si contrasse, leggermente. Ne aveva.
«No,» disse. «Sto solo viaggiando.»
C’era un rimpianto nella sua voce che suonava esattamente come mi sentivo. Ero circondata da bugiardi. Non aveva niente da guadagnare dalla mia paura. Eravamo due pianeti fluttuanti, separati, nell’aria blu. Curiosamente, tutto ciò mi confuse. Mi sorrise, quei denti brillanti, e si diresse verso la sua destinazione.

Si fece vedere all’aeroporto tre giorni dopo, e tre giorni dopo ancora. Potevo vederlo da lontano, la sua andatura veloce, affilata, mentre girava per l’aeroporto; rallentò quando iniziò ad avvicinarsi. Mi mostrava i documenti e mi faceva una domanda, ogni volta. La seconda volta mi chiese: «Secondo lei perché alla gente piacciono i convegni?» La terza volta sbadigliai mentre mi si avvicinava, e mi chiese, «Ms. Orson. Non ha preso il suo caffé stamattina?» I passeggeri dovevano stare attenti a fare domande, in modo da non sembrare troppo interessati a come funzionasse questo posto. Semplicemente, sembrava credere che io avessi qualcosa da dirgli. Quando gli risposi per la terza volta (sì, non avevo preso il caffé, in effetti), lui scosse la testa, gli tremarono le palpebre, e io mi sorpresi, perché pensavo di avere scoperto qualcos’altro sul suo conto: voleva capire chi fossi.
Mancavano due settimane alla decisione di Lester. In mattinata entrai all’aeroporto, superai Deanne, superai Joanne, superai Estelle, superai Fernando, superai Edward, superai Lester. Volevo parlarci, ma non sapevo di cosa. Le nostre conversazioni erano diventate stranamente allegre, innaturali, in modo che nessuna informazione concreta fosse veicolata. Oggi erano estremamente affascinati dalle loro varie procedure e per qualche motivo facevano fatica a guardarmi. Joanna si sporse in avanti e mi strofinò la spalla. Con tenerezza.
«Come stanno le tue rose?» Mi chiese.
Sembrava strano perfino fare una domanda; le rose non erano il punto. Il garbo era una forma di distrazione.
«Benissimo,» le dissi.
Lei scosse la testa. Poi andò al punto. «Hai notato come Lester ci sta camminando intorno,» disse. «Sì,» dissi.
«Non posso dirlo. C’è stata l’unanimità.» Joanna stava lì, le braccia incrociate, foderata dall’armatura del presunto consenso di lui.
«Perché parlavate di me?» Chiesi. Piano.
«Stiamo cercando di aiutarti,» disse. «Stiamo cercando di darti una dritta —»
«Che carino. Una dritta,» dissi.
Lei fece un passo indietro, la faccia paonazza. Joanna! La fissavo, notavo il neo sulla sua guancia sinistra, la macchia di capelli grigi sulla sua fronte, parti di lei che non avevo mai visto. Quando erano diventate parti di lei? Poi guardai Fernando, e vidi una voglia sul suo orecchio, e vidi Estelle zoppicare in uno modo che non avevo mai notato. Tremavo. Cos’altro mi ero persa? In loro, nella mia famiglia? Mi ero persa qualche pecca nella guida di mio padre, così da farli andare all’Opera quando non avrebbero dovuto andarci? Avevo sbagliato a dire a mia madre di andare a prendersi un gelato? Chi eravamo stati, davvero? Ero preoccupata di avere difficoltà nel ricordarli. Nella mia infanzia i miei genitori avevano litigato, di tanto in tanto, cercando un compromesso nella loro arroganza; il regno di mio padre era preoccupato dal tempo, la sua esigenza era la puntualità. Mia madre voleva soprattutto viziarsi con belle scarpe e dessert con montagne di panna — questi erano i modi in cui si deludevano a vicenda. Ogni tanto camminavano per la casa e le loro parole suonavano come coperchi a pressione. Era quando a mia sorella piaceva la mia voce, quando andavamo in giardino e ci inventavamo i nomi delle rose che crescevano lì: la Regina Arancione, la Tropicana, la Esploneve; le rose ci guardavano, sembravano protettive, a loro modo.

