Grammatica

Il caldo friggeva le strade. Era un’estate rabbiosa, il sole si abbatteva su chiunque provasse a uscire prima di sera. In giro non si vedeva nessuno. Piero studiava le apposizioni sdraiato sul pavimento in bagno, se ne stava in mutande a pancia in giù per assorbire un po’ di fresco dalle mattonelle umide. Dopo un po’ i gomiti si indolenzivano. Faceva gli esercizi calcando la matita sul libro, ne aveva comprata una con la mina troppo dura, che tagliava il foglio invece di tracciare un segno scuro.
Sua madre faceva l’impiegata, suo padre il camionista, lui la terza media per la seconda volta: i suoi genitori li vedeva prima di andare a dormire ed era abbastanza.

Un’apposizione non è un aggettivo, è un nome, ma si comporta come se lo fosse. Papà Gianfranco mangia sempre negli autogrill. Piero in grammatica era bravo, gli veniva facile, bastava capire le parole e metterle in un gruppo. Un po’ come con le persone. Walter era il suo migliore amico dalla prima elementare, aveva i denti storti, sputava lontano e parlava anche il romeno. Filippo invece era arrivato dopo, si era trasferito nello stesso condominio solo da un paio di anni, ma aveva ottime idee per far passare la noia. Come scambiare le fototessere delle epigrafi con le immagini ritagliate dai giornali. Al posto di Lina Fontana, di anni ottantadue, avevano appiccicato un primo piano di Lory Del Santo, così nessuno era andato al funerale e quelli delle pompe funebri non avevano visto un soldo.

Ogni pomeriggio si trovavano dietro al supermercato, perché c’era un parcheggio vuoto, posto perfetto per ascoltare la musica e guardare i porno. Li vedevano dal telefono di Walter, che era l’unico ad avere uno smartphone senza i filtri, se li era fatti rimuovere da suo fratello che in cambio aveva voluto cinque euro. Avevano fatto una colletta, un euro e sessantasette a testa, a tutti era sembrato un ottimo affare. Ogni tanto si andavano a sdraiare in mezzo alla rotonda dell’incrocio centrale, perché quello era l’unico spazio verde raggiungibile a piedi. Qualche volta portavano un pallone e giocavano a calcio, quando il sole batteva troppo forte si toglievano le magliette e rimanevano distesi a fissare il cielo fino a quando la vista sbiadiva; allora si alzavano, faticando a rimettersi in piedi e provavano ad attraversare la strada nonostante le vertigini. C’era da ridere. Una volta Piero era inciampato proprio quando stava passando una Punto. La donna al volante aveva frenato bruscamente e si era messa a urlare. Walter aveva subito scattato una foto e l’aveva caricata su Instagram, #nessunapaura #crazyfriend #nevergiveup: cento cuori in dieci minuti.

Piero e Filippo chiamavano Walter la iena era un buon esempio di predicativo dell’oggetto e la sacrosanta verità. Quando uscivano ed era di cattivo umore bisognava andargli dietro in silenzio e obbedire. Se la prendeva soprattutto con la città perché era dappertutto e non poteva difendersi: scriveva sulle panchine, rompeva gli specchi per fare manovra, rigava le macchine con le chiavi di casa e tutto perché gli ormoni avevano cominciato a girargli dentro. Lo diceva sempre sua madre, l’adolescenza è una malattia: comincia all’improvviso, se ne va col tempo e solo con le cure giuste. Walter si era riempito di brufoli sulle guance e aveva iniziato ad usare il deodorante. Piero no, dalle ascelle non usciva ancora nessuno odore e si svegliava sempre tranquillo. Walter invece se fosse stato un modo sarebbe stato l’imperativo categorico, bisognava obbedire ai suoi ordini e assecondare i suoi umori, che si erano fatti più variabili del futuro (comparativo di maggioranza).

Come quella volta che il padre di Filippo aveva avanzato mezzo barattolo di lavabile bianco e Walter l’aveva voluto prendere a tutti i costi. Ma cosa ce ne facciamo di un secchio di colore? (interrogativa diretta), gli aveva chiesto Piero. Walter non aveva risposto, era semplicemente uscito dalla stanza, lasciando la porta spalancata. Li aveva aspettati sul marciapiede, loro lo avevano raggiunto a mani vuote, così Walter aveva sbraitato di tornare a prendere il colore, a qualche cosa sarebbe servito di sicuro. Poi non avevano più capito niente perché si era messo a ringhiare in romeno una probabile lista di imprecazioni che pareva non avere mai fine.

