Variazioni per ospedale

1
Stavi piantando bulbi in giardino quando il tuo braccio sparì. “Riesco a sentirlo,” dicevi, “ma non riesco a vederlo.” Ci eravamo messi insieme la primavera precedente, e quest’anno volevi i fiori. Abitavamo in una casa insieme a molti altri. La scomparsa non era, in realtà, un’emergenza, quindi decidesti di non chiamare l’ambulanza. Guidai fino ad un vicino ospedale. In sala d’attesa, un uomo si sgolava cantando estratti da Hello, Dolly!, I Miserabili, e l’integrale di Cabaret. Alla sua mano sinistra mancavano diverse dita. Sette madri partorirono. Le infermiere chiamarono il nome dell’uomo dei musical durante un’interpretazione lamentosa di “Tomorrow”. Urlarono “Trevor!” e lui veleggiò attraverso i battenti di formica oscillanti. Persino i neonati lo applaudirono mentre passava. Attraverso le alte finestre, vedemmo la luce del giorno esaurirsi. Chiamarono il tuo nome poco dopo. Infermiere velate di plastica traslucida ci condussero alla tua stanza. Cercammo di dormire. Tu in una poltrona operatoria, io su una panchina di vinilpelle. Quando il dottore arrivò, guardò a lungo il tuo non-braccio. “Eh già, hai dello sporco nelle vene,” disse. “Lo sporco ostruisce il sangue che permette al braccio di essere visto. È ottica di base.” Dall’interno del camice estrasse un barattolo di liquido argenteo. “Va’ a casa e scolati questo. Magari fa’ meno giardinaggio. Non saprei.” Rientrati a casa, bevesti l’intero barattolo e il tuo braccio tornò. Il sole minacciava di sorgere e il mattino era freddo, mancava poco che ghiacciasse. Ci arrampicammo a letto e ci coprimmo sotto le lenzuola. Ci addormentammo appena dopo l’alba.

2
Passò un decennio. Ci trasferimmo in una piccola città sul mare, affittammo un bungalow malmesso. La cittadina stava appiccicata ad un’insenatura come cibo attorno alla bocca di un bambino. Stavamo nuotando nella baia, e improvvisamente tu non riuscisti più a respirare. Ti sbracciavi fuori dall’acqua. Eri piegata in due, ma ti rifiutavi di diventare viola – la tua pelle rimaneva di un blu pallido. Un’ambulanza ci portò in un ospedale regionale. Al nostro arrivo, una donna in uniforme ufficiale da infermiera ti prese per mano. Portava i capelli rossi raccolti e arricciati. Nessuna attesa. Lungo il tragitto verso la tua stanza, non vedemmo nessun’altro paziente. L’infermiera ti infilò un tubo di respirazione giù per la gola. Quando il tubo toccò l’acqua nei tuoi polmoni fece il suono di uno spruzzo, come se fosse saltato da un trampolino. Respirasti meglio dopo. Un medico entrò e scattò una polaroid del tuo petto. Mi allungò la fotografia e disse, “Renditi utile e scrolla questa.” Si sviluppò un’immagine delle tue interiora. I tuoi polmoni assomigliavano a laghi ovali. Vedemmo creste bianche sulle acque aperte. “Hai nuotato troppo nell’oceano. È diventato parte di te.” Le dicesti che non capivi. “Non importa,” disse lei. “Si è mai sentito di acqua che si fa gli affari suoi?” Un chirurgo ti operò il mattino seguente. Quando ebbero finito, un’infermiera mi accompagnò da te nella sala di risveglio. Una fila regolare di punti divideva la tua cassa toracica. Non nuotasti mai più dopo – il bagno nella vasca era il tuo limite. Ci diedero una videocassetta dell’intervento. Settimane dopo, la infilammo nel nostro videoregistratore. Vedemmo la tua cassa toracica aperta. I tuoi polmoni erano piscine gemelle. Avevano estratto l’acqua con scadenti spugne fluorescenti. Il chirurgo aveva inserito polmoni asciutti e chiuso le tue costole come un cancello. Mi dicesti che la parte più difficile dell’essere malati è la mancanza di azione. Le tue cicatrici? Qualunque cosa dica “sono vivo!” così forte è preziosa. Mesi dopo, abbandonammo il mare.