Ma ricordavo anche i momenti in cui i miei si amavano, quando la loro voglia di vedere il mondo era tale da decidere di portarci in qualche posto nuovo. Ogni tanto saltavamo in macchina e andavamo in un posto a caso: un negozio di ciambelle in un vicolo, un carosello ossidato, dove loro ci camminavano a fianco tenendosi per mano.
Non sapevo cosa dovevo ricordarmi di loro. Pensando a queste cose, la scorsa notte, i miei genitori si rimpicciolivano come cartoni animati, mio padre cieco, mia madre di fretta, e io ignara di tutto, perché, semplicemente, lo ero. Poi mi ricordai di quando avevo messo giù il telefono e avevo detto a mia sorella che c’era stato un incidente, e di come non ero stata capace di dirle la conseguenza, la mia bocca asciutta, amara, fino a quando gliela dissi, e mi sono chiesta cosa sentì lei nella mia voce, o cosa mai possa avere fatto dopo, per farla volare così lontano.
«Perché mi stai dicendo queste cose?» Chiesi.
«Non lo so,» rispose Joanna. Sembrava spaventata. Da me? Da sé stessa? «Non chiedere a me. Chiedilo all’unanimità.»
Non volevo credere che stesse dicendo la verità. «Devo proteggere il nostro paese,» dissi, piano, e andai alla mia postazione.
Uscii per un caffè con John Comet. Ci incontrammo in un diner vicino all’aeroporto. Non avevo mai preso un caffè insieme a un passeggero prima. La tavola, le forchette argentate sopra i tovaglioli di carta, la collinetta di zucchero bianco nel barattolo, tutto sembrava brillante e scenografico. Eravamo stati guardia e passeggero e ci stavamo osservando ora con cautela, ora con qualcos’altro. Ordinai un caffè e una focaccina, come lui.
«Perché lo fai? L’agente di sicurezza?» chiese.
Gli raccontai che cosa era successo alla mia famiglia. E poi come mi ero sentita, camminando attraverso un aeroporto. Volevo indossare quell’uniforme e stare al controllo sicurezza; volevo sentire che effetto mi avrebbe fatto essere la custode, decidere se fosse sicuro o no lasciarli camminare sotto lo scanner, condurli senza rischi verso gli aerei.
Al lavoro, nelle ultime settimane, avevo trattenuto dentro tutto, ogni sfumatura di sentimento. Ora John Comet sedeva lì, del tutto innocente, e io volevo scaricargli tutto addosso. Alzò la mano per sistemare i capelli castano chiaro via dalla faccia. Di proposito. Un gesto innocuo.
«Così questo è ciò che faccio,» dissi. «Da tre anni.»
«Beh,» disse. «Capisco.»
Non eravamo proprio dei gran conversatori. Il barattolo argentato dello zucchero splendeva alla luce del sole.
«Come sei finito nel campo della valigeria su misura?» chiesi.
«Lavoro nel marketing,» disse, sporgendosi un po’ in avanti. «Questa compagnia mi ha assunto e mi ha chiesto, che cosa vuole davvero portarsi dietro la gente quando va da qualche parte? C’è chi si porta molto, lo saprai, cosmetici, altri dicono fanculo, mi servono solo le scarpe da ginnastica. Puntiamo ad accontentare tutti quanti. Diamo alle persone mezzi per trasportare cose. Qualunque cosa.»
Spalmò dell’altro burro sulla sua focaccina, energicamente.
«A mia moglie non piacevano le valigie,» disse.
«Tua moglie?» chiesi.
«Ex. Ha preso una sola borsa quando se n’è andata. Con nostro figlio. Louis. Ha lasciato tutte le sue cose. I giocattoli, le carte dei Pokémon, eccetera. Sapevo che li avrebbe voluti. Ho dovuto portarglieli.»
«Quando se n’è andata?» chiesi.
«Due anni fa. E un mese. Fa la cameriera a Miami. Sposata con un nuovo tizio. Louis è in terza elementare.»
La sua voce era più ruvida di quanto mi aspettassi. Aveva un leggero accento, forse del New Jersey. Mescolò dello zucchero nel caffè, adagio, poi un po’ più forte.