Arrivati nel parcheggio Piero aveva detto che avrebbero potuto fare un graffito sul muro vicino al magazzino del supermercato. Filippo aveva ricordato che non avevano un pennello, non sapevano disegnare e che una scritta bianca su un muro bianco non l’avrebbe vista nessuno. Erano rimasti seduti sul bordo dell’aiuola senza parlarsi, Walter giocava col cellulare e non si accorgeva del sole che gli arrossava le braccia fino a farle diventare livide. Le gambe erano mangiate dalle zanzare, Walter ogni tanto grattandosi rompeva una crosta, veniva giù un rivolo di sangue che andava a sbiadire dentro la scarpa.

Oh! (interiezione) Ehi! (interiezione) Filippo aveva avuto un’idea. Erano andati sopra il cavalcavia da dove guardavano il sole tramontare fumando i mozziconi di sigaretta che Walter rubava dal posacenere di suo padre. Sapevano di sporco. Sotto di loro la tangenziale ruggiva vorace. I tre ragazzi la guardavano dall’alto senza riuscire a scorgere la fine, i profili dell’orizzonte si spappolavano sotto l’arsura.
Volevano far scivolare una bava di colore sopra la strada per sporcare di bianco i tettucci delle auto che correvano in seconda corsia. Avevano forato il coperchio, un buco impreciso fatto con un chiodo che Piero teneva sempre in tasca perché sua madre non voleva comprargli il coltellino svizzero. Era stato divertente, il colore era uscito sottile così un filo bianco era andato a cucire insieme tutti i veicoli che procedevano incolonnati, uno dopo l’altro, suonando il clacson qualche volta.
Avrei voluto essere io ad aver inventato la ruota, invece il mondo è già tutto pronto, aveva detto Walter. Piero aveva scosso il barattolo perché il colore scendesse più fluido e invece era venuto via il tappo che era rimbalzato su una Lancia blu col tettuccio apribile. Il colore aveva macchiato il parabrezza, l’uomo al volante aveva azionato i tergicristalli, che avevano tinto di bianco il vetro trasformandolo in lenzuolo.

Disastro in grammatica dovrebbe essere un nome comune di cosa, maschile, singolare, concreto, primitivo. Nel mondo reale disastro era un mucchio di macchine accartocciate l’una con l’altra, come i fogli di carta da buttare nel cestino.
C’era la gente incastrata nelle auto che gridava.
C’era la gente uscita dalle auto che gridava.

Piero, Walter e Filippo correvano sull’asfalto rovente, solo il caldo provava a fermarli, schiaffeggiava i loro visi, si aggrappava alle caviglie, riempiva i polmoni di aria gommosa: ogni respiro era doloroso.
Si erano fermati quando Filippo era caduto. Era inciampato vicino ai cassonetti per la raccolta differenziata, le ginocchia sanguinavano. Piero l’aveva aiutato ad alzarsi, solo allora si erano guardati e avevano visto che la paura aveva piegato le bocche e gli angoli degli occhi facendoli somigliare ai loro genitori.
Avevano camminato ancora, fino a quando la città aveva cambiato forma e dopo i palazzoni erano spuntate le fabbriche. Capannoni piatti e senza bellezza, chiusi in un silenzio estivo, sigillato dagli allarmi.

L’articolo partitivo indica una quantità imprecisata di un insieme, attenzione: non bisogna confonderlo con il complemento di specificazione.
C’erano deiart. partitivo ragazzini stanchi che avevano paura della morte.compl.di specificazione.

Non piangevano. Avevano proseguito fino a quando le fabbriche erano sprofondate dentro i campi e al posto dei lampioni era spuntato il granoturco. Si erano infilati tra le piante, le foglie taglienti avevano graffiato le loro spalle, sempre più curve. Le rondini volavano basso per catturare i moscerini, era spuntata una luna trasparente nonostante il sole non si fosse ancora spento. L’odore della città era sparito, avevano camminato ancora e ancora fino a consumare tutti gli ormoni, il disordine, la voglia di scappare.
Filippo aveva telefonato a sua madre.
Ci siamo persi, ti invio la posizione, vieni a prenderci.

Il periodo ipotetico esprime un’ipotesi e la sua conseguenza. Il congiuntivo trapassato usato nella protasi, serve a indicare solitamente impossibilità o irrealtà. Ad esempio: se non ci fosse stato internet, forse non sarebbero più tornati; se l’estate non fosse esistita ci sarebbe stato meno tempo vuoto; se non ci fosse stata l’adolescenza invece di guardare i porno avrebbero avuto una ragazza, se il mondo fosse stato meno pronto Piero, Walter e Filippo avrebbero trovato qualcosa da fare. E invece c’era solo da aspettare che il caldo passasse, come l’acne e il traffico in tangenziale.
Forse chi aveva inventato la grammatica aveva avuto bisogno di non annoiarsi più.