3
Passò un altro decennio. L’inverno aveva chiuso la nostra cittadina nordoccidentale in un vicolo cieco. Dita di ghiaccio smaltavano gli esterni. Una sera, dicesti che non ci sentivi più da un orecchio. Trovai della brina attorno al tuo lobo, cristalli di ghiaccio che bloccavano il canale. Provammo con termofori e acqua calda, ma il ghiaccio non si scioglieva. Ero contento che non potessi sentirlo. Il freddo, per fortuna, intorpidiva metà della tua testa. Ci guidai attraverso le distese congelate, facendo scivolare le gomme lisce sopra il ghiaccio a lastre. Guardavo la brina diffondersi giù per il tuo collo e accelerai. Quando arrivammo, condividemmo la sala d’attesa con stufe per ambienti. Le infermiere erano imbacuccate in gonfi cappotti neri. Ci mandarono dritto in sala operatoria. “Abbiamo già avuto dei casi simili,” disse un’infermiera attraverso un passamontagna mimetico. Le lampadine della sala operatoria sbrodolavano luce gialla. Se non era Natale, ci andava proprio vicino. Il dottore entrò e annunciò un piano audace: “’Fanculo, raffreddiamola ancora di più!” Ficcò la tua testa in un frigorifero rosso pieno di ghiaccio. Le infermiere stipavano altro ghiaccio man mano che si scioglieva. Entro alcune ore, il tuo collo era diventato blu scuro, quasi notte. “Più freddo, più freddo!” gridava, lanciando biglietti spiegazzati da cinque e da dieci in giro per la stanza. Tu imprecavi da dentro il frigo. Alla fine il dottore fu soddisfatto. Ti tirò fuori la testa. Il ghiaccio fioriva attraverso metà della tua faccia. Quando i tuoi denti battevano, i cristalli tintinnavano. Il dottore convocò un coro di infermiere. Tirò fuori un martelletto da dentro la manica. Un’estremità del martello era piatta, l’altra affilata. Il coro ripetè varie ottave. Quando raggiunsero la frequenza giusta, i tuoi cristalli vibrarono, risposero al canto. La stanza si riempì di suono. Il dottore picchiettò il cristallo centrale con l’estremità appuntita del suo martello. Si frantumarono tutti, caddero a terra e si sciolsero. La stanza si zittì. Vedemmo scoperta la tua pelle rosa. Il coro applaudì. Negli anni che seguirono, potevo accostare l’orecchio a qualunque parte di te e ascoltare il mormorio ogni volta.

4
Passò un altro decennio. Invecchiammo, ma non abbastanza. Stavamo trascorrendo una “vacanza prolungata”, che significava senza una data di rientro stabilita. Stavamo in una città minore olandese che straripava di chiese. In un taxi, il tuo intero essere iniziò a mancare: memoria, palpebre, logica, gomiti, cuore e così via. Non riuscivi a parlare. Mi desti un’occhiata come da lontano. Le tue pupille si rimpicciolirono in punte di spillo, poi sparirono. L’autista ci portò di corsa all’ospedale più vicino. Era un edificio moderno costruito dentro una scogliera calcarea. Mummie cattoliche, ingioiellate da secoli, occupavano gran parte della sala d’aspetto. Infermiere intasavano le corsie. In sala operatoria, dieci di loro formarono un anello attorno a te. Dissero in un inglese legnoso: “C’è un fuoco. Quel fuoco si sta spegnendo.” Una di loro se ne andò per poco, tornando con guanti di ferro e pinze di acciaio. Le pinze stringevano un carbone ardente. Emetteva scintille per tutta la stanza. Le altre nove infermiere si voltarono dall’altra parte. Quella con il tizzone indossava una maschera da saldatore. La luce mi faceva bruciare gli occhi. Ti baciai. Cercai di dirti qualcosa, ma le parole si bloccarono e non ne fui capace. Ecco il mio rimorso maggiore – non essere stato in grado di dire niente di rilevante. Le tue iridi si scolorirono. L’infermiera ti mise il carbone nella bocca aperta. Guardai il fuoco dentro di te. Persi di vista il tuo corpo nella nuvola di fumo. Presto si esaurì. Il fumo si diradò. Non eri nient’altro che cenere e ossa. Uno spesso strato di fuliggine copriva la sala operatoria. Un’infermiera disse qualcosa che non ricordo, ma credo lo dicesse per confortarmi. Rimasi là finché non spinsero via il carrello con i tuoi resti sopra. Non chiesi di averli. Non fui capace di chiederli. Camminai per una distanza indefinita fino al nostro hotel e non mi venne sonno per settimane e settimane. Quando tornai a casa nostra in America, trovai un pacco ad aspettarmi. Una scatola di cartone avvolta in carta da macelleria. L’osso che c’era dentro? Credo fosse il tuo femore, placcato d’oro e tempestato di pietre preziose. Un biglietto mi informava che avrei potuto ammirare i resti decorati in un museo di L’Aia. Da quel momento in poi ogni vacanza diventò un pellegrinaggio.

5
Passarono decenni. Mi ammalai, perciò salii su un treno regionale. Ci restai sopra fino all’ultima fermata, un ospedale circondato da grano dorato e nient’altro. Il mio vagone era rimasto vuoto fermata dopo fermata. L’ospedale? Nuovo di zecca e inesorabilmente luminoso. “Oppure c’è qualcosa che non va con i miei occhi,” dissi prima di svenire nell’atrio. Mi misero in un letto e mi ci tennero per giorni, forse settimane. Non vidi mai un medico o un’infermiera. L’ospedale continuava ad essere luminoso, perciò tenevo gli occhi chiusi. Alla fine udii una voce nel corridoio. Sfilai i cavi e lasciai la stanza. Il corridoio si allungava davanti a me. Aprii gli occhi, alzai lo sguardo dal pavimento. Ero all’ultimo piano. Lo so perché non c’era il tetto. Un cielo limpido si allargava sopra di me. Lo guardai. La voce premeva contro l’altro lato del riparo azzurro. Potevo sentirlo, come un battito. Chiusi gli occhi, andai avanti e lo incontrai là.

(Pubblicato originariamente qui.)

Traduzione di Francesca Massarenti