«Perciò,» disse, la voce più calma, «dico ai miei clienti che hanno bisogno di tante tasche.»
Parlavamo di niente. Delle rose che coltivavo sul balcone del mio appartamento. Ce n’erano diverse, gialle, rosa e panna, i loro musi variopinti rivolti verso il sole. Possedeva degli scarafaggi rari, un esemplare unico che di norma si trova in Brasile. La sua voce divenne malinconica mentre me ne parlava. “Ne ho visto uno durante un tour. Appoggiato su una foglia. Aveva ali verdi, viola che sembravano di vetro. Aveva l’aspetto di qualcosa arrivato da un’altra galassia. Ma era lì. Lo volevo. Non avevo mai voluto qualcosa così tanto. Non avrei dovuto portarlo via. Ma l’ho fatto. Ne ho quattro. Vivono in una gabbia fatta su misura di fianco al frigorifero. Mangiano lattuga e carote a pezzetti.” Per come sussurrava, le parole sembravano un tesoro, un dono per me.
Ordinammo ancora dal menù, dalla pagina “colazione”, French toast e pancetta e uova strapazzate, dalla pagina “cena”, brasato e fettuccine al burro e broccoli al vapore. Non c’era niente di speciale in lui, era solo un rappresentante di valigeria, non era neanche così bello. Voleva essere catturato. Non c’era niente che cercasse di nascondere. La sua faccia era soltanto la sua faccia. Sapevo che riusciva a vedere tutto nella mia, la crudezza del deperimento dovuto alla mancanza. Non mi sentivo come un agente di sicurezza. Quando la sua mano raggiunse la mia, mi fece sentire come Dio.

Il giorno dopo, cercavo di guardare al di là di tutti loro, verso le file di passeggeri, verso John Comet. Lo vedevo di continuo, mentre veniva verso di me, ma non era lui, ce n’erano migliaia di non lui, in marcia verso la loro destinazione. Camminavano, afferrando le loro valigette, la faccia umida, verso New York, Philadelphia, Boise, Las Vegas, una folla di persone cui sarebbero state poste domande, perquisiti, incoraggiati a venire avanti, oppure fermati. Il mio cuore era un amo, si allungava per raggiungere John Comet. Arrivò, finalmente, trascinando un’altra valigia con molti scomparti. Sembrava fosse una candela, luminoso nella penombra blu dell’aeroporto, sebbene l’incandescenza fosse invisibile a tutti tranne che a me.
Ci incontrammo ancora nello stesso caffè qualche giorno dopo. La sua presenza davanti a me come un essere umano qualunque mi fece impressione, quasi mi deluse; era come se fosse un ventriloquo per il John Comet che vedevo, splendente, nella mia mente. Ordinammo quello che avevamo già preso la volta prima, e anche una gelatina e un’insalata di barbabietola.
Mi raccontò di suo figlio. «Halloween,» disse John Comet. «Non sono mai riuscito a portarlo in giro per Halloween.»
«Perché no?»
«Sua madre si inventa storie su di me.»
Feci attenzione alla sua faccia. Non era la faccia di un bugiardo, la faccia di un bugiardo sarebbe stata trafelata. La sua faccia era ferma, come è difficile da mantenere se si sta cercando di spingere qualcosa giù.
»Che genere di storie?»
«Oh, per esempio che non l’ho badato. Che è corso in strada.»
«Davvero?» chiesi.
«No!» disse. Lo disse così bruscamente che credetti fosse onesto.
«Non quando stavo con lui.»
Mi sporsi in avanti, guardandolo: capii che voleva passare del tempo con me perché in parte voleva essere giudicato.
«Perché ha detto una cosa simile su di te?» chiesi.
«Voleva andarsene,» disse. «Amava qualcun altro.»
Si strinse le mani. Se ne stava là seduto come una tazza di caffè. Guardandolo, la faccia squadrata, gli occhi scuri, l’aria del rappresentante, non avresti mai detto che era qualcuno scivolato dalla superficie della sua famiglia giù nel nulla.
Sapeva di scuro e di acido, di caffè e di sale. E io volevo seguire quel gusto dentro di lui.
Uscimmo dal caffè. Questa volta andammo al suo appartamento in macchina. Non era come me l’ero aspettato, ma un posto scalcinato che ricordava un motel, con muri stuccati e il tetto rosso ondulato. Davanti alla porta del suo appartamento iniziammo a baciarci. Sapeva di scuro e di acido, di caffè e di sale, e io volevo seguire quel gusto dentro di lui. Le sue dita stringevano le mie spalle. Non avevo mai notato tutte le cose in questo modo. Le luci dai lampioni erano lunghe barre radianti.
Poi il suo corpo fremette e si staccò da me. «Sono svegli,» disse.
La finestra era aperta. Dentro il suo appartamento, proprio accanto alla finestra, c’era una grossa gabbia in fil di ferro. Conteneva quattro scarafaggi. I loro gusci assomigliavano al vetro: viola, verde e iridescente, i colori così intensi che attorno a loro tutto era squallido, sbiancato. Gli scarafaggi sembravano quasi vantarsi della loro bellezza gratuita. Restammo in piedi, le facce vicine tanto da potersi toccare, mentre gli scarafaggi si facevano largo tra le molli striscioline di lattuga con le loro fragili zampette
«Entriamo,» dissi.
Sentii il suo respiro sul mio orecchio, il suo corpo premuto contro il mio. Lo volevo talmente tanto che mi facevano male le punte delle dita. John Comet si fermò. “Non adesso,” disse.
«Perché no?»
«Stanno mangiando. Possiamo guardarli da qui.»
Volevo entrare ora. Volevo toccare quei gusci che sembravano di vetro ma non lo erano. Ma più di tutto, volevo John Comet. Volevo spingere i nostri corpi insieme, scorrere la mano lungo le sue braccia, il petto, e camminare attraverso di lui come attraverso una porta per la mia salvezza. Invece, restammo in piedi per molto tempo, guardando quegli scarafaggi luccicare.
*
Il giorno seguente ero di turno al termine del nastro trasportatore. Ero l’ultima persona che i passeggeri avrebbero incrociato prima di imbarcarsi sul proprio volo. Lester mi si avvicinò.
«Oggi sta a te essere valutata, Sally,» disse Lester, allegro.
«Sissignore,» dissi io. Lester aveva iniziato a portarsi le cartelline in giro, prendendo note assurdamente fitte. Se avessi commesso qualche sciocchezza, la decisione sarebbe stata facile. Mi sentivo, nella mia condizione permeabile al desiderio e alla paura, estremamente operativa.Trovavo oggetti interessanti. Un coltellino svizzero, forbici art déco, una confezione di petardi.
E poi eccolo, John Comet con dietro il suo bagaglio. La faccia fissa nella stessa espressione. Oggi stava partendo per Philadelphia. Nessun segno di quello che avevamo fatto la notte precedente, o non avevamo fatto. Si fermò sotto il body scanner, le braccia alzate mentre la macchina ronzava. Venne illuminato un punto sotto il braccio destro.
«Bisogna perquisirlo,» disse Deanne, cercando attorno. «C’è un uomo disponibile?»
Nessuno.
John Comet mi guardò, la faccia bianca come latte. «Può farlo lei,» disse.
Deanne mi guardò alzando gli occhi al cielo, come per dire, ti va di toccare questo strambo?
Rimasi molto ferma.
«Per te va bene Sally?»
«Sono parte della squadra,» dissi vivacemente.
Ci mettemmo in un angolo.
«Alzi le braccia, signore,» dissi.
Le alzò fino a formare una T. Potevo perquisirlo in qualunque modo volessi. Cominciai a scorrergli le mani giù per il braccio. Il suo braccio appariva sorprendentemente tirato e sottile nella luce dell’aeroporto mentre premevo lungo i fianchi per trovare oggetti di metallo. Lui fissava dritto davanti a sé, il nulla.
«Fatto?» chiese.
«Non ancora,» dissi.
Strizzai l’altro braccio. A volte la macchina segnala persone senza alcuna ragione. Un movimento leggero, un bagliore, un’ombra di minaccia che solo la macchina ha potuto vedere. Stavo ferma, formale, con addosso la mia uniforme, ma non volevo lasciare andare il suo braccio.
Emise un respiro. D’amore? Desiderio? Fastidio? Voleva forse solo andare avanti con la sua giornata? Sollevai la mano dalla sua giacca. Piano. La punta di un dito, il palmo, il materiale fino del suo completo. Ogni momento era penoso, rilasciarlo. Sentivo la mancanza di ogni centimetro, ogni cellula, piano. Piano.
Lasciai andare. Poi feci un passo indietro, di nuovo nel mondo di me da sola. «Tutto a posto,» dissi. »Può procedere verso la sua destinazione.»
Le sue palpebre tremolarono. Non sapevo che cosa significasse. Annuì verso di me, e sorrise, un sorriso bellissimo, prese la sua valigia e si incamminò verso il gate, e io rimasi nella luce, mentre se ne andava.
*
John Comet mi chiamò due sere più tardi. Era appena sceso dal suo aereo. Voleva vedermi. Ora.
Ci incontrammo al diner. Lui non aveva fame. Voleva andarsene dal ristorante per camminare in un parco. Aveva l’aspetto logoro e disorientato di qualcuno che era passato attraverso un fuso orario diverso – qualcosa era andato perso. I suoi capelli erano umidi e appiccicosi. Il suo corpo aveva l’odore stantio dell’aria d’aeroplano.
Credere che qualcuno possa farti spazio, possa, forse, tenerti al sicuro. Quella doveva essere la risposta, perché non volevo contenere solo me stessa, la mia tristezza imputridita.
Premette la bocca sulla mia nell’istante in cui mettemmo piede nel parco. Il parco nero, l’erba scintillante sotto la fluorescenza grigiastra del lampione. Mi baciò con forza, lento, come se stesse cercando di inalare un qualche elemento importante da dentro di me. Oro. Cademmo insieme sull’erba. Eravamo velluto e acqua e braccia e labbra e non eravamo nessuno ed era ciò che volevamo, arrampicarsi dentro un’altra persona e distendersi nella sua deliziosa oscurità. Credere che qualcuno possa farti spazio, possa, forse, tenerti al sicuro. Quella doveva essere la risposta, perché non volevo contenere solo me stessa, la mia tristezza imputridita. Le sue braccia erano magre e rigide e la terra era dura e umida sotto di noi. Eravamo vivi, non è vero? Non era una prova, questa, che eravamo vivi?
Improvvisamente, rotolò via. Io ero sdraiata, senza fiato, di fianco a lui.
«Ho visto mio figlio,» disse.
«Bene,» dissi io. Forza, si comincia. Lui mi si stirò a fianco, un bastoncino di zucchero.
«Dalla strada. Mi è corso incontro e poi si è arrabbiato.»
«Perché?»
«Ha detto che mi sono perso tutte le sue partite di baseball.»
Si alzò in piedi contro i lampioni luminosi.
«Io volevo andarci,» disse. «Come facevo a convincerlo? Lei non me l’aveva detto. Voleva che ci andasse Raymond con lei. Lo stronzo. Non io.»
In piedi, camminava avanti e indietro, come se adesso volesse mettersi a correre verso qualche altro futuro, come come se non potesse sopportare questo momento dove eravamo ospitati.
«Forse hai fatto qualcosa,» dissi, un po’ irritata. «Pensaci un attimo. Magari è così.»
Si inginocchiò di fianco a me. La sua faccia conteneva un solo sentimento. Era sconvolto. Amava suo figlio, si capiva.
«Che cosa?» disse. «Qualcuno me lo può dire?»
Pensai ai miei genitori che uscivano di casa per andare all’opera. Pensai all’ultima volta in cui li vidi vivi. Pensai ad ogni gesto che fecero, uno dopo l’altro, verso il disastro finale. Oppure ognuno era un caso? Che significato aveva ogni singola azione? Li guardai indossare i cappotti, quello di lana nera pieno di buchi di mio padre, che lo cambiò con uno marrone che non gli piaceva davvero, mia madre che camminava attorno, sempre pronta a partire prima di lui, che guardava me e mia sorella dicendo «Devo fermarmi a prendere qualcosa da mangiare.»
Guardai John Comet, là in piedi. La terra come un cracker sotto i piedi.
«Io non posso dirti niente,» dissi. «Puoi baciarmi ora.»
Afferrai le sue spalle. Sentivo il suo respiro sulla faccia, volevo assaggiarlo. Mi prese la mano e si alzò. Camminammo fuori dal parco verso la mia macchina.
Mi fissava; la sua faccia mi era del tutto familiare. Paura.
«Oh,» disse.
Restammo fermi, esaminandoci a vicenda. Lui non si mosse.
«Io,» disse. Era un fiato, una morbidezza – io. Io cosa? Io voglio? Io non voglio? Io ho paura? Io non posso? C’era un’estensione d’aria tra di noi. A che scopo tutto questo, amore? La mia pelle era sottile come seta, mi conteneva appena. Si strofinò le mani contro la faccia e indietreggiò. Rimasi perfettamente immobile mentre si incamminava via da me.
*
Il giorno seguente, all’aeroporto era codice arancione. I passeggeri erano calmi e obbedienti con l’arancione, ci guardavano con occhi umidi di gratitudine perché avremmo protetto i loro cuoricini palpitanti.
Lester stava in piedi, l’aria ufficiale, forse già sapendo chi se ne sarebbe andato. Il resto di noi non lo sapeva. Rimasi ben dritta nella mia uniforme. Provai ad immaginare che cosa potevo fare per convincerlo a farmi restare. Gli altri complottavano in modo simile. Ognuno era molto cortese, come se i loro vecchi io non fossero mai esistiti, come se nessuno tra noi si fosse mai conosciuto prima.
«Potresti allungarmi dei nuovi guanti? Ti ringrazio molto.»
«Mi farebbe piacere stare ai raggi X fino a mezzogiorno se può esserti d’aiuto.»
Le migliori maniere. Sorrisi. Chi accidenti erano questi? Le nuvole rotolavano sopra l’aeroporto, riempiendo la pista di foschia. I voli atterravano, scaricando i passeggeri di nuovo sulla terra. Vedevo i passeggeri, i piedi a malapena posati al suolo, precipitarsi fuori, verso i loro cari, il più sincero dei gesti; non sapevo come io avrei potuto far parte di quella folla entusiasta e ammassata.
Lester gironzolava, guardando la sua cartellina. Camminò verso di me.
«Sally,» disse. «Posso parlarti per un secondo?» Un secondo.
Andammo dietro un angolo.
«Bene,» disse. Tossì.
Aspettai. Un secondo. Poi due. Le mie mani si gelarono.
«Sei tu,» disse. Tossì ancora.
«Cosa?» chiesi.
«Sono sicuro al novanta percento. Te lo dirò a fine giornata. Tu fai un buon lavoro. Non so perché queste cose succedano.»
Cosa sono io, pensai.
«Fine giornata ti darò la risposta definitiva.» Tossì ancora e andò via.
Uscii da dietro lo schermo. Notai che gli altri mi stavano guardando. Non sapevo che altro fare. Andai al mio posto. John Comet. Non riuscivo a smettere di pensare a lui. Sull’erba nel parco la notte prima. Era meglio piazzare là la mente, il buio bagnato dei muscoli, e il nostro respiro, essere da qualche parte che non fosse qui. E poi, eccolo. Il bagaglio su ruote dietro di lui. Una valigia diversa oggi, una che non avevo mai visto. Tanti scomparti. Cercai di apparire professionale, per l’ultima volta.
«Posso vedere il suo documento?»
«Certamente.»
Sorrise, il suo bellissimo sorriso luminoso. Mi fece male vederlo. «Dove è diretto?»
«Oggi. Philadelphia.»
«A che scopo?»
Prese fiato. «Non ne sono sicuro.»
«Signore,» dissi. «A che scopo?»
Mi guardò. Sbatté gli occhi. «Famiglia,» disse.
Gli allungai la sua patente. «Proceda,» dissi.
Così si incamminò oltre. A piedi scalzi di fianco al nastro trasportatore. Trascinandosi verso chissà dove. La sua innocenza era impeccabile e seccante. Il mio intero corpo era un punto interrogativo. Riguardo i meccanismi di tutto nel mondo.
Lester ci stava guardando. Seguii il suo sguardo. Stava osservando John Comet, che stava in piedi, come chiunque, mentre il suo bagaglio passava attraverso la macchina a raggi X. Le code erano lente oggi, la gente accigliata, tremante. Ognuno stava pensando che chiunque altro avrebbe fatto saltare tutto per aria.
Alcuni degli scarafaggi cominciarono a strisciare fuori dalla valigia, gioielli verdi che scivolavano. Erano stupendi in tutta lo loro vistosità.
E ora Lester era in piedi. Stava camminando verso la macchina a raggi X. Stava appoggiando la mano sulla spalla di John Comet.
«Signore, può fermarsi qui un attimo. Vorremmo dare un’occhiata alla sua borsa,» disse Lester.
La faccia di John Comet era bianca. «Perché?»chiese.
«Codice arancione in corso, signore,» disse Lester.
John Comet seguì Lester in un angolo. Rimasi alla mia postazione. Riuscivo a vedere Lester mentre iniziava ad aprire la cerniera della borsa. C’era molti scomparti all’esterno da aprire. Uno, niente. Due. Niente. John Comet fece un passo avanti. Tre. Lester estrasse una busta piena di lattuga e la esaminò. John Comet scosse la testa. Lester aprì la busta e annusò la lattuga. Aprì la valigia più grande e sollevò il battente. John Comet si fece avanti e mise la mano sopra la valigia, come per scaldarsi i palmi.
«Che cazzo?» disse Lester.
Gli scarafaggi brulicavano dentro la valigia. Li potevo vedere, i quattro più grossi, i loro gusci cangianti, il modo quasi aggraziato in cui si muovevano dentro la valigia. Non ce n’erano solo quattro. Ce n’erano molti in più, di più piccoli, dozzine, tutti in movimento come uno scintillante quadrato di seta verde/viola. Gli altri passeggeri che stavano procedendo si fermarono. Ci furono sussulti. Alcuni degli scarafaggi cominciarono a strisciare fuori dalla valigia, gioielli verdi che scivolavano. Erano stupendi in tutta la loro vistosità, la loro pura scarafaggiosità, ma gli altri non sembravano pensarla così. Una donna strillò. Lester chiuse sbattendolo il coperchio della valigia.
«La Forestale!» urlò Lester. «Santo cielo. Chiamateli al telefono.»
Un uomo appoggiò il suo documento sulla mia postazione. Non lo presi.
«Signorina?» disse il passeggero, seccato. «Ho un volo da prendere.»
Lo guardai. Mi ritrassi dal banco, lasciando il passeggero in piedi, con la carta d’imbarco in mano. Stavo correndo. «No,” gridai. La parola trapassò l’aria; nessuno avrebbe dovuto gridare qui. Volevo gridare di più. John Comet si stava guardando intorno nella zona dei controlli di sicurezza. I suoi occhi bruciavano, la sua faccia si era fatta rossa; era tutto finito ora, dato che sembrava stesse per scoppiare. Lester. Lo avrebbe allontanato, tra un attimo, avrebbe sequestrato il suo bagaglio, preso gli scarafaggi, accusato John Comet di dio sa cosa. John Comet mi stava cercando. Questo lo sapevo.
Pensai ai miei genitori proprio allora, a come si precipitarono fuori dalla porta verso l’auto quella sera, pensai a John Comet, in piedi, il colletto floscio per il calore, su di un marciapiedi di Miami, che guarda suo figlio dall’altra parte della strada. Pensai che non sapevo come sarei riuscita ad andarmene da questo aeroporto ora, come sarei riuscita a fare il passo successivo.
E poi stavo correndo da John Comet, prima che lo arrestassero, stavo correndo attraverso la zona di controllo sicurezza così veloce che gli altri alzarono gli occhi. Volevo raggiungerlo prima che gli prendessero la valigia piena degli scarafaggi che amava, quelle creature splendenti, confuse, prima che riuscissi a raggiungerli, prima che potessi salvarli.

Refund: Stories (2015), che contiene questo racconto, è edito da Counterpoint Press.

Traduzione di Francesca Massarenti e Nicolò Porcelluzzi